Quando rientrai a casa dal lavoro il giorno seguente, seppi subito che qualcosa non andava. Qualcuno era entrato nel mio appartamento.
La porta non era stata scassinata, le finestre non erano state forzate e non si vedevano segni di vandalismo. Ma me ne accorsi lo stesso. Chiamatelo sesto senso, o quello che preferite. Forse sentivo nelle molecole dell’aria i feromoni lasciati dall’intruso. O forse l’aura della mia poltrona reclinabile Lazy Boy era stata disturbata. Non importava come, lo sapevo e basta: qualcuno era entrato in casa mentre ero al lavoro.
Non che fosse insolito, dopotutto ero a Miami. Capita ogni giorno di tornare a casa e scoprire che sono spariti il televisore, i gioielli e gli apparecchi elettronici, che il proprio spazio è stato violato, le cose di valore sono svanite e la cagnetta è incinta. Ma questo era diverso. Feci una rapida ricerca nell’appartamento, pur sapendo già che non era stato portato via niente.
Infatti avevo ragione. Non mancava niente.
Era stato aggiunto qualcosa.
Mi ci volle qualche minuto per trovarlo. Suppongo che qualche riflesso indotto dal lavoro mi abbia spinto a controllare per prime le cose più ovvie. Quando un intruso ti fa visita, è naturale che spariscano le Tue Cose: giocattoli, valori, reliquie private, gli ultimi biscotti al cioccolato. Perciò feci una breve ispezione.
Ma tutte le Mie Cose erano rimaste intatte. Il computer, lo stereo, il televisore, il videoregistratore… tutto era dove lo avevo lasciato. Persino la collezione di preziosi vetrini era al sicuro nella libreria, ciascuno con la sua gocciolina di sangue secco. Tutto era esattamente come lo avevo lasciato.
Per essere sicuro, controllai le aree private: camera da letto, bagno, armadietto dei medicinali. Tutto inviolato anche qui, in apparenza. Eppure aleggiava nell’aria la sensazione che ogni oggetto fosse stato esaminato, toccato e rimesso al suo posto con cura tale che perfino i granelli di polvere erano dove li avevo lasciati.
Tornai in salotto, sprofondai in poltrona e mi guardai intorno. Ero assolutamente certo che qualcuno fosse stato qui, ma a quale scopo? Chi era tanto interessato alla mia persona da penetrare nella mia casa e lasciare tutto esattamente com’era? Perché nulla era stato rubato, nulla era stato spostato. Forse il cumulo di giornali destinato alla raccolta differenziata pendeva leggermente a sinistra, ma magari era la mia immaginazione. Poteva essere stato anche il flusso d’aria del condizionatore. Non c’era niente di diverso, niente era cambiato, niente di niente.
Ma perché qualcuno avrebbe voluto entrare nel mio appartamento? Intenzionalmente, non c’era proprio niente di speciale. Faceva parte della costruzione del mio Profilo secondo Harry: mimetizzati, comportati normalmente, sii noioso. Non fare niente e non possedere niente che possa destare l’attenzione. Così avevo fatto. Non avevo cose di valore, a parte uno stereo e un computer. Nel vicinato c’erano parecchi bersagli molto più attraenti.
E, in ogni caso, perché qualcuno avrebbe dovuto entrarmi in casa senza prendere niente e senza lasciare alcun segno? Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi. Dovevo proprio essermelo immaginato. Doveva essere frutto della tensione. Un sintomo della mancanza di sonno e delle preoccupazioni per la carriera di Deborah. Un ulteriore segno del fatto che il Povero Vecchio Dexter si stava perdendo in Alto Mare. L’ultima transizione indolore da sociopatico a psicopatico. A Miami non è necessariamente sintomo di follia presumere di essere circondati da nemici anonimi, ma comportarsi di conseguenza è considerato socialmente inaccettabile. Prima o poi avrebbero dovuto rinchiudermi da qualche parte.
Eppure quella sensazione era forte. Cercai di scrollarmela di dosso, ripetendomi che era frutto di un’impressione errata, di uno scherzo dei nervi, di una cattiva digestione. Mi alzai, mi stiracchiai e cercai di concentrarmi su pensieri piacevoli. Non mi venne in mente niente. Scossi il capo e andai in cucina per bere un bicchier d’acqua. Ed eccola lì.
Eccola lì.
Mi fermai di fronte al frigorifero a guardare. Non so quanto tempo rimasi a guardare, come uno stupido. Appesa allo sportello del frigorifero con uno dei miei magneti a forma di frutti tropicali, c’era la testa di una Barbie. Non mi risultava di avercela appesa io. Non mi risultava di avere mai avuto una Barbie. Suppongo che me ne sarei ricordato.
Allungai una mano per toccare la testina di plastica, che ondeggiò lentamente, rimbalzando contro lo sportello con un lieve tac. La testina girò su se stessa di novanta gradi e gli occhi di Barbie mi fissarono con interesse, come quelli di un Collie. Ricambiai lo sguardo.
Senza sapere esattamente che cosa stessi facendo e perché, aprii lo sportello del freezer. All’interno, disteso con cura sul vassoio del ghiaccio, c’era il corpo di Barbie. Braccia e gambe erano stati asportati e il busto era stato diviso in due all’altezza della vita. I pezzi erano ben ordinati, impacchettati e legati con un nastrino rosa. E, in una manina, Barbie teneva uno dei suoi accessori: un piccolo specchio.
Dopo un lungo momento, chiusi lo sportello del freezer. Avrei voluto sdraiarmi a terra, faccia in giù sul linoleum. Invece tesi il mignolo e feci oscillare la testina di Barbie, che fece tac tac contro lo sportello. Ci giocherellai di nuovo. Tac tac. Ehi, avevo trovato un nuovo passatempo.
Lasciai la bambola dov’era e tornai alla mia poltrona, sprofondai nei cuscini e chiusi gli occhi. Sapevo che mi sarei dovuto sentire sconvolto, rabbioso, spaventato, violato, in preda a un’ostilità paranoica e alla furia vendicativa. Niente di tutto questo. Provavo invece… cosa? Un vago senso di vertigine. Ansia, forse. O era esaltazione?
Naturalmente non c’era possibilità di dubbio su chi fosse entrato in casa. Non mi pareva credibile l’idea che qualche sconosciuto, per ragioni imprecisate, avesse scelto a caso il mio appartamento come luogo ideale per mettere in mostra la sua Barbie decapitata. No. Era stato il mio artista preferito a farmi visita. Come avesse fatto a trovarmi non era importante. Non doveva essere stato impossibile rintracciarmi a partire dalla mia targa. Quella notte, sulla Causeway, l’assassino aveva avuto tutto il tempo che voleva per osservarmi dal suo nascondiglio dietro la stazione di servizio. Inoltre, chiunque sapesse maneggiare un computer avrebbe potuto scoprire il mio indirizzo. Dopo di che non era difficile entrare, guardarsi bene intorno e lasciare un messaggio.
Eccolo lì, il messaggio. La testa appesa separatamente, le partì del corpo depositate sul vassoio del ghiaccio e quel dannato specchietto. Combinato con la totale mancanza di interesse riguardo a qualsiasi altra cosa nell’appartamento, tutto questo portava a un’unica conclusione.
Ma quale?
Che cosa mi voleva dire?
Poteva lasciare qualsiasi cosa, oppure niente. Avrebbe potuto infilare un coltello da macellaio sanguinolento nel cuore di una mucca e lasciare tutto sul linoleum. Gli ero grato che non l’avesse fatto, avrebbe sporcato dappertutto. Ma perché la Barbie? A parte l’evidente somiglianza tra la bambola e la vittima del suo ultimo omicidio, perché venire da me? E questo messaggio intendeva essere più o meno sinistro di altri? Voleva dire: «Ti tengo d’occhio, ti prenderò»?
Oppure voleva dire: «Ehi, vuoi giocare con me?»
E io volevo. Certo che volevo.
Ma perché lo specchietto? La sua presenza andava oltre l’allusione al camion e all’inseguimento sulla Causeway. Doveva esserci qualcosa di più. E tutto quello che mi veniva in mente era: «Guarda te stesso». E che senso poteva avere? Perché avrei dovuto guardare me stesso? Non sono tanto vanitoso da trovarlo interessante. E perché guardare me stesso, se quello che volevo vedere era l’assassino? Dunque, nello specchio doveva esserci qualche altro significato che mi sfuggiva.
Ma anche di questo non potevo essere sicuro. Poteva anche non significare nulla. Non mi sembrava plausibile, trattandosi di un artista così elegante, però non potevo escluderlo. E il messaggio poteva essere qualcosa di molto personale, sinistro e deviante. Non c’era alcun modo di saperlo, né di sapere che cosa fare. Ammesso che io dovessi fare qualcosa.
Feci una scelta umana. Strano, se ci pensate: io che faccio una scelta umana. Harry ne sarebbe stato orgoglioso. Umanamente decisi di non fare niente. Aspettare e vedere. Non avrei denunciato l’effrazione. Che cosa c’era da denunciare, in fondo? Non era stato rubato niente. Non c’era niente da dichiarare ufficialmente, tranne: «Ah, capitano Matthews, credo che lei dovrebbe saperlo: qualcuno mi è entrato in casa e mi ha lasciato una Barbie in frigorifero».
Suonava bene. Ero sicuro che sarebbe piaciuto al Dipartimento. Forse il sergente Doakes avrebbe indagato di persona e avrebbe finalmente avuto la possibilità di rivelare un talento innato e una completa mancanza di inibizioni nelle tecniche di interrogatorio. E forse mi avrebbero inserito nella lista dei Mentalmente Inabili al Servizio, in compagnia della povera Deb, dal momento che il caso era chiuso e, anche quando era aperto, non aveva nulla a che fare con le Barbie.
No, non c’era niente da dire, e soprattutto niente che potessi spiegare. Quindi, a rischio di un’altra dose di spintoni selvaggi, non lo avrei detto nemmeno a Deborah. Per ragioni che non cercavo di chiarire neppure a me stesso, era una faccenda personale. E mantenerla tale aumentava le mie possibilità di avvicinarmi al mio visitatore. Per poterlo consegnare alla giustizia. Beninteso.
Presa quella decisione, mi sentii molto più tranquillo. Quasi esaltato, per essere sincero. Non avevo idea di cosa mi aspettasse, ma ero pronto ad affrontarlo.
Non mi liberai di quella sensazione per tutta la notte, né per tutto il giorno successivo, che trascorsi a compilare un rapporto, a consolare Deb e a rubare una ciambella a Vince Masuoka. Non mi liberai di quella sensazione neppure mentre guidavo verso casa, in mezzo all’allegro traffico omicida della sera. Ero in una condizione Zen, preparato a qualsiasi sorpresa.
O almeno così credevo.
Avevo appena fatto ritorno nel mio appartamento, mettendomi comodo sulla poltrona, che il telefono squillò. Lo lasciai suonare. Volevo riprendere fiato per qualche minuto e non mi aspettavo niente di urgente. Senza contare che la segreteria telefonica mi era costata quasi cinquanta dollari. Che facesse il suo dovere.
«Salve, non sono in casa al momento, ma vi richiamerò se vorrete lasciare un messaggio subito dopo il beep. Grazie.»
Che tono di voce favoloso! Che sagacia! Davvero un gran messaggio. Ne andavo molto orgoglioso. Respirai a fondo, ascoltando il melodico beeeep!
«Ciao, sono io.»
Una voce femminile. Non quella di Deborah. Sentii una palpebra vibrare di irritazione. Perché devono tutti cominciare i loro messaggi con «Sono io»? Certo che sei tu. Lo sappiamo tutti. Ma chi diavolo sei tu? Nel mio caso, la scelta era limitata. Sapevo che non era Deborah. Non sembrava nemmeno LaGuerta, anche se tutto era possibile. Dunque, restava solo…
Rita?
«Ehm, mi dispiace. Io…» Un lungo sospiro. «Senti, Dexter, mi spiace. Pensavo che mi avresti chiamata, ma non ti sei fatto vivo e allora…» Un altro sospiro. «Comunque, ho bisogno di parlarti. Perché ho capito… voglio dire… Oh, dannazione. Potresti, ehm, chiamarmi? Se… lo sai.»
Non lo sapevo. Per niente. Non ero nemmeno sicuro di chi fosse. Ma era davvero Rita?
Un altro sospiro. «Mi spiace che…» Una pausa lunghissima. Due respiri profondi. Inspira, espira, inspira, poi fuori tutto in una volta. «Ti prego, Dexter, chiamami. Solo…» Un’altra lunga pausa, un altro sospiro. Poi riagganciò.
Molte volte nella vita mi sono sentito come se mi mancasse qualcosa, un pezzo essenziale del puzzle che tutti gli altri si portano dietro senza nemmeno pensarci. Di solito non ci faccio attenzione, dal momento che nella maggior parte dei casi si tratta di qualche scempiaggine umana, come comprendere certe regole del baseball o non pretendere di andare a letto al primo appuntamento. Ma altre volte mi sento privo di un vasto bagaglio di saggezza, una riserva di significati che gli esseri umani conservano così in profondità da non avere nemmeno bisogno di parlarne. E forse non saprebbero neppure descriverli a parole.
Questa era una di quelle volte.
Mi rendevo conto che avrei dovuto capire ciò che Rita stava cercando di dirmi, qualcosa di specifico. Le sue pause ed esitazioni sottintendevano qualcosa di grande e meraviglioso che un maschio della specie umana avrebbe colto intuitivamente. Ma io non avevo la più pallida idea di cosa fosse, né di come decifrarlo. Dovevo contare i sospiri? Calcolare la lunghezza delle pause e convertire le cifre in versetti della Bibbia per arrivare a un codice segreto? Che cosa stava cercando di dirmi? E perché avrebbe dovuto cercare di dirmi qualcosa?
Per quello che mi era dato di capire, quando avevo baciato Rita, in preda a uno strano e stupido impulso, avevo oltrepassato un confine che tutti e due avevamo tracciato implicitamente. Dopo di che non c’era modo di tornare indietro. In un certo senso, quel bacio era stato una specie di delitto. Un pensiero quasi rassicurante: avevo assassinato la nostra relazione trapassandole il cuore con la lingua e spingendolo giù da un precipizio. Boom, ed era morto. Da allora non avevo nemmeno più pensato a Rita. Era svanita, sospinta fuori dalla mia vita da un capriccio incomprensibile. E adesso mi telefonava e registrava i suoi respiri per il mio diletto.
Perché? Voleva forse castigarmi? Insultarmi, soffiarsi il naso nella mia follia, costringermi a comprendere l’immensità del mio oltraggio?
La cosa cominciava a irritarmi oltremisura. Passeggiai avanti e indietro. Perché avrei dovuto ripensare a Rita? Avevo preoccupazioni più importanti, al momento. Rita era la mia barba finta, uno stupido costume carnevalesco che indossavo nei weekend per nascondere la mia vera natura. In realtà ero uno che poteva fare ciò che faceva quell’altro. Solo che lui lo faceva e io no.
Era una forma di gelosia? Certo che io non le facevo quelle cose. Ero reduce da una recente dissezione e non mi ci sarei dedicato di nuovo per un po’. Troppo rischioso. Non avevo niente di pronto.
Eppure…
Tornai in cucina e giocherellai con la testina di Barbie. Tac tac tac. Mi sembrava di cogliere qualcosa. Voglia di giocare? Inquietudine profonda? Invidia professionale? Non lo capivo, e Barbie stava zitta.
Era troppo. Quella confessione clamorosamente falsa, la violazione del mio rifugio e adesso Rita? Ogni pazienza ha un limite, anche per un uomo finto come me. Cominciavo a sentirmi a disagio, confuso, incerto, iperattivo e letargico al tempo stesso. Andai alla finestra e guardai fuori. Era buio, adesso, e lontano, sull’acqua, una luce si innalzò nel cielo. Alla sua apparizione, una vocina malefica emerse dal profondo.
Luna.
Un sussurro all’orecchio. Non un vero suono, piuttosto la sensazione di qualcuno che mi chiamava da vicino. Molto vicino, sempre di più. Non erano parole, solo il secco fruscio di una non-voce, un tono muto, un pensiero a cavalcioni di un respiro. Mi sentii riscaldare il viso e percepii un suono appena udibile. Mi voltai, pur sapendo che non c’era nessuno, tranne il mio caro amico interiore, risvegliato da chissà cosa e dalla luna.
Un luna allegra, paffuta e chiacchierona. Oh, quante cose aveva da dire. E per quanto cercassi di spiegarle che non era il momento, che era troppo presto, che c’erano altre cose da fare, cose importanti, la luna sapeva come contraddirmi, punto per punto. Rimasi a discutere per un quarto d’ora, ma senza costrutto.
La disperazione cresceva. La combattei con ogni mezzo e quando tutto fallì, feci una cosa che mi scosse nel profondo. Chiamai Rita.
«Oh, Dexter», mi rispose. «Temevo che… Grazie della chiamata. È solo che…»
«Lo so», la interruppi, anche se non lo sapevo affatto.
«Non potremmo… Non so che cosa tu… Possiamo vederci e… Vorrei proprio parlarti.»
«Ma certo.»
Ci accordammo per vederci a casa sua. Mi chiedevo che cosa avesse in mente. Violenza? Lacrime di recriminazione? Insulti a squarciagola? Ero su un territorio sconosciuto, non sapevo cosa mi aspettasse.
Dopo che ebbi riagganciato il ricevitore, quei pensieri riuscirono a distrarmi per una mezz’ora buona, prima che la vocina interiore mi tornasse nel cervello con la sua quieta insistenza: stanotte doveva essere speciale.
Mi sentii trascinare alla finestra. Era ancora lì, la faccia allegra nel cielo, la luna che rideva. Tirai la tenda e feci il giro del mio appartamento, toccando gli oggetti, ripetendo a me stesso che stavo verificando che non mancasse nulla, anche se sapevo che c’era tutto e sapevo anche perché. A ogni giro mi avvicinavo sempre di più alla piccola scrivania in salotto, su cui tenevo il computer. Sapevo a cosa andavo incontro e non volevo farlo. Finché, dopo tre quarti d’ora, il Bisogno si fece insostenibile. La testa mi girava così tanto che non riuscivo a stare in piedi. Pensai di sedermi, e già che c’ero accesi il computer. E già che l’avevo acceso…
Ma non ci siamo, pensai. Non sono pronto.
E naturalmente non aveva importanza. Che io fossi pronto o no, non faceva differenza.
Lui lo era.