La città di Cairhien sorgeva tra le colline poste contro il fiume Alguenya; Rand ne ebbe la prima vista dalle colline settentrionali, sotto il sole di mezzodì. Elricain Tavolin e i cinquanta soldati cairhienesi gli parevano sempre più delle guardie — soprattutto da quando avevano superato il ponte di Gaelin: diventavano più rigidi man mano che procedevano verso meridione — ma Loial e Hurin non badavano a loro e allora anche lui si sforzò di non farci caso. Ammirò la città, fra le più grandi che avesse visto. Grosse navi e larghe chiatte riempivano il fiume; alti granai erano disseminati lungo la riva opposta; ma dentro le mura alte e grigie, Cairhien pareva disposta secondo una precisa griglia. Le mura stesse formavano un quadrato perfetto, con un fianco lungo il fiume. All’interno delle mura, secondo uno schema altrettanto preciso, s’alzavano torri dalla cima diroccata, fino a venti volte più alte delle mura.
Fuori della città, da riva a riva, c’era una distesa fitta di viuzze che s’incrociavano alla rinfusa e formicolavano di gente. Da Hurin Rand aveva saputo che quella garenna si chiamava Fuoriporta: un tempo c’era un mercato di villaggio per ogni porta della città, ma nel corso degli anni i mercati erano diventati uno solo, un guazzabuglio di viuzze e di vicoli che continuava a estendersi da ogni parte.
Quando Rand e gli altri imboccarono queste vie di terra battuta, Tavolin ordinò ad alcuni soldati d’aprire un varco tra la folla, gridando e spingendo avanti i cavalli e minacciando di calpestare chi non si fosse tolto rapidamente di mezzo. La gente si scansava senza dare più d’uno sguardo, come se fosse abituata. Rand, però, si ritrovo a sorridere. .
La gente di Fuoriporta portava in genere abiti frusti, eppure lì il colore abbondava e c’era un rauco trambusto di vita. Venditori ambulanti offrivano a gran voce la propria merce, bottegai invitavano la gente a esaminare la mercanzia esposta sui banchi. Barbieri, fruttivendoli, arrotini, uomini e donne che offrivano decine di servizi e centinaia d’oggetti, giravano tra la folla. Da più d’un edificio filtrava musica. Sulle prime Rand pensò che provenisse da locande, ma le insegne mostravano uomini che suonavano il flauto o l’arpa, che facevano capriole o giochi di destrezza; e per quanto si trattasse di edifici ampi, non c’erano finestre. La maggior parte delle costruzioni di Fuoriporta, grandi o piccole, pareva di legno e molte di esse, per quanto scalcinate, parevano nuove. Rand guardò a bocca aperta alcuni edifici che superavano perfino i sette piani: ondeggiavano un poco, ma la gente che entrava e usciva frettolosamente pareva non accorgersene.
«Paesani» borbottò Tavolin, con disgusto. «Guardate come sono corrotti da usi forestieri. Non dovrebbero trovarsi qui.»
«E dove, allora?» domandò Rand. L’ufficiale gli scoccò un’occhiata velenosa e spronò il cavallo, scostando la folla a colpi di frustino.
Hurin toccò il braccio di Rand. «Colpa della Guerra Aiel, lord Rand» disse. Si accertò che nessun soldato fosse tanto vicino da ascoltare. «Molti contadini avevano paura di tornare alle loro terre lungo la Dorsale del Mondo e sono venuti quasi tutti qui. Per questo Galldrian fa arrivare dall’Andor e da Tear chiatte cariche di granaglie. Le fattorie orientali non mandano prodotti, perché non ci sono più contadini. Ma è meglio non parlarne con i cairhienesi, milord. A loro piace fingere che la guerra non ci sia mai stata, o quanto meno che l’abbiano vinta.»
Malgrado il frustino di Tavolin, furono costretti a fermarsi perché un bizzarro corteo attraversava la via. Sei uomini, che suonavano tamburelli e ballavano, precedevano una fila d’enormi fantocci, alti una volta e mezzo gli uomini che li muovevano mediante lunghi bastoni. Grandi figure incoronate, uomini e donne, in veste lunga e ornata, s’inchinavano alla folla, tra raffigurazioni d’animali fantasiosi: un leone con le ali; un capro ritto sulle zampe posteriori, con due teste che sputavano fuoco, a giudicare dagli striscioni cremisi penzolanti dalla bocca; un animale che pareva metà gatto e metà aquila; un altro con testa d’orso su corpo umano, che Rand ritenne raffigurazione d’un Trolloc. La folla mandava grida d’entusiasmo e rideva, mentre il corteo passava tra danze e capriole.
«L’uomo che ha costruito quel pupazzo non ha mai visto un Trolloc» borbottò Hurin, «La testa è troppo grossa, il corpo è troppo magro. Li considerano creature immaginarie come le altre. Gli unici mostri in cui credono, sono gli Aiel.»
«C’è una festa?» domandò Rand. Non vedeva altri segni, a parte il corteo, ma doveva pur esserci un motivo. Tavolin ordinò ai soldati di riprendere il cammino.
«Come ogni giorno, Rand» disse Loial. Camminando a fianco del cavallo, sulla cui sella c’era sempre lo scrigno nascosto dalla coperta, l’Ogier attirava tanti sguardi quanto i pupazzi. C’era perfino chi rideva e applaudiva, come al passaggio del corteo. «Galldrian tiene calma la popolazione, con i divertimenti» spiegò Loial. «Elargisce a menestrelli e musici il Dono del Re, un compenso in argento, perché si esibiscano qui a Fuoriporta e ogni giorno patrocina corse di cavalli in una pista lungo il fiume. Molto spesso di notte ci sono anche i fuochi artificiali.» Parve disgustato. «L’anziano Haman dice che Galldrian è una sciagura.» Batté le palpebre, rendendosi conto di quel che aveva appena detto, e subito si guardò intorno per scoprire se qualche soldato avesse udito. Pareva che nessuno l’avesse ascoltato.
«Fuochi artificiali» annuì Hurin. «Ho sentito dire che a Cairhien gli Illuminatori hanno costruito una sala capitolare come quella di Tanchico. Quando c’ero io, non m’interessava molto guardare i fuochi artificiali.»
Rand scosse la testa. Non aveva mai visto fuochi artificiali tanto elaborati da richiedere la presenza anche d’un solo Illuminatore. Aveva sentito dire che gli Illuminatori lasciavano Tanchico solo per fare spettacoli in onore di sovrani. Era una città bizzarra, quella in cui stava per entrare.
Davanti all’arco alto e quadrato delle porte della città, Tavolin ordinò l’alt e smontò accanto a un tozzo edificio di pietra appena dentro le mura. L’edificio aveva feritoie, anziché finestre, e una spessa porta rinforzata con bande di ferro.
«Un momento, milord Rand» disse l’ufficiale. Diede le redini a un soldato e scomparve dentro l’edificio.
Rand diede un’occhiata di diffidenza ai soldati, seduti rigidamente in sella e disposti su due lunghe file. Si domandò che cosa avrebbero fatto, se lui, Loial e Hurin avessero cercato di andarsene. Approfittò della sosta per osservare la città.
La Cairhien vera e propria era in netto contrasto con la caotica confusione di Fuoriporta. Vie lastricate, tanto ampie da far sembrare inferiore al reale il numero di passanti, si tagliavano ad angolo retto. Portantine chiuse, alcune ornate di piccoli guidoni con l’emblema del Casato, passavano lentamente; carrozze si muovevano senza fretta. La gente camminava in silenzio, vestita di scuro, senza colori vivaci tranne qua e là una banda di traverso sul petto della giubba o della veste. Più bande aveva, più la persona presentava atteggiamento orgoglioso, ma nessuno rideva e neppure sorrideva. Gli edifici, sulle colline a terrazze, erano tutti di pietra, con ornamenti a linee e angoli retti. Nelle vie non c’erano imbonitori né venditori ambulanti; anche le botteghe parevano in sordina: le insegne erano piccole e la mercanzia non era esposta all’esterno.
Ora le alte torri si vedevano con chiarezza. Erano circondate di piattaforme di pali legati insieme; operai sciamavano sulle impalcature e aggiungevano pietre per rendere più alte le torri.
«Le Torri Senza Cima di Cairhien» mormorò Loial, in tono triste. «Be’, un tempo erano tanto alte da giustificare il nome. Quando gli Aiel presero Cairhien, circa all’epoca della tua nascita, le torri bruciarono, si creparono e crollarono. Non vedo nessun Ogier, fra i muratori. Agli Ogier non piacerebbe lavorare qui... i cairhienesi vogliono lavori semplici, senza abbellimenti. Ma c’erano degli Ogier, quando sono passato da qui.»
Tavolin uscì, accompagnato da un altro ufficiale e da due scrivani: uno portava un grosso registro dalla copertina in legno; l’altro, un vassoio con l’occorrente per scrivere. La fronte dell’ufficiale era rasata come quella di Tavolin, anche se pareva che la calvizie gli avesse portato via più capelli del rasoio. Tutt’e due gli ufficiali girarono lo sguardo da Rand allo scrigno nascosto sotto la coperta e viceversa. Nessuno dei due domandò che cosa ci fosse lì sotto. Tavolin aveva guardato spesso la coperta, nel tragitto da Tremonsien, ma neanche lui aveva fatto domande. Il calvo guardò pure la spada di Rand e per un istante sporse le labbra.
Tavolin lo presentò come Asan Sandair e annunciò a voce alta: «Lord Rand, di Casa al’Thor, dell’Andor, e il suo servitore, chiamato Hurin, con Loial, un Ogier di Stedding Shangtai.» Lo scrivano aprì il registro e Sandair vi scrisse i nomi, in bella grafia.
«Dovrai tornare in questo corpo di guardia domani alla stessa ora, milord» disse Sandair, lasciando al secondo scrivano il compito d’asciugare l’inchiostro «per comunicare il nome della locanda dove alloggi.»
Rand guardò le vie prive d’animazione di Cairhien e quelle più vivaci di Fuoriporta. «Puoi suggerirmi il nome d’una buona locanda da quelle parti?» domandò con un cenno in direzione di Fuoriporta.
Con un sibilo frenetico Hurin richiamò l’attenzione di Rand e si sporse verso di lui. «Non sarebbe appropriato, lord Rand» bisbigliò. «Se ti fermi a Fuoriporta, pur essendo un lord, si convinceranno che trami chissà cosa.»
Rand capì che l’annusatore aveva ragione. Sandair era rimasto a bocca aperta e Tavolin aveva inarcato il sopracciglio: tutt’e due lo fissavano con attenzione. Rand avrebbe voluto dire loro che non giocava al Grande Gioco; invece disse: «Prenderemo alloggio in città. Ora possiamo andare?»
«Certo, milord Rand» rispose Sandair, con un inchino. «Ma... la locanda?»
«Ti farò sapere il nome, quando ne troveremo una.» Si girò verso Red, esitò. In tasca gli frusciava il biglietto di Selene. «Devo trovare una giovane donna di Cairhien. Lady Selene. Ha la mia età ed è molto bella. Non so il suo Casato.»
Sandair e Tavolin si scambiarono un’occhiata. Sandair disse: «Farò delle ricerche, milord. Forse sarò in grado di riferirti qualcosa, quando tornerai domani.»
Rand annuì e guidò in città Loial e Hurin. Non c’era molta gente a cavallo, ma i tre attirarono poca attenzione, perfino Loial. Pareva che tutti ostentassero di badare ai fatti propri.
«Interpreteranno male la mia richiesta di notizie su Selene?» domandò Rand.
«Con i cairhienesi non si può mai dire» rispose Hurin. «Pensano sempre che tutto abbia a che fare con il Daes Dae’mar.»
Rand scrollò le spalle. Si sentiva osservato da tutti. Non vedeva l’ora di mettersi una giubba normale e smetterla d’impersonare chi non era.
Hurin conosceva diverse locande della città, anche se a Cairhien era stato soprattutto a Fuoriporta. Li condusse a una locanda chiamata Il Difensore del Muro del Drago, la cui insegna mostrava un uomo con la corona, che teneva il piede sul petto di un altro e la spada contro la gola di un secondo. Quello disteso sulla schiena aveva capelli rossi.
Un mozzo di stalla venne a prendere i cavalli e scoccò rapide occhiate a Rand e a Loial, quando pensava che non guardassero. Rand si disse di smetterla di fantasticare: non era possibile che tutti, in città, giocassero quel loro Gioco. Comunque, se lo giocavano, lui non c’entrava per niente.
La sala comune era pulita, con i tavoli disposti in bell’ordine come il resto della città; i pochi avventori diedero un’occhiata ai nuovi venuti e tornarono subito a guardare il proprio bicchiere di vino. Però Rand ebbe l’impressione che continuassero a guardare e che tendessero anche l’orecchio. Nell’ampio camino ardeva un fuocherello, anche se la giornata era calda.
Il locandiere era un tipo grasso e untuoso; portava una banda verde di traverso sulla giubba grigio scuro. Nel vederli, trasalì e Rand non se ne sorprese: Loial, con lo scrigno sottobraccio, fu costretto a chinare la testa per entrare; Hurin era carico di bisacce e di fagotti; e la giubba rossa di Rand contrastava con gli abiti dai colori smorti degli altri avventori.
Il locandiere notò la giubba e la spada di Rand e ritrovò subito il sorriso untuoso. S’inchinò, sfregandosi le mani. «Chiedo scusa, milord. Per un attimo solo t’avevo scambiato per un... Chiedo scusa. Non ho più la testa d’una volta. Desideri delle stanze, milord?» Aggiunse un altro inchino, meno profondo, per Loial. «Mi chiamo Cuale, milord.»
Mi ha scambiato per un Aiel, pensò acidamente Rand. Voleva andarsene al più presto da Cairhien. Ma era l’unico posto dove Ingtar poteva trovarlo. E Selene aveva detto che lo avrebbe aspettato a Cairhien.
Non occorse molto tempo per preparare le stanze, mentre Cuale, con troppi sorrisi e inchini, spiegava che era necessario spostare un letto per Loial. Rand chiese di nuovo una sola stanza, ma fra lo sguardo scandalizzato del locandiere e l’insistenza di Hurin, finì per prenderne una per sé e una per gli altri due, con una porta di comunicazione.
Le stanze erano simili, a parte il fatto che la seconda aveva due letti, uno dei quali adatto all’Ogier, mentre in quella di Rand ce n’era uno solo, però grande quasi quanto gli altri due, con massicce colonnine che sfioravano il soffitto. Anche la poltrona dall’alto schienale e il lavabo erano squadrati e massicci; l’armadio posto contro la parete, intagliato in uno stile pesante, pareva pronto a cadergli addosso. Due finestre, ai lati del letto, guardavano nella via, due piani più in basso.
Appena il locandiere fu uscito, Rand aprì la porta di comunicazione e chiamò Loial e Hurin. «Questa città è un tormento» disse. «Tutti mi guardano come se pensassero che combini chissà cosa, Vado un’oretta a Fuoriporta: là, almeno, la gente ride. Chi vuole fare il primo turno di guardia al Corno?»
«Io» rispose subito Loial. «Ne approfitto per leggere un poco. Non ho visto altri Ogier, ma non significa che non ce ne siano. Stedding Tsofu non dista molto dalla città.»
«Credevo che ti sarebbe piaciuto incontrarli.»
«Ah... no, Rand. L’ultima volta m’hanno fatto un mucchio di domande perché ero da solo fuori dello stedding. Se hanno avuto contatti con Stedding Shangtai... Be’, meglio restare qui a leggere.»
Rand scosse la testa: dimenticava spesso che Loial era scappato di casa per vedere il mondo. «E tu, Hurin? C’è musica, a Fuoriporta, e gente allegra. Scommetto che là nessuno gioca il Daes Dae’mar.»
«Non ne sarei così sicuro, lord Rand. In ogni caso, ti ringrazio per l’invito, ma preferisco non accompagnarti. Ci sono tante di quelle zuffe, e anche uccisioni, a Fuoriporta, che il posto puzza, se mi spiego. Ma non daranno fastidio a un lord: si ritroverebbero alle costole i soldati. Se non ti spiace, preferisco andare a bere nella sala comune.»
«Hurin, non ti serve il mio permesso. Lo sai.»
«Certo, milord.» Accennò a un inchino.
Rand sospirò. Se non se ne fossero andati presto da Cairhien, Hurin avrebbe cominciato a fargli inchini a ogni piè sospinto. E se Mat e Perrin l’avessero visto, gliel’avrebbero ricordato in continuazione. «Mi auguro che nessun intralcio faccia tardare Ingtar. Se non viene in fretta, dovremo riportare noi stessi il Corno a Fal Dara.» Si tastò la tasca e toccò il biglietto di Selene. «Loial, tornerò presto, così potrai dare un’occhiata alla città.»
«Preferisco non rischiare, Rand.»
Hurin l’accompagnò da basso. Appena entrarono nella sala comune, Cuale s’avvicinò a Rand e con un inchino gli presentò un vassoio con tre fogli di pergamena, piegati e sigillati. Rand li prese: erano fogli d’ottima pergamena, sottile e liscia. Costosa.
«Cosa sono?» domandò.
Cuale s’inchinò di nuovo. «Inviti, naturalmente, milord. Di tre nobili Case.» Gli rivolse un altro inchino e s’allontanò.
«Chi può mandarmi un invito?» si domandò Rand, rigirando i fogli. Nessuno, degli avventori seduti ai tavoli, alzò lo sguardo; ma Rand ebbe l’impressione che tutti lo tenessero d’occhio. Non riconobbe i sigilli. Nessuno recava la falce di luna e le stelle del sigillo di Selene. «Chi saprà che sono qui?»
«Ormai, tutti, lord Rand» disse piano Hurin. Pareva che lui pure si sentisse osservato. «Le guardie alla porta non terrebbero certo la bocca chiusa all’arrivo d’un lord forestiero. Il mozzo di stalla, il locandiere... ciascuno racconta quel che sa, se ritiene che gli sia di vantaggio, milord.»
Con una smorfia, Rand mosse due passi e gettò nel fuoco gli inviti. La pergamena bruciò subito. «Non gioco il Daes Dae’mar» disse, a voce abbastanza alta perché tutti udissero. Neppure Cuale lo guardò. «Non ho niente a che fare col vostro Grande Gioco. Sono qui solo per aspettare alcuni amici.»
Hurin lo prese per il braccio. «Per favore, lord Rand» disse, in un bisbiglio pressante. «Per favore, non farlo mai più.»
«Perché? Credi che riceverò altri inviti?»
«Di sicuro. Luce santa, mi sembri Teva, che s’infastidì così tanto perché una vespa gli ronzava intorno, da prendere a calci il nido. Così hai solo convinto tutti i presenti d’essere nel Gioco fino al collo; in particolare perché hai negato di giocarlo, penseranno. Tutti i lord e le lady di Cairhien lo giocano.» Diede un’occhiata ai fogli arricciati e anneriti. Storse la bocca. «E senza dubbio ti sei inimicato tre Case. Non Case importanti, altrimenti non si sarebbero mosse così in fretta, ma pur sempre Case nobili, Devi rispondere a ogni altro invito che riceverai, milord. Declinalo, se ne hai voglia... anche se faranno illazioni, sui motivi per cui l’hai declinato. O hai accettato altri inviti. Certo, se li declini tutti, o se li accetti tutti...»
«Non mi presterò al gioco» disse Rand, sottovoce. «Lasceremo Cairhien al più presto possibile.» Infilò il pugno nella tasca della giubba e sentì che il biglietto di Selene si stropicciava. Lo tirò fuori e lo lisciò sul davanti della giubba. «Al più presto possibile» borbottò, rimettendo in tasca il foglio. «Fatti pure la tua bevuta, Hurin.»
Uscì a passo deciso, arrabbiato, non sapeva se con se stesso, se con Cairhien e il suo Grande Gioco, con Selene per la sua scomparsa, con Moiraine. Era lei, la causa di tutto: gli aveva buttato via i vestiti e gli aveva dato abiti da lord. Ormai si riteneva libero dalle loro interferenze, ma anche ora un’Aes Sedai riusciva a condizionargli la vita... e non era neppure presente.
Passò dalla stessa porta da cui era entrato in città, perché non conosceva altre strade. Un uomo in piedi davanti al corpo di guardia prese nota del suo passaggio — Rand risaltava sia per la giubba scarlatta, sia perché era più alto della media dei cairhienesi — e rientrò in fretta, ma Rand non se ne accorse. Le risate e le musiche di Fuoriporta lo attiravano.
Se, dentro le mura, la giubba rossa a ricami in oro lo metteva in evidenza, a Fuoriporta lo confondeva con gli altri. Parecchi, nelle vie affollate, vestivano con gli stessi colori smorti della gente in città, ma altrettanti indossavano giubbe rosse, azzurre, verdi, oro — alcuni indossavano abiti di colori così sgargianti da poter passare per Calderai — e le donne portavano vesti ricamate e sciarpe o scialli multicolori. Per la maggior parte, questi abiti eleganti erano in cattive condizioni o non s’adattavano a chi li indossava, come se in origine fossero stati fatti per altre persone; alcuni guardavano la giubba vistosa di Rand, ma nessuno pareva trovarla fuori luogo.
A un certo punto Rand si trovò bloccato da un’altra processione di grandi pupazzi. I musicanti suonavano i tamburelli e facevano capriole; un Trolloc dal muso di verro combatteva a colpi di zanne contro un uomo con la corona. Dopo alcuni colpi inefficaci, il Trolloc cadde a terra, fra le risate e gli evviva degli spettatori.
Rand borbottò tra sé che i veri Trolloc non sarebbero morti con altrettanta facilità.
Diede un’occhiata a un vasto edificio privo di finestre e si fermò a guardare dalla porta. Con sua sorpresa, l’interno pareva un’unica sala gigantesca, scoperta al centro e fiancheggiata di balconate, con un’ampia piattaforma all’estremità opposta. La gente ammassata sulle balconate e per terra guardava lo spettacolo sulla piattaforma. Rand continuò la passeggiata e scrutò dentro edifici analoghi; vide giocolieri, musici, un buon numero di saltimbanchi e perfino un menestrello, con il manto a toppe multicolori, che declamava con voce sonora una storia della Grande Cerca del Corno.
Nel vederlo, Rand ripensò a Thom Merrilin e proseguì in fretta. Il ricordo di Thom lo rattristava sempre. Thom era stato un amico. Un amico morto per lui. Mentre lui fuggiva e lo lasciava morire.
In un altro di quegli edifici, una donna in voluminosa veste bianca faceva sparire da un cestino certi oggetti e li faceva comparire in un altro, poi li prendeva in mano e li faceva svanire con grandi sbuffi di fumo. La folla guardava con esclamazioni di stupore.
«Due monete di rame, buon signore» disse un uomo dal viso di topo, fermo nel vano della porta. «Due soldini per vedere l’Aes Sedai.»
«Non credo» disse Rand, con un’occhiata alla donna. In mano le era comparsa una colomba bianca. Aes Sedai? Rand rivolse un mezzo inchino all’uomo dal viso di topo e proseguì.
Si apriva la strada tra la folla, chiedendosi che cosa guardare dopo, quando una voce profonda, accompagnata da musica d’arpa, provenne da una porta con sopra l’insegna di un giocoliere.
«...freddo soffia il vento giù dal passo di Shara; fredda giace la tomba senza nome. Eppure ogni anno, nel Giorno del Sole, su quel cumulo di pietre compare una singola rosa, che ha sui petali una lacrima di cristallo simile a rugiada, deposta dalla mano delicata di Dunsinin, perché lei si mantiene fedele all’accordo stipulato da Rogosh Occhio d’Aquila.»
La voce tirò Rand come pesce preso all’amo. Rand varcò la porta, mentre all’interno si alzavano gli applausi.
«Due monete di rame, mio buon signore» disse un uomo dal viso di topo, che poteva essere il gemello del precedente. «Due soldini per vedere...»
Rand pescò in tasca alcune monete e gliele mise in mano. Avanzò come intontito, fissando l’uomo sulla piattaforma, che rispondeva con un inchino all’applauso degli ascoltatori: reggeva nell’incavo del braccio l’arpa e allargava il mantello quasi a catturare tutti i battimani. Era alto, magro, non più giovane, con lunghi baffi candidi come i capelli. Quando si raddrizzò e vide Rand, sgranò gli occhi, azzurri e acuti.
«Thom!» il bisbiglio di Rand si perse nel frastuono della folla.
Fissando Rand negli occhi, Thom Merrilin fece un piccolo cenno in direzione della porticina sul fianco della piattaforma. Poi riprese a inchinarsi, sorridente, crogiolandosi agli applausi.
Rand raggiunse la porticina ed entrò. Era solo un piccolo vano con tre scalini che portavano alla piattaforma. Dall’altra parte, un giocoliere s’allenava con le palline multicolori e sei acrobati si scaldavano i muscoli.
Thom comparve sui gradini, zoppicando, come se la gamba destra non si piegasse più bene come una volta. Diede un’occhiata al giocoliere e agli acrobati e sbuffò sdegnosamente, rivolgendosi a Rand. «Vogliono solo ascoltare La Grande Cerca del Corno» disse. «Si penserebbe che, con le notizie che giungono dall’Haddon, dal Mirk e dalla Saldaea, uno di loro chieda il Ciclo Karaethon. Be’, forse non proprio quello, ma pagherei io stesso per raccontare qualcosa d’altro.» Guardò Rand, dalla testa ai piedi. «Pare che te la passi bene, ragazzo.» Toccò il colletto di Rand e sporse le labbra. «Benissimo, anzi.»
Rand non riuscì a non ridere. «Ho lasciato Whitebridge sicuro che tu fossi morto. Moiraine diceva che eri ancora vivo, ma... Luce santa, Thom, sono felice di rivederti! Dovevo tornare indietro ad aiutarti.»
«Saresti stato un grande stupido, ragazzo, Quel Fade...» Si guardò intorno: non c’era nessuno tanto vicino da ascoltare, ma lui abbassò ugualmente la voce. «Quel Fade non s’interessava affatto a me. Mi ha lasciato il ricordino d’una gamba rigida ed è corso dietro a te e a Mat. Ti saresti fatto uccidere,» Esitò, pensieroso. «Moiraine ha detto che ero ancora vivo, giusto? È con te, allora?»
Rand scosse la testa. Con sua sorpresa, Thom parve deluso.
«Peccato, in un certo senso. È una brava donna, anche se è,.,» Non terminò la frase. «Quindi il Fade stava dietro a Mat o a Perrin. Non voglio sapere quale dei due. Erano bravi ragazzi e preferisco restare all’oscuro.» Rand cambiò posizione, a disagio, e sobbalzò, quando Thom gli puntò addosso il dito ossuto. «Voglio sapere invece un’altra cosa. Hai ancora la mia arpa e il mio flauto? Li rivoglio, ragazzo. Quelli che uso adesso non vanno bene neppure per un maiale.»
«Li ho con me, Thom. Ti prometto di portarteli. Ancora non riesco a credere che sei vivo. E che non sei a Illian. La Grande Cerca sta per iniziare. C’è il premio per la migliore declamazione della Grande Cerca del Corno. Morivi dalla voglia di andare a Illian.»
Thom sbuffò. «Dopo Whitebridge? Sarei morto, se ci fossi andato. Anche se avessi fatto in tempo a imbarcarmi, Domon e il suo equipaggio avrebbero sparso per tutta Illian la voce che ero inseguito dai Trolloc. Se, prima di salpare, hanno visto il Fade o ne hanno sentito parlare... La maggior parte degli illianesi credono che Trolloc e Fade siano favole, ma altri vorrebbero sapere perché un uomo era inseguito da queste creature: basterebbe a rendere non troppo piacevole la permanenza a Illian.»
«Thom, ho un mucchio di cose da raccontarti.»
Il menestrello lo bloccò. «Dopo, ragazzo.» Scambiò occhiate di fuoco con l’uomo dal viso di topo, all’ingresso. «Se non torno sulla piattaforma a narrare un’altra storia, quello lì manda in scena il giocoliere e la gente darà il giro alla sala. Vieni al Grappolo d’Uva, subito dopo la Porta Jangai. Chiunque ti saprà indicare. Là ho una stanza. Ci sarò fra un’oretta. Il pubblico dovrà accontentarsi di un’altra storia.» Risalì gli scalini. «E non dimenticare di portarmi arpa e flauto!» disse, senza girarsi.