Le sale della rocca di Fal Dara, con pareti di pietra sobriamente decorate da raffinati arazzi e paraventi dipinti, erano in subbuglio per la notizia dell’imminente arrivo dell’Amyrlin Seat. Servitori in nero e oro correvano avanti e indietro a preparare stanze o a portare ordini nelle cucine, lamentandosi di non poter approntare una degna accoglienza a un personaggio così importante, senza un minimo di preavviso. Guerrieri dagli occhi scuri, con il cranio rasato, a parte il ciuffo legato con cordicelle di cuoio, non correvano, ma camminavano a passo vivace e mostravano un entusiasmo di norma riservato alla battaglia. Alcuni si rivolsero a Rand, che passava di fretta.
«Ah, sei qui, Rand al’Thor. La pace favorisca la tua spada. Vai a darti una pulita? Vorrai certo avere l’aspetto migliore, quando sarai presentato all’Amyrlin Seat. Lei chiederà di vedere te e i tuoi amici, stanne certo.»
Rand si diresse all’ampia scalinata, sufficiente per venti persone a fianco a fianco, che portava agli alloggi degli uomini.
«L’Amyrlin in persona, giunta senza preavviso come un venditore ambulante. Di sicuro a causa di Moiraine Sedai e di voi meridionali, eh?»
Gli ampi battenti listati di ferro degli alloggi degli uomini erano spalancati e il vano era affollato di guerrieri entusiasti per l’arrivo dell’Amyrlin Seat.
«Ehi, meridionale! C’è l’Amyrlin. Venuta per te e per i tuoi amici, immagino. Pace santa, quale onore per te! Di rado l’Amyrlin lascia Tar Valon. Che io ricordi, non è mai venuta nelle Marche di Confine.»
Rand li schivò tutti, con qualche risposta di circostanza. Doveva lavarsi, trovare una camicia pulita: non aveva tempo da perdere in chiacchiere. Gli altri ritennero di capire e lo lasciarono andare. Sapevano solo che lui e i suoi amici viaggiavano in compagnia di una Aes Sedai e che due degli amici erano donne che dovevano recarsi a Tar Valon per l’addestramento; eppure i loro commenti colpirono Rand come pugnalate, come se quegli uomini sapessero che l’Amyrlin era venuta per lui.
Percorse velocemente i corridoi, entrò nel locale che divideva con Mat e Perrin... e rimase a bocca aperta per lo stupore. La stanza, piena di donne in nero e oro, ferveva d’attività. Non era una stanza molto ampia e le finestre, due feritoie alte e strette che davano su di una corte interna, non contribuivano a farla sembrare più spaziosa. Tre letti, su piattaforme a piastrelle nere e bianche, ciascuno con un cassettone ai piedi, tre sedie normali, un portacatino accanto alla porta e un grande armadio occupavano quasi tutto lo spazio. Le otto donne l’affollavano come pesci in un paniere.
Le cameriere diedero a Rand appena un’occhiata e continuarono a togliere dall’armadio i suoi vestiti — e quelli di Mat e di Perrin — per sostituirli con altri nuovi. Il contenuto delle tasche finiva sui cassettoni e gli abiti vecchi erano ammucchiati con noncuranza, come stracci.
«Cosa combinate?» protestò Rand, quando ritrovò la voce. «Quelli sono i miei vestiti!» Una donna sbuffò, infilò il dito nello strappo dell’unica giacca di Rand e la gettò nel mucchio per terra.
Un’altra, dai capelli neri e con un grosso mazzo di chiavi alla cintura, lo guardò. Si trattava di Elansu, shatayan della rocca. Rand la considerava una governante, anche se la casa da lei governata era una roccaforte e decine di cameriere eseguivano i suoi ordini. «Moiraine Sedai ha detto che i tuoi vestiti sono da buttare e lady Amalisa ne ha fatti preparare di nuovi. Stai fuori dai piedi e finiremo prima.» Erano pochi gli uomini che la shatayan non riusciva a far rigare dritto (alcuni dicevano che perfino lord Agelmar faceva come lei voleva) ed era chiaro che non s’aspettava difficoltà da un giovanotto che poteva essere suo figlio.
Rand inghiottì la risposta: non aveva tempo di discutere. L’Amyrlin Seat poteva mandarlo a chiamare da un momento all’altro. «Onore a lady Amalisa per il regalo» riuscì a dire «e onore anche a te, Elansu Shatayan. Ti prego di portare a lady Amalisa le mie parole e riferire che le sono debitore con anima e corpo.» La frase doveva bastare a soddisfare l’amore per il cerimoniale di tutt’e due le donne, tipico degli shienaresi. «Ma ora, con il tuo permesso, vorrei cambiarmi.»
«Bene» rispose Elansu. «Moiraine Sedai ha detto di buttare tutta la roba vecchia, biancheria compresa.» Alcune donne guardarono di sottecchi Rand, ma nessuna si mosse per uscire.
Rand si morsicò l’interno delle guance per soffocare una risata isterica. Nello Shienar, parecchie usanze erano assai diverse da quelle a cui era avvezzo e ad alcune non si sarebbe mai adattato. Aveva preso l’abitudine di fare il bagno nelle ore piccole della notte, quando le ampie vasche piastrellate erano deserte, dopo avere scoperto che in qualsiasi momento una donna poteva entrare nell’acqua con lui. Fosse una sguattera o la stessa lady Amalisa, sorella di lord Agelmar (i bagni erano l’unico luogo dello Shienar in cui non si badava alla condizione sociale), si sarebbe aspettata che lui le strofinasse la schiena, in cambio d’analogo favore, chiedendogli magari se era così rosso in viso perché aveva preso troppo sole. Presto le donne avevano scoperto il vero motivo dei suoi rossori e tutte parevano restarne affascinate.
Rand si schiarì la voce. «Se aspettate fuori, vi passo il resto degli indumenti, lo giuro.»
Una donna ridacchiò e perfino Elansu sorrise, ma annuì e ordinò alle altre di raccogliere i fagotti già preparati. Uscì per ultima e si soffermò sulla soglia per soggiungere: «Anche gli stivali. Moiraine Sedai ha detto proprio tutto.»
Rand aprì bocca per protestare, ma cambiò idea. Gli stivali erano ancora in buone condizioni: li aveva fatti Alwyn al’Van, il ciabattino di Emond’s Field, ed erano morbidi e comodi, Ma se bastava rinunciare agli stivali perché la shatayan uscisse, glieli avrebbe dati subito. «Sì, certo» disse. «Lo giuro.» Spinse l’uscio e la costrinse a uscire.
Appena solo, si lasciò cadere sul letto per togliersi gli stivali, che erano davvero in buone condizioni, un po’ consumati e con qualche crepa nel cuoio, ma ammorbiditi dall’uso; poi si spogliò in fretta, ammucchiò sopra gli stivali gli indumenti e si diede una rapida lavata. L’acqua del catino era fredda: come sempre, negli alloggi degli uomini.
L’armadio aveva tre ante, i cui intagli, nel semplice stile dello Shienar, suggerivano, più che illustrare, una serie di cascate e di laghetti pietrosi. Rand aprì quella centrale e fissò per un momento gli abiti che avevano sostituito i pochi indumenti portati con sé. Una decina di giubbe accollate, di lana finissima e d’ottimo taglio, come ne aveva viste indosso a ricchi mercanti o a signorotti, per la maggior parte ricamate come gli abiti da festa. Per ogni giubba, tre camicie, di lino e di seta, con maniche ampie e polsini stretti. Due mantelli. Due, quando lui per tutta la vita si era arrangiato con uno solo per volta. Un mantello era semplice, di lana spessa, verde scuro; l’altro, blu, con ricami dorati, a forma d’airone, sul colletto rigido... mentre sul petto, a sinistra, dove un lord avrebbe portato l’emblema...
La mano si mosse quasi da sola verso il mantello. Come incerte di quel che avrebbero toccato, le dita sfiorarono il ricamo d’un serpente avvoltolato quasi a formare un cerchio, ma un serpente con quattro zampe e la criniera dorata d’un leone, a scaglie cremisi e oro, con i piedi che terminavano in cinque artigli d’oro. Rand ritrasse la mano, come se si fosse scottato. L’aveva fatto fare Amalisa, o Moiraine? Quanti sapevano che cos’era, che cosa significava? Anche uno solo era già troppo. La maledetta Moiraine cercava di farlo uccidere. Non gli parlava nemmeno, ma gli aveva dato dei vestiti nuovi ed eleganti in cui morire!
Udì bussare e sobbalzò.
«Hai terminato?» disse Elansu, da fuori. «Ti sei tolto tutto? Forse faccio meglio a...» Il pomo della maniglia cigolò.
Rand s’accorse d’essere nudo. «Ho quasi finito» gridò. «Non entrare.» Raccolse in fretta il fagotto, stivali e tutto. «Te li passo io!» Tenendosi nascosto dietro il battente, aprì l’uscio quanto bastava a mettere il fagotto nelle braccia della shatayan. «C’è tutto.»
Elansu cercò di scrutare nella stanza. «Sei sicuro? Moiraine Sedai ha detto ogni cosa. Forse è meglio che dia un’occhiata...»
«È tutto» brontolò Rand. «Lo giuro!» Con la spalla le chiuse in faccia la porta; da fuori provenne una risata.
Borbottando sottovoce, Rand si vestì in fretta: quelle là non ci avrebbero messo molto a trovare una scusa per entrare a tormentarlo. Le brache grigie erano più attillate di quelle a cui era abituato, ma comode, e la camicia, con le maniche a sbuffo, era abbastanza bianca da soddisfare qualsiasi massaia di Emond’s Field nel giorno del bucato. Gli stivali alti al ginocchio gli andavano bene come se li avesse portati da un anno. Rand si augurò che si trattasse del lavoro d’un buon calzolaio, non delle Aes Sedai.
Tutti quegli abiti avrebbero fatto un pacco grosso quanto lui. Eppure si era di nuovo abituato al piacere delle camicie pulite, a non portare le stesse brache un giorno via l’altro, finché per il sudore e per la polvere non diventavano rigide come gli stivali, e poi continuare a portarle. Dal cassettone prese le bisacce da sella e le riempì con quel che ci stava; poi, con riluttanza, allargò sul letto il mantello elegante e vi ammucchiò il resto. Piegato con il pericoloso emblema all’interno e legato con una cordicella in modo da appenderlo in spalla, non era molto diverso dai fagotti dei comuni viandanti.
Uno squillo di trombe filtrò dalle feritoie.
«Appena ho tempo, scucio quel ricamo» borbottò Rand. Mise nell’armadio il resto degli abiti, cioè la maggior parte: inutile lasciare prove della fuga in bella vista per il primo che avesse messo il naso nella stanza.
Ancora accigliato, s’inginocchiò accanto al letto. Nello Shienar, le piattaforme piastrellate che sostenevano i letti erano in realtà delle stufe: un piccolo fuoco, rincalzato per durare tutta la notte, teneva caldo il letto anche nelle peggiori notti d’inverno. Al momento, le notti erano fredde, ma per scaldarsi bastavano le coperte. Rand aprì lo sportello della camera di combustione ed estrasse un fagotto che non poteva abbandonare. Per fortuna, si disse, Elansu non aveva pensato di frugare anche lì alla ricerca di vecchi indumenti.
Posò sulle coperte il fagotto e ne aprì un lembo. L’involucro era un manto da menestrello, rovesciato in modo da nascondere le toppe multicolori, di ogni forma e sfumatura immaginabili. Il mantello in sé era in buono stato: le toppe erano l’emblema di menestrello.
Il fagotto conteneva due foderi di cuoio duro. Nel più grande c’era un’arpa che Rand non toccava mai. «L’arpa, ragazzo, non è fatta per le dita maldestre d’un contadino» gli aveva detto una volta Thom. L’altro fodero, lungo e sottile, conteneva il flauto intarsiato d’oro e d’argento che più d’una volta Rand aveva usato per guadagnarsi vitto e alloggio. Thom Merrilin, il menestrello cui appartenevano fagotto e contenuto, prima di morire gli aveva insegnato a suonare il flauto. Rand non poteva toccare lo strumento senza rivedere Thom, con gli acuti occhi azzurri e i lunghi baffi bianchi, mentre gli metteva fra le braccia il fagotto e gli gridava di scappare. E poi anche Thom si era messo a correre, ma nell’altra direzione, con i coltelli da lancio che gli comparivano fra le dita come per magia, quasi desse spettacolo, e aveva affrontato il Myrddraal che veniva a ucciderli.
Con un brivido, Rand richiuse il fagotto. «È tutto finito» disse. Pensò al vento in cima alla torre e ripeté le parole di Lan: «Accadono cose bizzarre, così vicino alla Macchia.» Non era sicuro di crederci e non era sicuro del significato che Lan aveva voluto dare alla frase. In ogni caso, anche senza l’arrivo dell’Amyrlin Seat, già da un pezzo era tempo che lui se ne andasse da Fal Dara.
Indossò la giubba messa da parte, di un bel verde scuro (gli ricordava le foreste di casa, la fattoria di Tam nel Westwood dov’era cresciuto, il Waterwood dove aveva imparato a nuotare) e si agganciò alla cintura la spada con l’airone e dall’altro lato la faretra piena di frecce. L’arco, senza la corda, era appoggiato in un angolo, insieme con quelli di Mat e di Perrin; alto una spanna più di lui, se l’era fabbricato da solo dopo l’arrivo a Fal Dara; oltre lui, solo Lan e Perrin riuscivano a tenderlo. Infilò nelle corde dei due fagotti il rotolo di coperte da viaggio e il nuovo mantello e se li appese alla spalla sinistra; vi mise sopra le bisacce da sella e prese l’arco. Doveva tenere libero il braccio destro per far credere d’essere pericoloso. Forse qualcuno l’avrebbe creduto davvero.
Socchiuse la porta e vide che il corridoio era quasi deserto: vi passava in fretta un servitore in livrea che non lo degnò d’uno sguardo. Appena il rumore di passi si affievolì, Rand uscì nel corridoio.
Cercò di camminare con naturalezza e noncuranza, ma con le bisacce in spalla e i fagotti sulla schiena pareva proprio quel che era: uno che si mette in viaggio e non intende tornare. Le trombe mandarono un altro richiamo che suonò più debole, lì dentro la rocca.
Rand aveva un cavallo, un alto destriero baio, nella stalla di tramontana, detta Stalla Padronale, nei pressi della porta secondaria usata da lord Agelmar per le uscite a cavallo. Ma né il signore di Fal Dara né i suoi familiari sarebbero usciti, quel giorno; e forse nella stalla ci sarebbero stati soltanto i mozzi. Dalla stanza di Rand c’erano due percorsi per arrivare alla Stalla Padronale: uno, intorno alla rocca, dietro il giardino privato di lord Agelmar, poi giù dalla parte opposta, passando da dentro la bottega del maniscalco, di sicuro deserta. Questo percorso richiedeva un certo tempo, quanto bastava perché iniziassero le ricerche, prima che Rand arrivasse al cavallo. L’altro era molto più corto, ma bisognava passare dalla corte esterna, dove in quel momento giungeva l’Amyrlin Seat con una decina d’altre Aes Sedai.
Al solo pensiero Rand si sentì accapponare la pelle: aveva avuto una razione di Aes Sedai sufficiente per qualsiasi vita normale. Una era già troppo. Le storie dei menestrelli lo dicevano e lui l’aveva provato di persona. Ma non si stupì, quando i piedi lo portarono verso la corte esterna. Non avrebbe mai visto la leggendaria Tar Valon, ma poteva dare un’occhiata all’Amyrlin Seat, prima d’andarsene. Equivaleva a vedere una regina. Non c’era niente di pericoloso, in una semplice occhiata da lontano. Avrebbe continuato a muoversi e sarebbe andato via prima ancora che l’Amyrlin Seat sapesse che era lì.
Aprì la pesante porta listata di ferro e uscì nella corte esterna. La gente affollava i camminamenti d’ogni muro: soldati, servitori in livrea, domestici ancora sporchi, l’uno accanto all’altro, con bambini seduti a cavallaccio per guardare da sopra la testa degli adulti o infilati a scrutare da mezzo le ginocchia. Ogni piattaforma per gli arcieri era gremita e c’era anche gente che guardava dalle feritoie. Una fitta folla, simile a un muro umano, costeggiava la corte. Tutti aspettavano in silenzio.
Rand si avviò lungo il muro, davanti alle fucine e alle botteghe dei fabbricanti di frecce (Fal Dara era una roccaforte, non un palazzo, nonostante le dimensioni e la grandiosità, e in essa ogni cosa era vista sotto questa luce), scusandosi sottovoce con chi urtava. Qualcuno si girò, accigliato; due o tre diedero una seconda occhiata alle bisacce e ai fagotti; ma nessuno disse niente, La maggior parte non si prese nemmeno la briga di girarsi allo spintone.
Rand riusciva facilmente a guardare da sopra la testa di quasi tutti, quanto bastava a vedere che cosa accadeva nella corte. Proprio all’interno della porta principale, sedici uomini in fila erano fermi accanto al proprio cavallo. Non ce n’erano due con lo stesso tipo d’armatura e di spada, e nessuno assomigliava a Lan, ma Rand non dubitò che fossero Custodi: avevano tutti l’aria di chi vede e ode cose che agli altri sfuggono. Parevano micidiali come un branco di lupi, In comune avevano un’unica cosa: il mantello cangiante che Rand aveva visto per la prima volta addosso a Lan, un mantello che spesso pareva confondersi con l’ambiente.
Una decina di passi davanti ai Custodi c’erano alcune donne in fila, col cappuccio del manto abbassato, ferme accanto alla testa del proprio cavallo. Rand ora riuscì a contarle: quattordici. Quattordici Aes Sedai. Alte e basse, snelle e grassocce, more e bionde, capelli corti o lunghi, sciolti o a treccia, indossavano tutte abiti di taglio e di colore diversi: analogamente ai Custodi, non ce n’erano due uguali. Eppure anche loro avevano una uniformità che risaltava solo quando si trovavano insieme come in quel momento: parevano tutte senza età. Da quella distanza, Rand le avrebbe ritenute giovani, ma sapeva che da vicino avrebbero avuto lo stesso aspetto di Moiraine. Giovanile, ma non giovane: viso liscio eppure troppo maturo, occhi troppo esperti.
Rand proseguì verso la meta, un’altra porta rinforzata in ferro, all’estremità opposta della corte, ma continuò a guardare.
Le Aes Sedai non badavano agli astanti e mantennero l’attenzione sulla portantina chiusa, ora al centro della corte. I cavalli a cui era legata se ne stavano immobili come se avessero a fianco il proprio stalliere, ma accanto alla portantina c’era solo un’altra donna, anche lei Aes Sedai, a giudicare dal viso; e non badava ai cavalli: reggeva dritto davanti a sé, a due mani, un lungo bastone sormontato da una fiamma dorata.
Dall’altra parte della corte, di fronte alla portantina, c’era lord Agelmar, alto e impettito, con espressione indecifrabile. Indossava la giubba blu scuro, con le tre volpi rosse in corsa, emblema di Casa Jagad, oltre al falco nero in picchiata dello Shienar. Al suo fianco c’era Ronan, raggrinzito per gli anni, ma ancora dritto: lo shambayan portava un lungo bastone intagliato con tre volpi rosse in cima. Ronan era la controparte di Elansu nella gestione della rocca: shambayan e shatayan; ma Elansu lasciava ben poco alle cure di Ronan, a parte le cerimonie e i compiti da segretario di lord Agelmar.
Tutti — Custodi, Aes Sedai, Signore di Fal Dara e il suo shambayan — erano immobili come pietra. La folla pareva trattenere il respiro. Controvoglia, Rand rallentò il passo.
All’improvviso Ronan batté tre volte il bastone sulle pietre del lastrico e nel silenzio proclamò: «Chi viene qui? Chi viene qui? Chi viene qui?»
La donna accanto alla portantina batté tre volte il bastone in risposta. «La Guardiana dei Sigilli. La Fiamma di Tar Valon. L’Amyrlin Seat.»
«Perché dovremmo montare la guardia?» domandò Ronan.
«Per la speranza dell’umanità» replicò la donna alta.
«Contro chi montiamo la guardia?»
«L’ombra a mezzodì.»
«Per quanto tempo monteremo la guardia?»
«Dal sorgere del sole al sorgere del sole, fin quando la Ruota del Tempo girerà.»
Agelmar s’inchinò, col ciuffo canuto mosso dalla brezza, «Fal Dara offre pane e sale e benvenuto» disse. «Benvenuta è l’Amyrlin Seat a Fal Dara, perché qui si monta la guardia, qui si mantiene il Patto. Benvenuta.»
La donna alta scostò la tenda e l’Amyrlin Seat scese dalla portantina. Capelli neri, età indefinibile di tutte le Aes Sedai, si raddrizzò e girò lo sguardo sugli astanti. Rand trasalì, quando lo sguardo passò dalla sua parte, come se ne fosse stato toccato. Ma lo sguardo passò oltre e si soffermò su lord Agelmar. Un servitore in livrea s’inginocchiò a fianco dell’Amyrlin Seat, reggendo su di un vassoio d’argento asciugamani ripiegati, ancora fumanti. Seguendo la tradizione, l’Amyrlin Seat si pulì le mani e con un panno umido si tamponò il viso. «Ti ringrazio per il benvenuto, figlio mio» disse. «Possa la Luce illuminare Casa Jagad. E possa illuminare Fal Dara e tutta la sua gente.»
Agelmar s’inchinò di nuovo. «Tu ci rendi onore, Madre» rispose. Era normale che lei lo chiamasse figlio mio e lui Madre, anche se il confronto tra le guance lisce dell’Amyrlin Seat e i tratti scabri di Agelmar faceva pensare che quest’ultimo fosse suo padre, se non suo nonno. «Casa Jagad è tua» proseguì lord Agelmar. «Fal Dara è tua.»
Da ogni parte si levarono grida d’entusiasmo che rimbalzarono come frangenti contro le mura della rocca.
Con un brivido Rand si affrettò verso la porta e la salvezza, senza badare adesso a chi urtava. Era colpa della sua stessa immaginazione, si disse; l’Amyrlin Seat non sapeva nemmeno chi era lui. Per il momento. Se avesse saputo chi era e che cos’era... Non volle pensarci. Si domandò se l’Amyrlin Seat fosse in qualche modo responsabile del vento in cima alla torre; le Aes Sedai erano in grado di influenzare gli elementi. Varcò la porta e la richiuse, tagliando fuori i clamori di benvenuto che ancora scuotevano la corte; solo allora trasse un sospiro di sollievo.
Anche lì i corridoi erano deserti. Rand li attraversò quasi di corsa; uscì in una corte più piccola, al cui centro zampillava una fontana, percorse un altro corridoio e alla fine si trovò nella stalla lastricata. La Stalla Padronale, costruita nelle mura della rocca, era alta e lunga, con ampie finestre sull’interno delle mura e due piani per alloggiare i cavalli. La bottega dalla parte opposta della corte era silenziosa: il maniscalco e i suoi aiutanti erano andati ad assistere al Benvenuto.
Thema, il capo stalliere dal viso scuro come cuoio, lo accolse sulla porta, con un ampio inchino, toccandosi fronte e cuore in segno di saluto. «Spirito e cuore al tuo servizio, milord» disse. «Cosa posso fare per te?» Non portava il ciuffo dei guerrieri: i capelli gli coprivano la testa, come una ciotola grigia capovolta.
Rand sospirò. «Te l’avrò detto mille volte, Thema: non sono lord.»
«Come milord preferisce.» Stavolta l’inchino dello stalliere fu anche più profondo del solito.
Il guaio nasceva dalla similarità dei nomi: Rand al’Thor e al’Lan Mandragoran. Secondo l’usanza del Malkier, il prefisso reale al’ qualificava Lan come Sovrano, anche se il Custode stesso non lo adoperava mai. Nel caso di Rand, al’ faceva solo parte del nome, anche se, in tempi in cui il territorio dei Fiumi Gemelli era chiamato in un altro modo, significava ‘figlio di’. Però alcuni servi nella rocca di Fal Dara si erano convinti che Rand fosse un re, o quanto meno un principe. A furia di protestare, Rand era riuscito solo a scendere al rango di lord; però non aveva mai visto inchini così profondi, nemmeno nei confronti di lord Agelmar.
«Ho bisogno che Red sia sellato» disse. Sapeva che era inutile provare a sellarlo da solo: Thema non gli avrebbe permesso di sporcarsi le mani. «Passerò qualche giorno a visitare i territori intorno alla città.» Una volta in sella al grande baio, in qualche giorno sarebbe arrivato al fiume Erinin o avrebbe varcato la frontiera con l’Arafel. E allora nessuno l’avrebbe più trovato.
Lo stalliere si piegò quasi in due e rimase in quella posizione. «Chiedo perdono, milord» mormorò con voce fioca. «Non posso ubbidire.»
Rand arrossì d’imbarazzo e si guardò ansiosamente intorno: non c’era nessuno in vista. Afferrò per la spalla lo stalliere e lo tirò in piedi. «Perché? Thema, guardami, per favore. Perché non puoi?»
«Mi è stato ordinato, milord» rispose Thema, sempre sottovoce. Continuò a tenere bassi gli occhi, non per la paura, ma per la vergogna di non poter esaudire la richiesta di Rand. Per la gente dello Shienar, la vergogna equivaleva al marchio da ladro per altri. «Nessun cavallo può lasciare questa stalla, fino a nuovo ordine. Né le altre stalle della rocca, milord.»
Rand aveva aperto bocca per dire che tutto era a posto, invece si umettò le labbra. «Nessun cavallo di nessuna stalla?»
«Sì, milord. L’ordine è arrivato solo da pochi minuti. Anche tutte le porte sono chiuse, milord. Nessuno può entrare né uscire, senza permesso. Nemmeno la ronda cittadina, a quanto m’hanno detto.»
Rand deglutì con forza, ma non riuscì a cancellare l’impressione che dita invisibili gli stringessero la gola. «L’ordine, Thema. Proviene da lord Agelmar?»
«Naturalmente, milord. Chi altri? Certo, lord Agelmar non l’ha comunicato di persona né a me né a colui che me l’ha trasmesso, ma chi altri a Fal Dara può dare un ordine del genere?»
Chi altri? Rand sobbalzò al rintocco della campana maggiore della torre campanaria della rocca. Le altre campane si unirono al frastuono, imitate poco dopo da tutte quelle della città.
«Se posso osare» disse lo stalliere, alzando la voce per farsi udire al di sopra dello scampanio «milord sarà di certo assai contento.»
«Contento? E perché?»
«Il Benvenuto è terminato, milord.» Con un gesto indicò la torre campanaria. «L’Amyrlin Seat manderà a chiamare milord e i suoi amici perché si presentino subito da lei.»
Rand si allontanò di corsa. Ebbe solo il tempo di scorgere l’aria sorpresa sul viso di Thema. Non gli importava che cosa avrebbe pensato lo stalliere. Aveva in testa un solo pensiero: l’Amyrlin Seat già lo cercava.