19

Mi svegliai in piedi davanti al lavabo, con l’acqua che scorreva. Vissi un momento di panico totale, un senso di completo smarrimento. Il cuore martellava furioso e le mie palpebre incrostate battevano freneticamente nel tentativo di riprendere il passo con la realtà. Il luogo era sbagliato. Il lavabo pure. Non ero nemmeno sicuro di chi fossi: nel sogno stavo di fronte al mio lavabo, con l’acqua che scorreva, ma non era questo lavabo. Mi stavo lavando le mani, sfregandole con forza con il sapone, rimuovendo dalla pelle ogni singola macchiolina di orribile sangue rosso, con acqua così bollente da lasciarmi le mani rosate e nuove e asettiche. Il calore dell’acqua era più intenso dopo il freddo della stanza che mi ero appena lasciato dietro le spalle, la stanza dei giochi, la camera della morte, la sala del taglio netto e scrupoloso.

Chiusi il rubinetto e rimasi immobile, appoggiato alla superficie fredda del lavabo. Era stato esageratamente realistico, molto più di qualsiasi sogno avessi mai fatto. E mi ricordavo chiaramente la stanza. Mi bastava chiudere gli occhi per rivederla.

Sono in piedi sopra la donna e la guardo tendere e gonfiare le membra strette dal nastro adesivo, vedo il terrore farsi strada nei suoi occhi inerti, vedo germogliare la disperazione e percepisco la grande scarica di entusiasmo che mi inonda e mi scorre lungo il braccio, fino alla lama. E mentre sollevo il coltello per cominciare…

Ma non è questo l’inizio. Perché sotto il tavolo c’è un altro corpo, già dissanguato e ben impacchettato. E dall’altra parte della stanza c’è ancora un’altra vittima, che aspetta il proprio turno in preda a un orrore disperato come non ne ho mai visti in precedenza, anche se mi sembra in qualche modo familiare e necessario. Questa combinazione di nuove possibilità mi inebria di energia pura, più di…

Tre.

Ce ne sono tre stavolta.

Riaprii gli occhi. Nello specchio c’ero io. Ciao, Dexter. Fatto brutti sogni, vecchio mio? Interessante, non ti pare? Ehi, tre in un colpo. Ma era solo un sogno. Nient’altro. Tentai di sorridermi, contraendo i muscoli facciali, ma il risultato fu poco convincente. E, per quanto coinvolgente fosse stato il sogno, ora ero sveglio e non mi restava altro che uno stato confusionale e le mani bagnate.

Il mio subconscio doveva averlo considerato un piacevole interludio, io però tremavo di incertezza. Ero terrorizzato dal pensiero che la mia mente se ne fosse andata fuori città, lasciandomi qui a pagare l’affitto. Tre compagne di giochi meticolosamente legate: avrei voluto tornare da loro e riprendere da dove ero rimasto. Poi ripensai a Harry e mi resi conto che non potevo. Ero tra due fuochi: un sogno e un ricordo, ognuno più imperioso dell’altro.

Non era più divertente. Rivolevo indietro il mio cervello.

Mi asciugai le mani e tornai a letto, ma per quella notte il deluso, devastato Dexter non sarebbe riuscito riprendere sonno. Rimasi disteso sulla schiena a osservare le macchie di oscurità che svanivano gradualmente dal soffitto finché non suonò il telefono, alle sei meno un quarto.

«Avevi ragione», mi annunciò Deborah, appena sollevai il ricevitore.

«È una bella sensazione», dissi, sforzandomi di apparire normale e brillante come al solito. «Ma ragione su cosa?»

«Su tutto», rispose Deb. «Sono sulla scena di un crimine lungo la Tamiami Trail. E indovina un po’?»

«Avevo ragione?»

«È lui, Dexter. Deve essere lui. Ed è anche molto più spettacolare.»

«Quanto spettacolare, Deb?» le chiesi, pensando tre cadaveri, sperando che lei non lo dicesse, ma titillato dalla certezza che lo avrebbe detto.

«Sembrano esserci vittime multiple.»

Una scossa si irradiò dallo stomaco, come se avessi ingoiato una batteria elettrica. Ma, con uno sforzo, me ne uscii con una delle mie tipiche battute. «È meraviglioso, Deb… parli proprio come un rapporto di polizia.»

«Sì, be’, spero di poterne scrivere uno, un giorno o l’altro. Sono lieta che non sia questo. È allucinante. LaGuerta non sa cosa pensare.»

«E neanche come pensare. Che cosa c’è di allucinante, Deb?»

«Devo andare», disse lei, all’improvviso. «Vieni qui, Dexter. Devi proprio vederlo.»


Quando ci arrivai c’erano tre file di folla intorno ai cordoni, per la maggior parte giornaliste. Non è mai facile respingere l’assalto delle reporter quando sentono l’odore del sangue. A vederle si direbbero vittime impotenti di danni cerebrali e seri problemi di alimentazione. Eppure basta metterle davanti a un cordone di polizia e avviene il miracolo. Diventano forti, aggressive, pronte a spazzare via e calpestare tutto e tutti. Un po’ come le storie sulle mamme di mezz’età che sollevano i camion quando i loro bambini ci finiscono sotto. La forza gli viene da una fonte misteriosa. E, in un modo o nell’altro, queste creature anoressiche riescono a farsi largo dappertutto. Per giunta, senza scompigliarsi i capelli.

Per mia fortuna, uno degli agenti in uniforme di guardia alla barricata mi riconobbe. «Fatelo passare, gente», ordinò, «fatelo passare.»

«Grazie, Julio», dissi al poliziotto. «Ogni anno sembra che ce ne siano di più, di giornaliste.»

Lui sbuffò. «Si vede che le clonano. A me sembrano tutte uguali.»

Mentre passavo sotto il nastro giallo, ebbi la sensazione che qualcuno stesse manipolando la percentuale di ossigeno nell’atmosfera di Miami. Ero sul terriccio di un cantiere dove probabilmente si stavano erigendo costruzioni di tre piani per uffici, il genere solitamente occupato da società di seconda categoria. Mentre avanzavo, seguendo le attività in corso nella struttura incompleta, seppi che non era un caso se ci trovavamo qui. Non c’erano mai coincidenze, con questo serial killer. Tutto era deliberato, tutto era studiato per ottenere un preciso effetto estetico, in funzione di una necessità artistica.

Eravamo in un cantiere perché era necessario. L’assassino stava facendo la sua dichiarazione, come avevo preannunciato a Deborah. Stava dicendo: Avete preso l’uomo sbagliato. Avete messo in galera un cretino perché siete cretini anche voi. Siete troppo stupidi per capire, a meno che non vi ci faccia sbattere contro il naso. Ed ecco qua.

Ma più di ogni altra cosa, più che alla polizia e al pubblico, stava parlando con me, solleticandomi, provocandomi con una citazione dal mio ultimo, affrettato lavoro. Aveva portato i corpi in un cantiere perché io avevo portato Jaworski in un cantiere. Giocava a nascondino con me, mostrando a tutti quanto fosse bravo e avvisando uno di noi, cioè me, che mi stava tenendo d’occhio. So quello che fai e posso farlo meglio.

Suppongo che questo mi avrebbe dovuto preoccupare.

Invece no.

Mi faceva sentire quasi emozionato, come una liceale che vede il capitano della squadra di football farsi coraggio per chiederle di uscire. «Vuoi dire me? Proprio me? Cielo, dici sul serio? Scusa se batto le ciglia.»

Inspirai profondamente e cercai di ricordarmi che io ero una brava ragazza e non facevo certe cose. Ma sapevo che Lui le faceva. E volevo proprio uscirci insieme. Harry, ti prego…

Perché, a parte dedicarmi a nuovi e interessanti passatempi con un nuovo amico, avevo bisogno di trovare il serial killer. Dovevo vederlo, parlargli, dimostrare a me stesso che esisteva davvero e che…

Che cosa?

Che non ero io?

Che non ero io a fare quelle cose terribili e affascinanti?

Perché avrei dovuto pensarlo? Era assurdo. Era del tutto indegno delle attenzioni del mio cervello un tempo brillante. Solo che adesso quell’idea non se ne voleva andare. Non riuscivo a farla stare buona. E se fossi davvero stato io? E se avessi commesso io gli omicidi, senza saperlo? Impossibile, naturalmente, del tutto impossibile, tuttavia…

Mi sveglio al lavabo mentre lavo via il sangue dalle mani in un «sogno» in cui compio azioni che vanno al di là della mia immaginazione. In un modo o nell’altro, sono al corrente di dettagli che riguardano questa serie di omicidi. Cose che non potrei sapere, a meno che…

A meno che niente. Prenditi un tranquillante, Dexter. Riparti da zero. Respira, sciocco. Dentro l’aria buona, fuori l’aria cattiva. Non era che un ulteriore sintomo della mia recente fragilità mentale. A forza di condurre una vita ordinata, mi stavo avviando verso una senilità prematura. Non c’era dubbio che avevo avuto qualche momento di stupidità, nelle ultime settimane, e allora? Questo non bastava a dimostrare che fossi umano o che facessi sfoggio di creatività durante il sonno.

No, certo che no. Proprio così, non significava niente del genere. E quindi, eh, che cosa significava?

Avevo dato per scontato di essere sull’orlo della follia, di avere perso un congruo numero di rotelle per strada. Molto rassicurante. Ma se ero pronto ad ammettere questo, perché non ammettere la possibilità di essere responsabile di una deliziosa serie di scherzetti senza ricordarmene, se non sotto forma di sogni frammentari? La follia era forse più facile da accettare dell’incoscienza? Dopotutto, era solo una forma più evoluta di sonnambulismo. Sonnammazzismo. Probabilmente molto comune. Perché no? Per me era già normale cedere il posto di guida della mia coscienza al Passeggero Oscuro, quando gli veniva voglia di farsi un giro. Non sarebbe stato poi così stupefacente accettare che la stessa cosa si ripetesse con modalità leggermente diverse: il Passeggero prendeva la macchina quando io mi addormentavo.

Come spiegarlo altrimenti? Forse che nel sonno la mia proiezione astrale si sintonizzava sulle vibrazioni dell’aura del killer a causa di una connessione in una vita precedente? Certo, avrebbe avuto senso, se fossimo stati nel Sud della California. Ma qui a Miami sembrava un po’ meno plausibile. Sicché, se entrando in questo mezzo palazzo avessi visto tre corpi disposti in modo da comunicarmi qualcosa, avrei dovuto considerare la possibilità che il messaggio l’avessi scritto io. Non era più credibile dell’ipotesi di una party line del subconscio?

Ero arrivato alla scala esterna dell’edificio. Mi fermai per un istante e chiusi gli occhi, appoggiandomi alla nuda parete di cemento. Era appena più fresca dell’aria, e ruvida. Ci strofinai la guancia, provando una sensazione a metà tra il piacere e il dolore. Per quanto fossi curioso di salire a vedere quello che c’era da vedere, avrei voluto allo stesso modo non vederlo. Parlami, sussurrai al Passeggero Oscuro. Dimmi che cos’hai fatto.

Ma naturalmente non ci fu risposta, a parte la solita, gelida risata in lontananza, che non mi era di grande aiuto. Provavo una leggera nausea, un senso di vertigine e di insicurezza. E non mi piaceva la sensazione di provare sensazioni. Respirai a fondo tre volte, mi raddrizzai e riaprii gli occhi.

A un metro da me, con un piede sul primo gradino della scala, il sergente Doakes mi stava fissando. Il suo volto era una maschera nera scolpita di curiosa ostilità, come un Rottweiler che vorrebbe staccarti le braccia a morsi, ma prima vorrebbe scoprire che sapore hai. E nella sua espressione c’era qualcosa che non avevo mai visto in faccia a nessuno, se non allo specchio. Era la vacuità profonda e persistente di qualcuno che ha saltato l’intera storia a fumetti dell’esistenza umana ed è andato a leggere le vignette finali.

«A chi stai parlando», mi chiese, mostrando i suoi denti candidi. «C’è qualcun altro lì con te?»

Le sue parole e la sua aria di sapere tutto mi tagliarono in due come una lama e mi fecero sentire le viscere di gelatina. Perché aveva scelto proprio quelle parole? Che cosa intendeva dicendo lì con me? Poteva essere a conoscenza del Passeggero Oscuro? Impossibile. A meno che…

Doakes mi avesse riconosciuto per quello che ero.

Come io avevo riconosciuto la Perfetta Infermiera.

La Cosa Dentro lancia il suo richiamo nel vuoto, quando riconosce un esemplare della sua stessa specie. Che anche il sergente Doakes avesse il suo Passeggero? Com’era possibile? Poteva un sergente della Omicidi essere in realtà un oscuro predatore come il delittuoso Dexter? Impensabile. Ma come spiegarlo altrimenti? Non vedevo alternative. E continuammo a fissarci vicendevolmente, troppo a lungo.

Poi lui scosse il capo, continuando a controllarmi. «Uno di questi giorni», disse, «tu e io…»

«Ci penserò», risposi, con tutto il buon umore che riuscii a simulare. «Nel frattempo, se mi vuoi scusare…»

Lui rimase dov’era, occupando l’intera larghezza della scala. Poi si fece da parte, con un lieve cenno di assenso. «Uno di questi giorni», ripeté, mentre io gli passavo accanto per salire le scale.

Lo choc di quell’incontro mi aveva riportato bruscamente alla realtà. Ma certo che non stavo commettendo omicidi in stato di incoscienza. A parte l’evidente assurdità dell’idea, sarebbe stato impensabile compiere simili delitti senza ricordarsene. Doveva esserci qualche altra spiegazione, qualcosa di più semplice. Non ero certo l’unico a essere capace di una simile creatività. Dopotutto ero a Miami, circondato da creature pericolose come il sergente Doakes.

Mi affrettai sulle scale, sentendo una scarica di adrenalina nel sangue. Ero tornato a essere me stesso. Il fatto che salissi i gradini a due per volta non era dovuto soltanto al desiderio di allontanarmi quanto prima dal sergente. Ora ero risoluto a esaminare da vicino il più recente misfatto a danno del benessere comune. Curiosità naturale, niente di più. Di sicuro non avrei trovato le mie impronte digitali.

Al piano di sopra mancavano ancora quasi tutte le pareti. Appena misi piede su quello che sarebbe stato il pianerottolo, scorsi Angel Nessuna Parentela chino sul pavimento, immobile. Aveva i gomiti saldamente piantati sulle ginocchia, la faccia appoggiata sulle mani e lo sguardo vitreo. Era uno degli spettacoli più singolari e stupefacenti che avessi mai visto: un tecnico della Omicidi di Miami ridotto all’immobilità di fronte alla scena di un delitto.

E ciò che aveva trovato era ancora più interessante.

Sembrava lo scenario di un oscuro melodramma, un vaudeville per vampiri. Come nel luogo in cui avevo lavorato su Jaworski, c’era un cumulo di lastre di pietra avviluppate dalla plastica, addossato a un muro, sotto le luci del cantiere e le lampade collocate dalla squadra investigativa. Sopra le lastre, come su un altare, c’era una tavola nera, disposta con cura sotto le luci, in modo che ciò che vi si trovava sopra fosse ben illuminato.

Si trattava, naturalmente, della testa di una donna, con in bocca lo specchietto retrovisore di un’automobile o di un camion, che le atteggiava il viso in un’espressione quasi comica di sorpresa.

Sulla sinistra c’era una seconda testa, con il corpo di una Barbie piazzato sotto il mento, creando l’effetto di una enorme testa sopra un corpicino minuscolo.

Sulla destra c’era una terza testa, montata come un trofeo su una lastra verticale di pietra, grazie a due grossi chiodi conficcati nelle orecchie.

Non c’erano tracce di sangue. Tutte le teste erano completamente dissanguate.

Uno specchio, una Barbie e una lastra di pietra.

Tre omicidi.

Tre resti esangui.

Ciao, Dexter.


Non c’era possibilità di equivoco. Il corpo della Barbie era un chiaro riferimento a quello che si trovava nel mio frigorifero. Lo specchietto era una citazione della testa lasciata sulla Causeway. E la lastra di pietra era un’allusione a Jaworski. I casi erano due: o l’assassino ragionava con la mia stessa testa, oppure ero io.

Respirai lentamente. Ero alquanto sicuro che le mie emozioni fossero diverse da quelle di. Angel, ma mi veniva spontaneo accovacciarmi sul pavimento al suo fianco. Avevo bisogno di ricordarmi come si faceva a riflettere e il pavimento mi sembrava il posto migliore per incominciare. E invece mi diressi lentamente verso l’altare, come se fossi trascinato su binari ben oliati. Non potevo fermarmi o rallentare, riuscivo solo a guardare stupefatto. A stento mi ricordavo che dovevo respirare. E piano piano cominciavo ad accorgermi di non essere l’unico rimasto senza parole di fronte a quello spettacolo.

Nel mio lavoro, per non parlare di quando mi dedicavo al mio hobby, mi ero trovato sulla scena di centinaia di omicidi, molti dei quali così violenti e brutali da sconvolgere anche me. Ma su ognuna di quelle scene del crimine la squadra di Miami-Dade si era dedicata a svolgere il proprio compito con rilassata professionalità. C’era chi trangugiava caffè, chi ordinava pasteles o ciambelle, chi faceva battute o riferiva pettegolezzi intanto che raccoglieva brandelli di carne. Tutte le volte avevo visto persone così poco impressionate dal massacro che li si sarebbe detti impegnati in una partita di bowling del campionato parrocchiale.

Fino a quel momento.

Stavolta nel vasto stanzone di cemento regnava un silenzio innaturale. Poliziotti e tecnici se ne stavano in gruppetti di due o tre persone, quasi avessero paura a rimanere da soli, e fissavano la scenografia sulla parete di fondo. Se qualcuno faceva un rumore, gli altri sobbalzavano e si voltavano di scatto. L’intera scena era così stranamente grottesca che, se anch’io non fossi rimasto con gli occhi spalancati come gli altri, sarei scoppiato a ridere.

Ero stato io a fare questo?

Era di una bellezza terribile. La disposizione era perfetta, coinvolgente, immacolata. Dimostrava un grande spirito e uno straordinario senso della composizione. Qualcuno si era dato un gran daffare per realizzare una vera opera d’arte. Qualcuno dotato di stile, talento e morbosa ironia. In tutta la mia vita, avevo conosciuto solo un unico Qualcuno di quel genere.

Era possibile che quel Qualcuno, nel profondo, stesse sognando Dexter?

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