Non feci sogni, non ebbi la sensazione di viaggiare fuori dal mio corpo, non vidi parate di fantasmi o di corpi senza testa e senza sangue. Non c’era niente, non c’ero neanche io, solo un sonno buio e senza tempo. Eppure, quando il telefono squillò, seppi subito che la chiamata riguardava Deborah e che lei non sarebbe arrivata. La mia mano era già sudata quando sollevai il ricevitore. «Sì?»
«Sono il capitano Matthews», disse la voce. «Devo parlare con l’agente Morgan, per favore.»
«Non c’è.» Una piccola parte di me si sentì sprofondare al pensiero delle possibili implicazioni.
«Hmmmp. Aahh, be’, questo non… Quando se n’è andata?»
Guardai d’istinto l’orologio: erano le nove e un quarto. Sudai ancora di più. «Non è mai stata qui», risposi al capitano.
«Ma ha lasciato scritto che veniva da lei. È in servizio. Dovrebbe essere lì.»
«Non è mai arrivata.»
«Be’, dannazione, ha detto che lei aveva delle prove che ci servivano.»
«Infatti», dissi, e riagganciai.
Avevo delle prove, di questo ero sicuro. Solo che non sapevo di quale natura. Ma dovevo capirlo e temevo di non avere tempo sufficiente. O, per essere preciso, temevo che non l’avesse Debbie.
Ancora una volta non capivo come facessi a saperlo. Non mi dissi a livello cosciente «Ha preso Deborah». Non mi venivano alla mente scene allarmanti di un destino incombente su di lei. E non avevo bisogno di un’illuminazione improvvisa, o di pensare: Perbacco, Deb dovrebbe essere già qui, non è da lei. Lo sapevo e basta. Come sapevo, nel momento in cui mi ero svegliato, che Deb era diretta da me, ma non era mai arrivata. E sapevo anche il motivo.
Lui l’aveva presa.
L’aveva fatto esclusivamente a mio beneficio, sapevo anche questo. Mi aveva girato intorno, sempre più vicino, entrando nel mio appartamento, lasciando messaggi attraverso le sue vittime, stuzzicandomi con allusioni e accenni a quanto stava combinando.
E ora mi si era avvicinato quanto più possibile senza trovarsi di persona in quella stanza. Aveva preso Deborah e mi stava aspettando insieme a lei. Aspettava me.
Ma dove? E quanto avrebbe atteso prima di diventare impaziente e cominciare a giocare senza di me?
E, senza di me, sapevo bene chi sarebbe stata la sua compagna di giochi: Debbie. Si era presentata fuori dalla mia porta con il suo abito da lavoro, il suo puttana-look, un vero e proprio regalo per lui. Avrà pensato che fosse Natale. L’aveva catturata per farne la sua amichetta speciale di stanotte. Non volevo pensare a lei in quel modo, legata a un tavolo col nastro adesivo, a guardare i pezzi del suo corpo che scomparivano per sempre uno dopo l’altro. Ma era così che sarebbe andata. Mi sarebbe anche potuta sembrare una prospettiva divertente per la serata, se non ci fosse stata Deborah di mezzo. Ero pressoché certo di non volerlo. Non volevo che lui facesse nulla di permanente e artistico, non stanotte. Forse dopo, con qualcun altro. Quando ci fossimo conosciuti meglio. Ma non adesso.
Non con Deborah.
E con quel pensiero, naturalmente, tutto sembrò andare meglio. Era bello mettere le cose in chiaro. Preferivo avere mia sorella viva anziché suddivisa in tanti pezzetti dissanguati. Splendido, quasi umano, da parte mia. Allora, chiarito questo, che cosa fare adesso? Potevo telefonare a Rita, chissà, portarla al cinema o a fare una passeggiata al parco. Oppure, vediamo… forse, non so… salvare Deborah? Sì, non sembrava una cattiva idea. Ma…
Come?
Avevo qualche traccia, certo. Sapevo come ragionava: dopotutto, ragionavo anch’io allo stesso modo. E voleva che lo trovassi. Mi aveva lasciato tutti quei messaggi chiarissimi. Se solo fossi riuscito a liberarmi la mente da tutto ciò che mi distraeva, i sogni, la caccia alla fate e altre assurdità New Age, la mia logica avrebbe potuto condurmi al luogo esatto. Non avrebbe preso Deb, se non avesse pensato di avermi dato tutti gli indizi che un bravo mostro sarebbe stato in grado di seguire per arrivare fino a lui.
D’accordo allora, diligente Dexter: trovalo. Rintraccia il rapitore di Deb. Scatena la tua logica spietata sulla pista come un branco di lupi. Metti in moto il tuo megacervello. Collega le tue dinamiche sinapsi. Vai, Dexter, vai.
… Dexter?
Ehi, c’è nessuno?
Apparentemente no. Nessun collegamento tra le dinamiche sinapsi. Ero più vuoto che mai. Non potevo nemmeno giustificarmi dicendo di essere annebbiato dalle emozioni, dal momento che non ne provavo. Ma il risultato era lo stesso. Ero inerte e sfiancato, proprio come se avessi provato qualcosa.
Deborah era scomparsa, correva il terribile pericolo di essere trasformata in un’opera d’arte e la sua unica remota speranza di non sparire nell’oblio, a parte una serie di fotografie appese a una lavagna della polizia, era il suo povero, annichilito fratello. Il depresso, derelitto Dexter, seduto su una poltrona col cervello che girava a vuoto, inseguendosi la coda e ululando alla luna.
Inspirai a fondo. Di tutte le volte che avevo avuto bisogno di essere me stesso, questa era la più importante. Mi concentrai profondamente, mi rilassai, e quando una piccola parte di Dexter tornò a riempire il vuoto della mia scatola cranica, mi accorsi di quanto fossi diventato umano e stupido.
Non c’era alcun grande mistero. In effetti, era tutto miseramente ovvio. Mancava solo che il mio amico mi inviasse un invito formale: «La sua presenza è richiesta alla vivisezione di sua sorella. È gradito l’animo oscuro». Ma anche questa bollicina di lucidità si dissolse, quando un altro pensiero strisciò nel mio cervello affaticato, lasciandosi dietro una scia di logica putrescente.
Stavo dormendo quando Debbie è scomparsa.
Poteva essere che, una volta di più, avessi agito a mia insaputa? E se avessi già portato Debbie da qualche parte, ammonticchiandone i pezzi in una piccola, fredda scatola, e…
Scatola? E questo da dove veniva?
Quella sensazione familiare… La perfezione del ripostiglio dell’Arena… L’aria fredda sulla mia spina dorsale… Che cosa importava tutto ciò? Perché mi tornava in mente? Perché, qualunque cosa accadesse, tornavo agli stessi illogici ricordi sensoriali, anche se non ne vedevo la ragione. Che senso avevano? E cosa me ne poteva importare? Perché, che significassero qualcosa oppure no, era tutto quello di cui disponevo. Dovevo trovare un luogo che corrispondesse a quel senso di fresco e di pressante perfezione. Non avevo alternative. Trovare la scatola. E lì avrei trovato anche Debbie, insieme a me stesso o al suo contrario. Non era semplice?
No, non era semplice, semmai semplicistico. Non aveva senso prestare attenzione agli spettrali messaggi cifrati dei miei sogni. I sogni non avevano consistenza nella realtà. Al risveglio non restavano le tracce degli artigli di Freddy Krueger. Non potevo precipitarmi fuori di casa, prendere la macchina e vagare senza meta facendomi guidare dai miei poteri psichici.
Ero un essere freddo e logico. Pertanto chiusi freddamente e logicamente la porta del mio appartamento e andai a prendere l’auto. Continuavo a non avere idea di dove andare, ma il bisogno di arrivarci in fretta aveva preso le redini e mi trascinava verso il parcheggio. Tuttavia, a sei metri dal mio fidato autoveicolo, mi fermai di colpo, come se mi fossi scontrato contro un muro invisibile.
La luce era accesa nell’abitacolo.
Di sicuro non l’avevo lasciata accesa io. Era ancora giorno quando avevo parcheggiato. E le portiere erano ben chiuse. Un ladro casuale avrebbe lasciato la portiera socchiusa, per evitare di fare rumore.
Mi avvicinai lentamente, senza sapere che cosa aspettarmi di trovare, né se davvero volessi trovarlo. Alla distanza di un metro e mezzo, scorsi qualcosa sul sedile del passeggero. Girai intorno all’auto e, coi nervi tesi, sbirciai attraverso il finestrino. Ed eccola lì.
Di nuovo Barbie. Cominciavo ad averne una collezione.
Questa indossava un cappello da marinaio, una maglietta che lasciava scoperta la pancia e pantaloncini cortissimi, rosa e aderenti. In una mano aveva una valigetta su cui si leggeva il nome di una compagnia di navigazione: CUNARD.
Aprii la portiera e presi la bambola. Tolsi la valigetta dalla manina di Barbie e l’aprii. Ne venne fuori un oggettino che rotolò su pavimento. Lo raccolsi. Somigliava maledettamente all’anello della scuola di Deborah. All’interno erano incise le sue iniziali: DM.
Mi abbattei sul sedile, stringendo Barbie tra le mani sudate. La girai. Le piegai le gambe. Le mossi il braccio. Che cosa hai fatto ieri, Dexter? Oh, ho giocato con la bambola, mentre un amico faceva a pezzi mia sorella.
Non persi tempo a chiedermi come Barbie Zoccola in Crociera fosse entrata nella mia macchina. Questo era chiaramente un messaggio. O un indizio? Solo che di solito gli indizi portavano a qualcosa, mentre questo sembrava indicare la direzione sbagliata. Era chiaro che Lui aveva in mano Debbie. Ma la Cunard? Come si conciliava con lo spazio ristretto del delitto? Non vedevo alcun nesso. Ma c’era un solo posto a Miami a cui collegarlo.
Presi la Douglas e svoltai in Coconut Grove. Dovetti rallentare per aprirmi la via tra la folla di imbecilli che ballavano tra i negozi e i caffè. Sembravano tutti avere troppo tempo, troppo denaro e poco cervello. Mi rallentarono più del necessario, ma d’altra parte non sapevo nemmeno dove stessi andando. Da qualche parte. Percorsi Bayfront Drive, arrivai a Brickie e poi in centro. Non vidi nessuna insegna al neon con una scritta incoraggiante: PER LA DISSEZIONE DA QUESTA PARTE! Ma continuai a guidare, avvicinandomi alla American Airlines Arena e, dopo poco, alla MacArthur Causeway. Riuscii a intravedere la struttura di una grande nave in Government Cut. Non era della Cunard Lines, naturalmente, ma guardai lo stesso, nella speranza di cogliere qualche segno. Sembrava ovvio che la mia destinazione non fosse davvero una nave da crociera: troppo affollata, troppi ufficiali curiosi a bordo. Tuttavia doveva essere qualcosa di vicino, qualcosa di correlato. Ma che cosa? Non avevo altri indizi. Fissai a lungo la nave da crociera, ma Deborah non spuntò dalla stiva per mettersi a danzare sulla passerella.
Dietro la nave si innalzavano le gru, che si stagliavano nel cielo notturno come scenografie abbandonate di Guerre stellari. Un po’ più in là, appena visibili sotto le gru, c’erano i container impilati uno sull’altro, sparsi sul terreno come se un gigantesco bambino annoiato avesse sparpagliato enormi pezzi di un gioco di costruzioni. Alcuni container erano refrigerati. E poi, dietro i container…
Torna indietro un attimo, ragazzo mio.
Chi era che sussurrava sottovoce a Dexter il Guidatore Solitario?
Chi c’era dietro di me, che riempiva l’abitacolo con la sua risata secca? E perché? Quale messaggio stava riecheggiando nella mia testa vuota?
Container.
Alcuni dei quali refrigerati.
Ma perché i container? Che cosa potevo trovare di interessante nello spazio freddo e angusto di una scatola?
Oh, sì. Be’, se la mettiamo in questi termini.
Era questo il luogo, la futura sede della Casa Natale di Dexter? Il museo con reperti quasi autentici, inclusa una rara performance dal vivo dell’unica sorella di Dexter?
Sterzai bruscamente, tagliando la strada a una BMW dal clacson molto sonoro. Puntai verso l’alto il dito medio. Per una volta guidavo da vero nativo di Miami. Accelerai sulla Causeway.
La nave da crociera era sulla sinistra, l’area dei container sulla destra, circondata da una recinzione metallica sormontata da filo spinato. Feci un giro di ricognizione. Ero sempre più sicuro che il posto fosse questo. Tentai di zittire il Passeggero Oscuro, che già si esibiva in canti di guerra. La strada terminava al gabbiotto delle guardie, molto prima di arrivare ai container. Il cancello era sorvegliato da alcuni gentiluomini in uniforme e non c’era modo di passare senza dover rispondere a certe domande alquanto imbarazzanti. Senta, guardia, non è che potrei entrare a dare un’occhiata? Vede, credo che un mio amico lo consideri il posto ideale per fare a fettine mia sorella.
A una decina di metri dal cancello feci un’inversione a U. Ora la nave da crociera si ergeva sulla destra. Svoltai prima di raggiungere il ponte che mi avrebbe ricondotto in città ed entrai nell’area antistante un terminal. Un lato era delimitato da una recinzione allegramente decorata da cartelli che minacciavano severe punizioni per gli intrusi, firmato: Dogana degli Stati Uniti.
Costeggiando la recinzione, giunsi a un vasto parcheggio, deserto a quell’ora di notte. Ne seguii lentamente il perimetro, guardando i container dall’altra parte. Venivano da porti stranieri e dovevano essere soggetti ad accurate ispezioni da parte dei funzionari doganali. Doveva essere arduo entrare o uscire da quest’area, specie trasportando un carico discutibile di membra umane. Dovevo riuscire a trovare un altro luogo, oppure ammettere che inseguire vaghe sensazioni derivanti da sogni inquieti e bambole abbandonate era una perdita di tempo. E prima me ne facevo una ragione, meglio era. Avrei aumentato le mie possibilità di trovare Deb. Non era qui e non c’era ragione perché ci fosse.
Finalmente un pensiero logico. Già mi sentivo meglio e forse avrei potuto anche compiacermene, se dall’altra parte della rete non avessi visto un furgone dall’aspetto familiare con la scritta
ALLONZO
BROTHERS
sulla fiancata. Il coro privato nella cantina del mio cervello cantava così forte da coprire il suono della mia risatina. Parcheggiai. Una parte di me bussava alla porta del cranio gridando: «Presto! Presto! Vai-vai-vai!» Ma la lucertola fece capolino alla finestra, agitando la lingua con aria sospettosa. Perciò rimasi seduto in macchina per un po’ prima di aprire la portiera.
Mi incamminai verso la recinzione, sentendomi in un film sui campi di prigionia della seconda guerra mondiale. Infilai le dita tra le maglie della rete metallica e guardai dall’altra parte. I container erano solo a pochi metri da me, eppure irraggiungibili. Ero sicuro che una creatura intelligente come me avrebbe dovuto trovare un modo molto semplice per oltrepassare la recinzione, ma nelle condizioni in cui mi trovavo i miei processi mentali non erano troppo rapidi.
Dovevo entrare. Ma non potevo entrare. Perciò restavo aggrappato alla rete, a guardare, sapendo che tutto ciò che importava era lì, a qualche metro da me, e il mio cervello superiore non riusciva a cogliere al volo la soluzione. La mente sceglie proprio strani momenti per andare a farsi una passeggiata, non trovate?
Un segnale d’allarme cominciò a suonarmi nella testa. Dovevo muovermi, subito. Ero in una zona sorvegliatissima, di notte, in atteggiamento sospetto. Un momento o l’altro, una delle guardie poteva interessarsi al bel giovanotto dallo sguardo intelligente che fissava i container attraverso la recinzione. Dovevo andarmene e trovare il modo di entrare.
Mi allontanai dalla rete, dando un’ultima occhiata nostalgica ai container. E proprio lì, alla base della recinzione, dove mi trovavo fino a poco prima, intravidi un’apertura. Ai piedi della recinzione, le maglie della rete erano state tagliate, in modo da consentire il passaggio a un essere umano. O a una buona imitazione, come me. Il furgone teneva ferma la rete. In posizione, in modo che non si muovesse al vento, svelando il trucco. Il varco doveva essere stato aperto di recente, quella sera stessa, quando il furgone era stato parcheggiato in quel punto.
Il mio invito finale.
Indietreggiai lentamente, sentendo un sorrisetto automatico del tipo «Salve, come va?» disegnarmisi sul viso, a mo’ di travestimento. Salve, guardia, come va? Ero qui a fare due passi. Bella serata per smembrare la gente, vero? Me ne tornai di buon umore all’auto, guardando la luna che si rifletteva sull’acqua e fischiettando un’allegra canzonetta. Nessuno sembrava far caso a me, eccezion fatta per il coro di Alleluia nella mia testa. Mi diressi verso un parcheggio non lontano dal terminal della nave da crociera, a un centinaio di metri dalla mia improvvisata porticina per il paradiso. Nessuno mi avrebbe visto.
Ma mentre parcheggiavo, un altro veicolo si fermò nel posto accanto al mio: una Chevrolet azzurra con una donna al volante.
Rimasi immobile sul sedile.
Anche lei.
Aprii la portiera e uscii dall’auto.
Anche la detective LaGuerta.