«Bevete vino?» domandò.
Richard annuì.
«Ho bevuto del vino solo poche volte» disse Porta. «Mio padre. Lui a cena ci permetteva di assaggiarlo.»
L’Angelo Islington sollevò la bottiglia. Pareva una sorta di caraffa da decantazione. Richard si chiese se fosse di vetro, poiché rifrangeva e rifletteva la luce delle candele in modo molto insolito. Forse si trattava di un cristallo, o di un unico gigantesco diamante. Dava addirittura l’impressione che il vino all’interno brillasse, come fosse fatto di luce.
L’angelo tolse la parte superiore del cristallo e versò due dita del liquido in esso contenuto in un bicchiere da vino. Era vino bianco, ma di un tipo che Richard non aveva mai visto. Spargeva luce all’intorno, come i raggi del sole su una piscina.
Porta e Richard si sedettero a un tavolo di legno annerito dal tempo, su enormi sedie di legno, senza proferire parola.
«Si tratta» spiegò Islington «dell’ultima bottiglia di questo vino. Uno dei tuoi antenati me ne aveva donate una dozzina.»
Porse il bicchiere a Porta, e cominciò a versare altre due dita di quel vino luminoso dalla caraffa in un secondo bicchiere. Agiva con reverenza, quasi con amore, come un sacerdote che esegue un rituale.
«Si trattava di un regalo di benvenuto. Erano, oh, trenta, quarantamila anni fa. Parecchio tempo, comunque.»
Passò il vino a Richard.
«Immagino mi accuserete di sperperare qualcosa che dovrei invece tenere in gran conto» disse l’angelo. «Ma ricevo ospiti cosi di rado. E la via per giungere fin qui è molto difficile.»
«L’Angelus…» mormorò Porta.
«Voi siete arrivati qui adoperando l’Angelus, certo. Ma è una strada che ogni viaggiatore può percorrere una sola volta.» L’angelo sollevò in alto il suo bicchiere, fissando la luce. «Bevete piano» li ammonì. «È incredibilmente forte.» Si sedette al tavolo, tra Richard e Porta. «Quando lo si assaggia» disse pensoso «è come immaginare di gustare realmente il sole dei tempi che furono.» Alzò il bicchiere. «Un brindisi: alle glorie passate.»
«Alle glorie passate» ripeterono in coro Richard e Porta. Poi, con un po’ di cautela, assaggiarono il vino, sorseggiando, non bevendo.
«È stupefacente» disse Porta.
«Davvero» concordò Richard. «Pensavo che il vino vecchio diventasse aceto se esposto all’aria.»
L’angelo scosse il capo. «Non questo. È per il tipo di vite e per il luogo in cui è cresciuta. Purtroppo tutto il vitigno è stato distrutto quando la vigna è scomparsa tra le onde.»
«È magico» disse Porta, sorseggiando la luce liquida. «Non avevo mai assaggiato niente di simile.»
«E non l’assaggerai mai più» disse Islington. «Non è rimasto altro vino di Atlantide.»
Richard apri la bocca per dire al padrone di casa che Atlantide non è mai esistita, ma si rese conto che neppure gli angeli esistevano, e comunque la maggior parte delle cose che gli erano accadute negli ultimi giorni era impossibile, quindi richiuse la bocca e gustò un altro sorso di vino.
Lo faceva sentire felice. Lo faceva pensare a cieli più vasti e più azzurri di quanto avesse mai visto, con un sole dorato appeso proprio nel mezzo; tutto era più semplice, tutto più giovane rispetto al mondo che conosceva.
Alla loro sinistra c’era una cascata; limpide acque che scendevano veloci dai sassi per raccogliersi nello stagno scavato nella roccia. Sulla destra, tra due piloni di ferro, c’era una porta, costruita con silice liscia posta in una cornice di metallo ormai quasi nera.
«Pretendi davvero di essere un angelo?» chiese Richard. «Voglio dire, hai veramente incontrato Dio e tutto il resto?»
Islington sorrise, tollerante. «Io non pretendo nulla, Richard. Però sono un angelo.»
«E ci fai un grande onore» disse Porta.
«No. Siete stati voi a farmi un onore ben più grande venendo qui. Tuo padre era un brav’uomo, Porta, e per me un vero amico. La sua morte mi ha profondamente rattristato.»
«Ha detto… nel suo diario… ha detto che dovevo venire da te. Ha detto che potevo fidarmi di te.»
«Spero soltanto di essere degno di tale fiducia.» L’angelo sorseggiò il suo vino. «Londra Sotto è la seconda città di cui mi sono preso cura. La prima è affondata tra le onde, e non c’era nulla che potessi fare per evitarlo. So cosa significa il dolore, e la perdita. Ti faccio le mie condoglianze. Cosa vorresti sapere?»
Porta esitò un istante. «La mia famiglia… sono stati uccisi da mister Croup e mister Vandemar. Ma — chi l’ha ordinato? Voglio… voglio sapere perché.»
L’angelo annui. «Molti segreti trovano il modo di arrivare fino a me» disse. Poi si rivolse a Richard. «E tu? Tu cosa vuoi, Richard Mayew?»
Richard si strinse nelle spalle. «Rivoglio la mia vita. E il mio appartamento. E il mio lavoro.»
«Questo può accadere» disse l’angelo.
«Già. Bene» commentò Richard con tono piatto.
«Dubiti di me, Richard Mayhew?» chiese l’Angelo Islington. Richard lo guardò negli occhi. Si trovò a fissare occhi antichi come l’universo: occhi che avevano visto la polvere di stelle condensarsi in galassie.
Scosse il capo.
Islington gli sorrise, con dolcezza. «Non sarà semplice, e tu e i tuoi compagni affronterete alcune difficoltà. Ma c’è una via possibile. La chiave per risolvere entrambi i vostri problemi.» Si alzò, raggiunse un piccolo scaffale di roccia e prese una statuina, una tra le tante sui ripiani. Era una statuetta nera raffigurante un animale, fatta di vetro vulcanico. L’angelo la offri a Porta.
«Questa vi farà superare sani e salvi l’ultima parte del viaggio che vi ricondurrà qui da me» disse. «Il resto spetta a voi.»
«Cosa vuole che facciamo?» domandò Richard.
«I Frati Neri custodiscono una chiave, portatemela.»
«E la puoi usare per scoprire chi ha fatto uccidere la mia famiglia?» chiese Porta.
«Lo spero» rispose l’angelo.
Richard fini il suo bicchiere di vino. Sentiva che lo riscaldava, mentre gli scendeva in tutto il corpo. Aveva la strana sensazione che se avesse abbassato gli occhi a guardarsi le dita avrebbe potuto vedere il vino brillare attraverso di esse, come fossero fatte di luce…
«Buona fortuna» sussurrò l’Angelo Islington.
Si udì un rumore impetuoso, come di vento che geme attraversando una foresta distrutta, o come il battito di ali possenti.
Richard e Porta erano seduti sul pavimento in una sala del British Museum a fissare il dipinto intagliato di un angelo sul portale di una cattedrale.
La stanza era buia e vuota.
La festa era finita da molto tempo. Fuori, il cielo cominciava a rischiarare.
Richard si alzò, poi si chinò per aiutare Porta ad alzarsi. «I Frati Neri, Blackfriars?» chiese.
Porta annui.
«Persone o posto?» chiese ancora.
«Persone.»
Richard si diresse verso l’Angelus e con un dito ne sfiorò l’abito dipinto. «Pensi possa farlo davvero? Ridarmi la mia vita?»
«Non ho mai sentito che sia capitata una cosa del genere, ma non credo che ci avrebbe mentito. È un angelo.»
Porta apri la mano e osservò la statua della Bestia.
«Mio padre ne aveva una uguale» disse.
La ficcò bene in fondo a una delle tasche della giacca di pelle marrone.
«Be’,» fece Richard «di certo non riporteremo indietro la chiave se ce ne stiamo qui a cincischiare, giusto?»
Si avviarono per i lunghi corridoi.
«Allora, cosa sai di questa chiave?» chiese Richard.
«Nulla» rispose Porta. Avevano raggiunto l’ingresso principale del museo. «Ho sentito parlare dei Frati Neri, ma in realtà non ho mai avuto niente a che fare con loro.»
Toccò una porta a vetri, che si apri immediatamente.
«Un gruppo di monaci…» disse Richard, soprappensiero. «Scommetto che basta dire che è per un angelo, per un angelo vero, perché ci diano la sacra chiave, oltre ad aggiungere l’apriscatole magico e lo stupefacente cavatappi che fischia come regalo extra.» Cominciò a ridere.
«Sei di buon umore» commentò Porta.
Richard annui convinto. «Sto per andare a casa. Tutto tornerà di nuovo normale. Di nuovo noioso. Di nuovo meraviglioso.»
Dopo un’occhiata ai gradini di pietra del British Museum, Richard decise che erano stati creati apposta per essere discesi danzando da Fred Astaire e Ginger Rogers. E visto che nessuno dei due si trovava nei paraggi, cominciò a ballare scendendo la scalinata, in quella che ingenuamente immaginava essere una superlativa interpretazione di Fred Astaire, mentre canticchiava qualcosa a metà tra Puttin’ on the Ritz e Wombling White Tie and Tails.
Porta rimase ferma in cima alle scale, fissandolo inorridita. Poi fu preda di un’inarrestabile ridarella.
Lui alzò lo sguardo verso di lei e sollevò un immaginario cilindro di seta bianca nella sua direzione.
«Sciocco» disse Porta sorridendo.
Per tutta risposta, Richard le afferrò la mano e continuò a danzare su e giù per gli scalini. Porta esitò un attimo, quindi anche lei si mise a ballare. E ballava decisamente molto meglio di Richard.
In fondo alla scalinata ruzzolarono, senza fiato, esausti e ridacchianti, uno nelle braccia dell’altra.
Il mondo di Richard girava vorticosamente.
«Andiamo a cercare la nostra guardia del corpo» disse Porta.
E si allontanarono insieme, sul marciapiede, incespicando di quando in quando.
«Cosa vuoi?» domandò mister Croup.
«Cosa vogliamo tutti?» domandò il Marchese de Carabas.
«Cose morte» rispose mister Vandemar. «Altri denti.»
«Pensavo che forse avremmo potuto trovare un accordo» disse il Marchese.
Mister Croup cominciò a ridere. Il suono era quello di una lavagna fatta strisciare contro un muro di unghie spezzate. «Oh, messer Marchese. Penso di poter baldanzosamente affermare, senza tema di smentita da parte di alcuno dei presenti, che hai perso il bene di quell’intelletto che avevi la reputazione di avere. Se mi scusi la volgarità, direi che sei completamente fuori di testa.»
«Una parola,» disse mister Vandemar, che ora stava in piedi accanto alla sedia del Marchese, «e il collo sarà fuori dalla testa prima che possiate dire Jack Ketch.»
Il Marchese si soffiò con forza sulle unghie e se le lucido sul risvolto del trench. «Ho sempre ritenuto» disse in confidenza «che la violenza fosse l’ultimo rifugio degli incompetenti, e le vuote minacce il santuario finale degli inetti senza speranza.»
Mister Croup lo guardava, furioso. «Che ci sei venuto a fare, qui?» sibilò.
Il Marchese de Carabas si allungò come un grosso felino: una lince, forse, o una gigantesca pantera nera. Al termine dell’allungamento era in piedi, le mani affondate nelle tasche.
«Mi è dato di capire» disse con tono colloquiale «che tu, mister Croup, sei un collezionista di statuine della dinastia Tang.»
«Come fai a saperlo?»
«La gente mi racconta delle cose. Sono un tipo affabile.» Il sorriso del Marchese era puro, sereno, schietto: il sorriso di un uomo che ti sta vendendo per nuova un’auto usata.
«Anche se lo fossi…» cominciò mister Croup.
«Se tu lo fossi,» interloquì il Marchese de Carabas «potresti essere interessato a questa.»
Estrasse di tasca una mano e ne mostrò il contenuto a mister Croup.
Fino a poco prima, quella sera, si trovava in un contenitore di vetro nella cassaforte di una delle principali banche d’affari di Londra. Era nota come ’Lo spirito d’autunno (figurina tombale)’. Era alta circa venti centimetri: un pezzo di porcellana vetriata. Era stata modellata, dipinta e cotta mentre l’Europa viveva i secoli bui dell’alto Medioevo.
Mister Croup emise involontariamente un sibilo e allungò la mano verso la statuina. Il Marchese la mise fuori portata, stringendosela al petto.
«Cosa ci impedisce di prenderla? E di spargere pezzetti di te in tutto il Mondo di Sotto?» chiese mister Croup. «Non abbiamo mai avuto occasione di smembrare un marchese.»
«L’abbiamo avuta» intervenne mister Vandemar. «A York. Nel quattordicesimo secolo. Pioveva.»
«Non era un marchese» disse mister Croup. «Era il conte di Exeter.»
«E marchese di Westmorland.» Mister Vandemar pareva alquanto soddisfatto di sé.
Mister Croup tirò su col naso. «Cosa ci impedisce di ridurre anche te in tanti pezzi come il marchese di Westmorland?» chiese.
De Carabas tolse di tasca anche l’altra mano. Teneva stretto un piccolo martello. Lanciò il martello in aria, come un barista in un video sulla preparazione dei cocktail, e lo afferrò per il manico, con la parte in ferro appoggiata sulla figurina di porcellana. «Oh, per favore» disse. «Basta con i trucchetti cretini. Penso che mi sentirei meglio se rimaneste tutti e due laggiù.»
Mister Vandemar lanciò un’occhiata a mister Croup, che fece un cenno di assenso quasi impercettibile. L’aria tremò, e mister Vandemar era accanto a mister Croup.
Mister Croup sorrise come un teschio. «In effetti è vero che sono noto per avere occasionalmente acquistato qualche pezzo Tang. Quello è in vendita?»
«Nel Mondo di Sotto non siamo molto portati per la compravendita, mister Croup. Baratto. Scambio. Ecco quello che cerchiamo. Comunque si, certo, questo desiderabile oggettino è sicuramente qui per essere arraffato.»
«Di’ il tuo prezzo» disse mister Croup.
Il Marchese fece un sospiro di sollievo. «Primo, tre risposte a tre domande» disse.
Croup annui. «Reciproco. Anche noi otteniamo tre risposte.»
«D’accordo» disse il Marchese. «Secondo, un salvacondotto per andarmene da qui. E accettate di darmi almeno un’ora di vantaggio.»
Croup annuì con foga. «Concesso. Fai la tua prima domanda.» Il suo sguardo era fisso sulla statuina.
«Prima domanda: per chi lavorate?»
«Oh, questa è facile» disse mister Croup. «È una risposta semplice. Lavoriamo per il nostro principale, che desidera restare anonimo.»
«Hmm. Perché avete ucciso la famiglia di Porta?»
«Ordini del principale» rispose mister Croup, il cui sorriso diventava più volpino di minuto in minuto.
«Perché non avete ucciso Porta quando ne avete avuto l’occasione?»
Prima che mister Croup potesse rispondere, mister Vandemar disse, «Dobbiamo tenerla in vita. È l’unica che può aprire la porta.»
Mister Croup lanciò un’occhiata furiosa al suo socio. «Bravo!» disse. «Perché non gli racconta tutto?»
«Volevo partecipare anch’io» mormorò mister Vandemar.
«Bene» disse mister Croup. «Hai avuto le tue tre risposte, per quello che ti possono servire. La mia prima domanda è: perché la stai proteggendo?»
«Suo padre mi ha salvato la vita» rispose il Marchese. «Non gli ho mai ripagato il debito. E io preferisco avere crediti, piuttosto.»
«Ho una domanda» intervenne mister Vandemar.
«Anch’io, mister Vandemar. Quello del Mondo di Sopra, Richard Mayhew, perché viaggia con la ragazza? Perché glielo permette?»
«È solo sentimentalismo, da parte sua» spiegò il Marchese de Carabas.
«Adesso io» disse mister Vandemar. «A che numero sto pensando?»
«Come, scusa?»
«A che numero sto pensando?» ripeté mister Vandemar. E, per aiutare ulteriormente, aggiunse, «È tra uno e un sacco.»
«Sette» rispose il Marchese.
Mister Vandemar annui, molto colpito.
Mister Croup cominciò, «Dov’è la…» ma il Marchese scosse il capo. «Ah-ah» disse. «Stiamo diventando ingordi!»
Nello scantinato umido ci fu un momento di assoluto silenzio. Poi l’acqua prese a colare e i vermi a strisciare, e il Marchese disse, «Un’ora di vantaggio, ricordatevelo.»
«Naturalmente» disse mister Croup.
Il Marchese de Carabas lanciò la figurina a mister Croup, che l’afferrò con impazienza, come un tossicodipendente che afferri una bustina di plastica piena di una polverina bianca di dubbia legalità.
Poi, senza voltarsi indietro, il Marchese lasciò il sotterraneo.
Mister Croup esaminò minuziosamente la statuetta, girandola e rigirandola tra le mani, come un prete dickensiano appartenente alla chiesa della Mostra itinerante dell’antiquariato. Di quando in quando la lingua gli sporgeva tra le labbra, simile a quella di un serpente.
«Oh, bella, bella» sussurrava. «È davvero della dinastia Tang. Vecchia di milleduecento anni, le più raffinate figurine di porcellana mai realizzate su questa terra. Questa è stata creata da Kai Lung, il migliore dei ceramisti: non ne esiste un’altra uguale. Esamini il colore della vetrina; il senso delle proporzioni; la vita…» Sorrideva, ora, come un bambino; il sorriso innocente sembrava perso e confuso sull’ambiguo terreno della faccia di mister Croup. «Regala al mondo un tocco in più di meraviglia e di bellezza.»
Quindi la bocca gli si allargò in un ghigno eccessivo, abbassò la faccia verso la figurina e ne frantumò la testa tra i denti, mordendo e masticando selvaggiamente, inghiottendo pezzo dopo pezzo. I denti avevano ridotto la porcellana a una polvere sottile che gli ricopriva la parte inferiore del viso.
Si compiaceva di quella distruzione, e le dedicava la strana follia e l’incontrollabile brama sanguinaria di una volpe in un pollaio.
Poi, quando non rimase altro che polvere, si rivolse a mister Vandemar. Sembrava insolitamente mite, quasi languido. «Quanto tempo abbiamo detto che gli concedevamo?»
«Un’ora.»
«Hmm. E quanto è trascorso?»
«Sei minuti.»
Mister Croup abbassò la testa e si passò un dito sul mento, che leccò per non sprecare neppure una piccola parte della polvere di porcellana.
«Lo segua, mister Vandemar» disse mister Croup. «Io ho bisogno di qualche altro minuto per assaporare il momento.»
Hunter senti il rumore dei loro passi mentre scendevano le scale. Era in piedi nell’ombra, a braccia incrociate, nella stessa posizione in cui si trovava quando l’avevano lasciata.
Richard canterellava a bocca chiusa, in modo enfatico.
Porta non riusciva a smettere di ridacchiare. Si fermava e diceva a Richard di stare zitto. Per ricominciare subito a ridacchiare.
Passarono davanti a Hunter senza accorgersene.
Lei usci dall’ombra e disse, «Siete stati via otto ore.» Era un’affermazione del tutto priva di biasimo o di curiosità.
Porta la guardò di sottecchi. «Non mi è sembrato cosi tanto.»
Hunter non commentò.
Richard le fece un largo sorriso un po’ offuscato. «Non vuoi saper cos’è successo? Be’, mister Croup e mister Vandemar ci hanno teso un’imboscata. Purtroppo non avevamo una guardia del corpo a portata di mano, ma gliel’ho fatta vedere io.»
Hunter inarcò un sopracciglio perfetto. «Mi sento in soggezione davanti al tuo talento pugilistico» disse con freddezza.
Porta sogghignò. «Sta scherzando. In realtà — ci hanno uccisi.»
«In quanto esperta nella terminazione delle funzioni organiche vitali» disse Hunter «mi permetto di non essere d’accordo. Nessuno di voi è morto. A occhio e croce direi che siete entrambi molto ubriachi.»
Porta fece la linguaccia alla sua guardia del corpo. «Stupidaggini. Ne ho toccata appena una goccia. Tanto così.»
Allungò due dita per mostrare che quantità infinitesimale fosse «tanto cosi.»
«Siamo solo andati a una festa» spiegò Richard «e abbiamo visto Jessica e abbiamo visto un vero angelo e ci hanno dato un porcello pazzerello tutto nero e cicciottello e siamo tornati qui.»
«Abbiamo bevuto pochissimo» continuò Porta, tutta seria. «Un vino vecchio vecchio. Pochiiino pochiiino. Proprio poco. Quasi niente.»
Cominciò ad avere il singhiozzo. Poi si mise di nuovo a ridacchiare. Fu interrotta da un singhiozzo e si sedette di colpo sulla banchina.
«Penso che forse siamo un po’ sbronzi» ammise Porta, già più sobria. .
Quindi chiuse gli occhi e iniziò solennemente a russare.
Il Marchese de Carabas correva lungo le strade sotterranee come se avesse alle calcagna tutti i diavoli dell’inferno. Avanzava sguazzando nei quindici grigi centimetri del fiume Tyburn, il fiume dell’impiccato, al sicuro nell’oscurità di una fognatura di mattoni sotto Park Lane, alla volta di Buckingham Palace. Aveva corso per diciassette minuti.
Circa un metro al di sotto di Marble Arch si fermò. La fognatura si divideva in due diramazioni.
Il Marchese de Carabas scelse quella a sinistra.
Parecchi minuti più tardi, mister Vandemar si incamminava nella fognatura. Raggiunto il punto di confluenza, si fermò per qualche istante, annusando l’aria. Poi, anche lui prese la diramazione di sinistra.
Con un grugnito, Hunter lasciò cadere il corpo inanimato di Richard Mayhew su un cumulo di paglia. Lui si rotolò nella paglia, disse qualcosa che suonava come «Forsta griugli brufluf paf» e si rimise a dormire.
Accanto a lui adagiò anche Porta, ma più gentilmente. Poi si accovacciò vicino alla ragazza, nella buia scuderia sotterranea, sempre all’erta.
Il Marchese de Carabas era esausto. Si appoggiò contro il muro del tunnel a fissare i gradini che gli si paravano davanti. Quindi estrasse l’orologio da taschino d’oro e controllò l’ora. Erano passati trentacinque minuti dal momento in cui aveva lasciato lo scantinato dell’ospedale.
«È già un’ora?» chiese mister Vandemar.
Era seduto sui gradini di fronte al Marchese, e si esplorava le narici con un coltello.
«Neanche per sogno» disse il Marchese con il fiato corto.
«Sembrava un’ora» disse mister Vandemar.
Il mondo tremò, ed ecco mister Croup accanto al Marchese de Carabas. Gli era rimasta ancora qualche traccia di polvere sul mento.
De Carabas fissò mister Croup. Si voltò a guardare mister Vandemar. Poi, involontariamente, scoppiò a ridere.
Mister Croup sorrise. «Ci trovi buffi, vero messer Marchese? Una fonte di divertimento. Non è cosi? Con i nostri bei vestiti e le nostre involute circumlocuzioni…»
Mister Vandemar mormorò «Io non ce l’ho una circumlo…»
«… E le nostre sciocchezzuole nelle maniere e nei modi. E forse siamo buffi.» In quel momento mister Croup sollevò un dito e lo agitò verso de Carabas. «Ma, messer Marchese, non devi mai credere che solo perché una cosa è buffa non possa anche essere pericolosa.»
E mister Vandemar lanciò con forza e accuratezza il coltello contro il Marchese, che fu colpito alla tempia con il manico. Gli si rivoltarono gli occhi, e le ginocchia cedettero.
«Circumlocuzione» spiegò mister Croup «è un modo di parlare intorno a qualcosa. Una digressione. Verbosità.»
Mister Vandemar sollevò il Marchese de Carabas afferrandolo per la cintura e lo trascinò su per le scale, la testa che sbatacchiava rumorosamente contro ogni scalino.
Mister Vandemar fece un cenno di assenso. «Ero curioso» disse.
Sapeva che li stava aspettando. Ogni tunnel che percorreva, ogni svolta, ogni diramazione, la percezione cresceva, sempre più pressante e più pesante. La sensazione di catastrofe imminente aumentava a ogni passo.
Avrebbe dovuto sentirsi sollevato quando aveva svoltato l’ultimo angolo e l’aveva vista là, in piedi, incorniciata dal tunnel, ad attenderlo. Invece, provò soltanto paura.
Nel sogno era grande come il mondo. Non c’era altro che la Bestia, dai fianchi fumanti. Dalla sua pelle spuntavano lance spezzate e frammenti di vecchie armi. Sulle corna e sulle zanne c’era del sangue rappreso. Era grassa, enorme e cattiva.
E la Bestia caricò.
Sollevò la mano (ma non era la sua mano) e scagliò la lancia contro la creatura.
Vide i suoi occhi, rossi, maligni e gongolanti, che fluttuavano verso di lui, il tutto in una frazione di secondo che divenne una minuscola eternità. E poi fu su di lui…
L’acqua era fredda, e colpi il viso di Richard come uno schiaffo. Spalancò gli occhi e trattenne il respiro.
Hunter lo guardava dall’alto in basso. Teneva in mano un grosso secchiello di legno. Vuoto.
Allungò una mano e constatò di avere i capelli zuppi. Si tolse l’acqua dagli occhi e rabbrividì.
«Non c’era bisogno che lo facessi» disse Richard. Dal sapore che aveva in bocca pareva che numerosi animaletti l’avessero usata come gabinetto, prima di liquefarsi in qualcosa di vagamente verdognolo. Cercò di mettersi in piedi, ma si risedette di colpo. «Ooh!» spiegò.
«Come va la testa?» chiese Hunter con tono professionale.
«È stata meglio» rispose Richard.
Hunter prese un altro secchiello di legno, questa volta pieno d’acqua, e lo trascinò sul pavimento della scuderia. «Non so cosa avete bevuto,» disse «ma doveva essere molto potente.»
Hunter tuffò la mano nel secchiello e la agitò davanti al viso di Porta, spruzzandolo d’acqua. Gli occhi della ragazza sbatterono leggermente.
«Non c’è da meravigliarsi che Atlantide sia affondata» borbottò Richard. «Se la mattina si sentivano tutti cosi, con ogni probabilità è stato un sollievo. Dove siamo?»
Hunter spruzzò dell’altra acqua sul viso di Porta. «Nelle scuderie di un’amica» rispose.
Richard si guardò attorno. In effetti il luogo poteva avere l’aspetto di una scuderia. Si chiese dove fossero i cavalli — che tipo di cavalli potrebbe vivere sottoterra? Sul muro era dipinto uno stemma: la lettera S (o si trattava forse di un serpente? Richard non era in grado di stabilirlo) circondata da un cerchio formato da sette stelle.
Porta allungò una mano incerta verso la propria testa e la toccò con circospezione, quasi non fosse sicura di cosa avrebbe trovato. «Ooh» disse in un sussurro o poco più. «Per Temple e Arch! Sono morta?»
«No» rispose Hunter.
«Peccato.»
Hunter la aiutò ad assumere una posizione eretta. «Be’,» commentò Porta insonnolita «ci aveva avvertiti che era forte.»
Poi Porta si svegliò completamente, di colpo, in fretta. Afferrò la spalla di Richard e puntò il dito verso lo stemma sul muro, la S sinuosa come un serpente circondata di stelle. Rimase senza fiato, e sembrava in tutto e per tutto un topo che si è appena accorto di essersi svegliato in un allevamento di gatti.
«Serpentine!» disse a Richard, a Hunter. «È il cimiero di Serpentine. Richard, alzati! Dobbiamo scappare — prima che scopra che siamo qui…»
«E tu pensi» disse una voce asciutta dalla soglia «di poter entrare nella casa di Serpentine senza che Serpentine lo sappia, bambina?»
Porta indietreggiò contro il legno che copriva i muri della scuderia. Tremava. Nonostante il martellamento che aveva in testa, Richard si rese conto di non aver mai visto Porta spaventata, finora.
Serpentine era rimasta sulla soglia. Indossava un corsetto di pelle bianca, alti stivali di pelle dello stesso colore e i resti di quello che sembrava essere stato, tanto tempo prima, un vestito da sposa in seta e pizzo decisamente fru fru, e che ora era ridotto a brandelli, strappato e macchiato di fango. Torreggiava su tutti loro: la folta e arruffata massa di capelli che cominciavano a ingrigire sfiorava l’architrave della porta. Aveva occhi penetranti, e la bocca era uno squarcio crudele su un volto autoritario.
Guardò Porta come se pensasse che il terrore le fosse dovuto, come se non fosse solo avvezza alla paura, ma se l’aspettasse, addirittura la desiderasse.
«Calmati» disse Hunter.
«Ma è Serpentine» piagnucolò Porta. «Delle Sette Sorelle.»
Serpentine inclinò cortesemente il capo. Poi si allontanò dalla soglia. Dietro di lei c’era una donna magra dal viso severo e dai lunghi capelli scuri, che indossava un vestito nero stretto alla vita sottile. La donna non disse nulla.
Serpentine raggiunse Hunter.
«Hunter ha lavorato per me, tanto tempo fa» disse Serpentine. Allungò un dito bianco e accarezzò dolcemente la guancia bruna di Hunter, un gesto di possesso e di affetto. Poi, «Hai badato al tuo aspetto meglio di me, Hunter.»
Hunter abbassò lo sguardo.
«I suoi amici sono miei amici, bambina» disse Serpentine. «Sei Porta?»
«Si» rispose Porta, la bocca arida.
Serpentine si rivolse a Richard. «E tu cosa sei?» chiese, per niente impressionata.
«Richard» rispose lui.
«Io sono Serpentine» gli disse con cortesia.
«Cosi ho arguito» commentò Richard.
«C’è del cibo che vi aspetta» disse Serpentine «se desiderate interrompere il vostro digiuno.»
«Oddio, no» gemette educatamente Richard.
Porta non apri bocca. Era ancora con le spalle contro il muro, e ancora tremava dolcemente, come una foglia nella brezza estiva.
«Che c’è da mangiare?» chiese Hunter.
Serpentine guardò la donna dal vitino di vespa rimasta sulla soglia. «Be’?» fece.
La donna ammiccò con il sorriso più freddo che Richard avesse mai visto solcare un volto umano. Quindi disse «Uova fritte uova in camicia uova in salamoia cervo al curry cipolle in salamoia aringhe in salamoia aringhe affumicate aringhe sotto sale funghi in umido bacon salato cavolo ripieno stufato di montone gelatina di stinco di vitello…»
Richard apri la bocca per implorarla di smettere, ma era troppo tardi. Improvvisamente, violentemente, disperatamente, diede di stomaco.
Voleva qualcuno che lo sostenesse e gli dicesse che sarebbe andato tutto bene, che presto si sarebbe sentito meglio; qualcuno che gli desse un’aspirina e un bicchiere d’acqua, e lo riportasse nel suo letto. Ma nessuno lo fece; e il suo letto distava un’altra vita da li. Si lavò il vomito dal viso e dalle mani con l’acqua del secchiello. Poi si sciacquò la bocca con cura. Quindi, oscillando lievemente, segui le quattro donne per la prima colazione.
«Passami la gelatina di stinco di vitello» disse Hunter con la bocca piena.
La sala da pranzo di Serpentine era posta su quella che a Richard parve la più piccola banchina di metropolitana mai vista. Era lunga circa quattro metri, la maggior parte dei quali era occupata da un tavolo da pranzo su cui era stata stesa una tovaglia di damasco bianco, apparecchiato in modo molto formale e ricco di argenti. Il tavolo era sommerso di cibarie maleodoranti. Secondo Richard, la puzza peggiore proveniva dalle uova di quaglia in salamoia.
La pelle di Richard sembrava appiccicaticcia, gli occhi parevano essere stati inseriti male, mentre il cranio dava la vaga impressione di essere stato scambiato con uno di due o tre misure più piccolo.
Un treno della metropolitana passò a qualche centimetro da loro, e il vento causato dal suo passaggio sferzò la tavola imbandita. Il rumore del treno attraversò la testa di Richard come un coltello rovente che sezioni un cervello. Emise un lamento.
«Il tuo eroe non regge il vino, a quanto pare» osservò imperturbabile Serpentine.
«Non è il mio eroe» disse Porta.
«Invece ho paura che lo sia. Si impara a riconoscere il genere. Qualcosa negli occhi, forse.» Si rivolse alla donna in nero, che a quanto pareva fungeva da una sorta di maggiordomo. «Un tonico per il signore.»
La donna fece un sorriso secco e scivolò via.
Porta si servi dal piatto di funghi. «Ti siamo molto grati per tutto questo, Lady Serpentine» disse.
Serpentine arricciò il naso con disprezzo. «Solo Serpentine, bambina. Non ho tempo per stupidi titoli onorifici. Dunque, tu sei la figlia maggiore di Portico.»
«Si.»
Serpentine tuffò un dito nella salsa salmastra che conteneva quelle che sembravano numerose piccole anguille. Si leccò il dito e fece un cenno di approvazione. «Non ho mai avuto molto in comune con tuo padre. Tutte quelle ridicolaggini sul fatto di riunire il Mondo di Sotto. Stupidaggini, balle! Che uomo sciocco. Andava solo in cerca di guai. L’ultima volta che l’ho visto gli ho detto che se avesse rimesso piede qui l’avrei trasformato in un orbettino.» Si rivolse a Porta. «A proposito, come sta tuo padre?»
«È morto» rispose Porta.
Serpentine sembrava molto soddisfatta. «Visto?» commentò. «Proprio come dicevo io.»
Porta, invece, non disse nulla.
Serpentine afferrò qualcosa che aveva tra i capelli e lo esaminò con attenzione, per poi schiacciarlo tra pollice e indice e lasciarlo cadere sulla banchina. Quindi si rivolse a Hunter, che stava divorando una montagnola di aringhe in salamoia. «Sei a caccia della Bestia, allora?» disse.
Hunter fece cenno di si, con la bocca piena.
«Di sicuro ti servirà una lancia» continuò Serpentine.
La donna dal vitino di vespa si trovava ora accanto a Richard, con in mano un piccolo vassoio. Sul vassoio c’era un bicchierino contenente un liquido dall’aggressivo color smeraldo. Richard lo fissò, poi guardò Porta.
«Cosa gli dai?» chiese Porta.
«Niente che possa fargli male» disse Serpentine con un sorriso glaciale. «Siete ospiti.»
Richard tracannò il liquido verde, che sapeva di timo, menta piperita e mattine d’inverno.
Lo senti scendere, e si preparò a cercare di evitare che risalisse. Fece un respiro profondo e si accorse con un po’ di stupore che invece la testa non gli doleva più.
E che aveva una gran fame.
Old Bailey non era, intrinsecamente, una di quelle persone messe al mondo per raccontare barzellette. Nonostante questo handicap, continuava imperterrito a raccontarle. Le barzellette che si ostinava a riferire tendevano a essere storielle eccessivamente lunghe dal finale paradossale, di norma un infelice gioco di parole che, peraltro, spesso e volentieri Old Bailey non riusciva a ricordare al momento giusto.
Gli unici ascoltatori delle barzellette di Old Bailey erano i suoi uccelli in gabbia e, in particolare i corvi comuni, vedevano le storielle come parabole profonde e filosofiche recanti profondi e penetranti indicazioni di ciò che significa essere umani, e in realtà ogni tanto gli chiedevano di raccontarne qualcuna.
«Va bene, va bene, va bene» stava dicendo Old Bailey. «Se l’avete già sentita, fermatemi. C’è un uomo che entra in un bar. No, non era un uomo. È per questo che fa ridere. Scusate. Era un cavallo. Un cavallo… no… un filo. Tre fili. D’accordo. Tre fili entrano in un bar.»
Un gigantesco vecchio corvo gracchiò una domanda.
Old Bailey si sfregò il mento, poi si strinse nelle spalle. «Lo fanno e basta. È una barzelletta. Nelle barzellette possono camminare. Chiede un drink per sé e per i suoi amici. E il barista dice, qui non serviamo i fili. A un filo. Questo torna dagli amici e riferisce che in quel bar non servono i fili. Vedete, è una storiella, perciò anche il secondo filo va dal barista, e gli altri restano al tavolo, perché sono in tre, giusto? Finché l’ultimo, invece di andare al bancone, ordina il drink ad alta voce da lontano…»
Il corvo gracchiò di nuovo, con espressione saggia.
«I drink. Va bene, sono tre. E il barista, arrivato al tavolo con i bicchieri, gli fa, ehi, ma non sei un pezzo di filo anche tu? E il filo gli risponde, no di certo, non ti sei accorto che sono solo un gran filone? Capito? Filo, filone. È una battuta. Molto, molto divertente.»
Gli storni rumoreggiarono educatamente. I corvi annuirono e chinarono la testa da un lato. Poi il corvo più anziano gracchiò di nuovo qualcosa a Old Bailey.
«Un’altra? Non sono mica fatto di ilarità, io. Lasciatemi pensare…»
Dalla tenda si udì un rumore. Un suono profondo e pulsante, come il battito di un cuore lontano. Old Bailey si precipitò dentro. Il rumore proveniva da una cassapanca di legno in cui teneva le cose di maggior valore. Apri la cassapanca.
Il battito divenne molto, molto più forte.
La scatolina d’argento era posta in cima ai tesori di Old Bailey. Allungò una mano nodosa e la prese. Dentro, una luce rossa pulsava e brillava ritmicamente, come un cuore che batte, e risplendeva all’esterno attraverso la filigrana, le incrinature e le cerniere.
«È nei guai» disse Old Bailey.
Il corvo più vecchio gracchiò una domanda.
«Il Marchese» rispose Old Bailey. «È in grossi guai.»
Quando Serpentine allontanò la sedia dal tavolo, Richard era a metà del secondo piatto di cibo.
«Penso di avere adempiuto ai miei doveri di ospite» disse. «Bambina, giovanotto, buon giorno. Hunter…» fece una pausa. Quindi passò un dito simile a un artiglio lungo la linea della mascella di Hunter. «Hunter, sei sempre la benvenuta.»
Rivolse loro un imperioso cenno del capo e si alzò, per andarsene seguita dal suo maggiordomo dal vitino di vespa.
«E meglio incamminarci, adesso» disse Hunter. Si alzò da tavola, quindi Porta e, con maggiore riluttanza, Richard, la seguirono.
Percorsero un lungo corridoio, cosi stretto che potevano passare soltanto uno alla volta. Salirono dei gradini di pietra. Nel buio, attraversarono un ponte di ferro, mentre i treni del metrò echeggiavano sotto di loro. Poi entrarono in quella che pareva una rete infinita di volte sotterranee, che avevano l’odore dell’umido e del marcio, dei mattoni, della pietra e del tempo.
«Allora quella era il tuo vecchio capo, eh? Sembrava abbastanza simpatica» disse Richard a Hunter.
Hunter non commentò.
Porta, che si era sentita come soggiogata, disse: «Nel Mondo di Sotto, quando si vuole che un bambino si comporti come si deve gli si dice: ’Fai il bravo, altrimenti Serpentine ti porta via’.»
«Oh» fece Richard. «E tu hai lavorato per lei, Hunter?»
«Ho lavorato per tutte le Sette Sorelle.»
«Pensavo che non si parlassero da, be’, da almeno trent’anni» disse Porta.
«Più che possibile. Ma allora si parlavano ancora.»
«Ma quanti anni hai?» domandò Porta. Richard era contento che l’avesse chiesto, perché lui non avrebbe mai osato.
«Sono vecchia quanto la mia lingua,» rispose Hunter «ma un pochino più vecchia dei miei denti.»
«Comunque,» disse Richard, con il tono di voce di uno che si è ripreso dai postumi di una sbronza e sa che, da qualche parte sopra di lui, qualcun altro sta passando una splendida giornata, «è andato tutto bene. Ottimo cibo. E nessuno ha cercato di ucciderci.»
«Sono certa che a questo rimedieremo presto» ribatté Hunter, sempre precisa. «Da quale parte per i Black Friars, mia signora?»
Porta si fermò per concentrarsi.
«Seguiremo la via del fiume» disse. «Per di qua.»
«Non è ancora rinvenuto?» chiese mister Croup.
Mister Vandemar pungolò il corpo prostrato del Marchese con un dito lunghissimo. Il respiro era debole. «Non ancora, mister Croup. Credo di averlo rotto.»
«Dovrebbe stare più attento con i suoi giocattoli, mister Vandemar» disse mister Croup.