TRE

Domenica mattina Richard prese dal cassetto in fondo all’armadio il telefono a forma di Bat-mobile che gli aveva regalato zia Maude un Natale di qualche anno prima, e lo inserì nella presa.

Provò a telefonare a Jessica, ma senza successo. La sua segreteria telefonica era spenta, e cosi anche il telefonino. Probabilmente era andata in campagna a casa dei suoi genitori.

I genitori di Richard erano morti entrambi. Suo padre era deceduto all’improvviso quando Richard era ancora un ragazzo, per un infarto. E da quel momento sua madre aveva iniziato a morire piano piano, cosicché quando Richard se ne era andato da casa si era semplicemente spenta: sei mesi dopo essersi trasferito a Londra aveva ripreso il vagone letto per la Scozia e aveva trascorso gli ultimi due giorni in ospedale, seduto accanto al suo capezzale. A volte lo riconosceva, altre volte lo chiamava con il nome di suo padre.

Richard si sedette sul divano a rimuginare. I fatti dei due giorni precedenti diventavano sempre meno reali, sempre meno verosimili. A essere reale restava il messaggio lasciato da Jessica nella sua segreteria. Lo ascoltò e lo riascoltò, quella domenica, sperando ogni volta che si addolcisse, che nella sua voce apparisse un po’ di calore. Non accadde.

Pensò di uscire a comprare il giornale, poi decise di non farlo. Arnold Stockton, il capo di Jessica, una caricatura di uomo dai molti menti che si era fatto da sé, era il propietario dei giornali della domenica che non appartenevano a Rupert Murdoch. I suoi giornali parlavano di lui. E anche gli altri.

Invece, si fece un bel bagno caldo, ingurgitò parecchi panini e numerose tazze di tè. Per un po’ guardò la televisione e si costruì delle conversazioni immaginarie con Jessica.

Alla fine di ogni dialogo mentale facevano l’amore in modo selvaggio, rabbioso, appassionato e solcato di lacrime; dopo di che tutto era di nuovo a posto.

Lunedì mattina la sveglia di Richard non suonò. Si precipitò in strada alle nove meno dieci, la valigetta che ondeggiava furiosamente, e si mise a guardare di qua e di là come un folle, alla ricerca di un taxi.

Poi sospirò di sollievo, perché una grossa auto nera era entrata nella sua via e si dirigeva proprio verso di lui, con la scritta gialla TAXI in brillante evidenza. Agitò la mano.

«Taxi!»

Il taxi lo superò lentamente, ignorandolo, svoltò l’angolo e sparì.

Un altro taxi. Un’altra luce gialla a indicare che era libero. Questa volta Richard si mise a fare segnali in mezzo alla carreggiata.

Sterzò per superarlo e continuò per la sua strada.

Richard cominciò a imprecare sottovoce.

A quel punto si diresse di corsa verso la stazione della metropolitana più vicina.

Si tolse di tasca una manciata di monete, colpi con rabbia il pulsante della macchinetta dei biglietti per ottenerne uno di sola andata per Charing Cross, e infilò le monete nella feritoia.

Ogni moneta che inseriva scendeva dritta attraverso le viscere della macchina, per precipitare rumorosamente nel cassettino sul fondo. Non apparve alcun biglietto.

Tentò con un altro distributore. E con un altro ancora.

L’uomo addetto alla vendita dei biglietti era al telefono quando Richard si rivolse a lui per lamentarsi e acquistare direttamente quello che gli serviva; e a dispetto — o forse a causa — delle grida di Richard e del suo disperato picchiettare con una moneta sulla barriera di plexiglass, se ne rimase risolutamente a chiacchierare.

«Fanculo» annunciò Richard, saltando la barriera.

Nessuno lo fermò.

Nessuno parve interessato.

Scese le scale correndo, sudato e ansimante, e arrivò sulla banchina affollata proprio mentre arrivava un treno.

Da bambino, Richard aveva sofferto di incubi in cui semplicemente non esisteva. Non importava quanto rumore o cosa facesse, nessuno si accorgeva di lui.

Cominciò a sentirsi cosi anche in quel momento, mentre davanti a lui la gente si spintonava; venne preso a gomitate dalla folla, spinto di qua e di là da chi scendeva e da chi saliva.

Insistette, spingendo e sgomitando a sua volta, ed era quasi riuscito a salire — aveva già un braccio sul treno — quando le porte cominciarono a chiudersi sibilando. Ritirò la mano, ma la manica del soprabito rimase incastrata.

Richard si mise a prendere a pugni la porta e a gridare, aspettandosi almeno che il guidatore aprisse quel tanto che bastava a liberargli la manica. Invece il treno cominciò a muoversi e Richard fu costretto a correre sulla banchina, inciampando, sempre più veloce.

Lasciò cadere la valigetta e prese a tirare disperatamente la manica con la mano libera.

La manica si strappò e lui cadde in avanti, spellandosi le mani e lacerandosi i pantaloni all’altezza del ginocchio.

Con qualche difficoltà si rimise in piedi, ripercorse la banchina e recuperò la valigetta.

Guardò la manica strappata, la mano escoriata e i pantaloni bucati.

Poi risali le scale e lasciò la stazione della metropolitana. Nessuno gli chiese il biglietto neppure all’uscita.

«Mi dispiace, sono in ritardo» disse Richard a nessuno in particolare.

L’orologio sul muro dell’ufficio diceva che erano le dieci e mezzo.

Lasciò cadere la valigetta sulla sedia e si asciugò il sudore dal viso con il fazzoletto.

«Non potete immaginare cos’è stato arrivare qui» continuò. «Un vero incubo.»

Abbassò gli occhi sulla sua scrivania. Mancava qualcosa. O, per essere più precisi, mancava tutto.

«Dove sono le mie cose?» chiese alla stanza, alzando leggermente la voce. «Dove sono i miei telefoni? Dove sono i miei troll?»

Controllò nei cassetti. Vuoti anche quelli: neppure la carta di un Mars o una graffetta piegata a indicare che Richard fosse mai stato li.

Sylvia stava arrivando verso di lui, in conversazione con due gentiluomini piuttosto robusti. Richard le andò incontro.

«Sylvia? Cosa sta succedendo?»

«Mi scusi?» disse lei educatamente. Indicò la scrivania ai due signori nerboruti che la sollevarono uno da un lato e uno dall’altro e iniziarono a trasportarla fuori dall’ufficio.

«La mia scrivania. Dove la portano?»

Sylvia lo guardò fisso, lievemente perplessa. «E lei è…?»

Non so che farmene di questa merda, pensò Richard. «Richard» rispose sarcastico. «Richard Mayhew.»

«Salve» disse Sylvia. Quindi la sua attenzione scivolò su Richard come l’acqua sulle penne di un’anatra e disse, «No! Non là!» ai traslocatori, e si mise a rincorrerli mentre portavano via la scrivania.

La guardò andarsene. Poi attraversò l’ufficio e raggiunse la scrivania di Garry.

«Garry. Che succede? È uno scherzo o cosa?»

Garry si guardò intorno, come se avesse sentito un rumore. Quindi scosse il capo, sollevò il ricevitore del telefono e iniziò a comporre un numero.

Richard sbatté la mano sul telefono, interrompendo la comunicazione. «Guarda che non è divertente, Garry. Non so a che gioco stiate giocando, tutti voi!» Garry alzò lo sguardo su di lui. Richard continuò, «Se sono stato licenziato, basta che me lo diciate, ma questo far finta che io non sia qui…»

A quel punto Garry sorrise e disse, «Salve. Si, sono Garry Perunu. Posso esserle di aiuto?»

«Non penso proprio» rispose Richard con freddezza, e se ne andò dall’ufficio, lasciando la valigetta dietro di sé.


L’ufficio di Richard si trovava al terzo piano di un grande edifìcio piuttosto vecchio e pieno di correnti d’aria, a pochi passi dallo Strand.

Jessica lavorava circa a metà altezza di una grande struttura di specchi e cristallo nella City di Londra, quindici minuti a piedi in fondo alla strada.

Richard camminò fino in fondo alla strada.

Arrivò al palazzo Stockton in dieci minuti, superò di slancio le guardie di sicurezza in uniforme di servizio al piano terra, entrò in ascensore e sali.

L’interno dell’ascensore era pieno di specchi, e mentre saliva osservò la propria immagine riflessa. Aveva la cravatta mezza slacciata e di sghimbescio, il soprabito strappato e i pantaloni bucati, e i capelli erano un informe ammasso sudaticcio… Signore, aveva un aspetto tremendo.

Si udì un suono flautato e la porta dell’ascensore si apri.

Il piano del palazzo Stockton dove lavorava Jessica era decisamente opulento, in una sorta di stile minimalista.

Accanto all’ascensore c’era una receptionist, una creatura posata ed elegante il cui stipendio netto aveva tutta l’aria di superare alla grande quello di Richard. Stava leggendo Cosmopolitan. All’avvicinarsi di Richard non sollevò neppure lo sguardo.

«Ho bisogno di parlare con Jessica Bartram» disse Richard. «È importante. Le devo parlare.»

La receptionist lo ignorò.

Segui il corridoio fino a raggiungere l’ufficio di Jessica. Apri la porta ed entrò. Era in piedi davanti a tre grandi manifesti, che pubblicizzavano «Angeli sull’Inghilterra — Una mostra itinerante» e recavano ognuno una diversa immagine di angeli. Mentre lui entrava si voltò e gli sorrise con calore.

«Jessica. Grazie a Dio! Senti, credo di stare impazzendo o qualcosa di simile. È iniziato tutto stamattina quando non riuscivo a prendere il taxi, poi l’ufficio e la metropolitana e…» Le mostrò la manica strappata. «È come se fossi diventato una specie di nonpersona.»

Lei gli sorrise di nuovo, con aria rassicurante.

«Senti» disse Richard. «Mi dispiace per l’altra sera. Cioè, non per quello che ho fatto ma per averti causato dei fastidi e… guarda, mi dispiace tanto, è roba da matti e onestamente non so proprio cosa fare.»

E Jessica annui, continuando a sorridere, poi disse, «Lei penserà che sono una persona orribile, ma ho davvero una pessima memoria per le facce. Mi dia un secondo e ci arrivo.»

A quel punto Richard ebbe la conferma che era tutto vero. Che qualunque pazzia si stesse verificando quel giorno stava accadendo sul serio.

«Non importa» disse. «Lascia perdere.»

E se ne andò, fuori dalla porta e lungo il corridoio. Era quasi arrivato all’ascensore quando si senti chiamare.

«Richard!»

Si voltò. Ma allora era uno scherzo. Una specie di meschina vendetta. Qualcosa di spiegabile.

«Richard… Maybury?» Pareva orgogliosa di sé per essersi ricordata tanto.

«Mayhew» disse Richard, e si infilò in ascensore, le cui porte cantarono un triste trillo di flauto mentre si chiudevano dietro di lui.


Richard ritornò a casa a piedi, sconvolto, confuso e arrabbiato. Qualche volta aveva provato a fare cenno a un taxi, ma senza la concreta speranza che si fermasse e, infatti, nessuno lo fece.

Gli facevano male i piedi e gli bruciavano gli occhi, e sapeva che presto si sarebbe risvegliato da quell’oggi e che un lunedì come si deve, un lunedì sensato, un rispettabile, onesto lunedì qualunque sarebbe finalmente cominciato.

Riempi la vasca di acqua calda, abbandonò i vestiti sul letto e entrò nel bagno.

Si era quasi assopito quando udi una chiave girare nella toppa, una porta aprirsi e richiudersi, e una armoniosa voce maschile che diceva:

«Naturalmente siete i primi a vederlo oggi, ma ho una lista di persone interessate lunga come il mio braccio.»

«Non è grande come mi aspettavo dalla descrizione» disse una donna.

«Si, è compatto. Ma mi piace pensare che sia un pregio.»

Richard non si era preoccupato di chiudere a chiave la porta del bagno. Dopo tutto era l’unico abitante dell’appartamento.

Un’altra voce maschile più roca e sgarbata borbottò, «Credevo avesse detto che l’appartamento era vuoto. A me questo pare piuttosto ammobiliato.»

«L’affittuario precedente deve avere lasciato qui parte del suo equipaggiamento. Non ero a conoscenza della cosa.»

Richard si alzò in piedi nella vasca. Poi, dato che era nudo e quelle persone potevano entrare in qualunque momento, si rimise a sedere. Quindi, quasi in preda alla disperazione, si guardò intorno alla ricerca di un asciugamano.

«Oh, guarda, George» disse la donna nel corridoio. «Qualcuno ha lasciato un asciugamano su questa sedia.»

Richard prese in considerazione, e respinse, come modesti sostituti di un asciugamano una spugna loofah, una bottiglia di shampo mezza vuota e una paperella di plastica gialla.

«Com’è il bagno?» chiese la donna.

Richard afferrò la pezzuola per lavarsi il viso e se la drappeggiò davanti all’inguine. Quindi si alzò, la schiena appoggiata contro il muro, preparandosi a sentirsi ignominosamente imbarazzato.

La porta venne spalancata, e i tre entrarono nel bagno: un giovane con cappotto di pelo di cammello e una coppia di mezza età. Richard si chiese se fossero imbarazzati quanto lui.

«È un po’ piccolo» disse la donna.

«Compatto» corresse il cappotto di pelo di cammello, con tono suadente. «Comodo da tenere in ordine.»

La donna passò il dito lungo il bordo del lavandino e arricciò il naso.

«Credo che abbiamo visto quello che c’era da vedere» disse l’uomo di mezza età.

Uscirono dal bagno.

«Sarebbe molto pratico per tutto» disse la donna. La conversazione prosegui a voce più bassa.

Richard scavalcò il bordo della vasca e avanzò lentamente fino alla porta. Individuò l’asciugamano sulla sedia in corridoio, allungò un braccio e lo afferrò.

«Lo prendiamo» disse la donna.

«Lo prendete?» disse il cappotto di pelo di cammello.

«È proprio quello che vogliamo» spiegò lei. «O lo sarà, dopo che lo avremo fatto diventare accogliente. Sarà pronto per mercoledi?»

«Naturalmente. Faremo portare via tutta questa robaccia domani, nessun problema.»

Dalla soglia del bagno, Richard, infreddolito, sgocciolante e avvolto nell’asciugamano, lanciò uno sguardo furioso.

«Non è robaccia» disse. «Sono le mie cose.»

«Allora passeremo a prendere le chiavi nel vostro ufficio.»

«Scusatemi» disse Richard. «Qui ci abito io.»

Mentre si dirigevano verso la porta d’ingresso, superarono Richard con uno spintone.

«Non mi… nessuno di voi mi sente? Questo è il mio appartamento. Io vivo qui.»

«Se mi può spedire il contratto via fax in ufficio per i dettagli…» disse l’uomo scortese, poi la porta si chiuse con forza dietro di loro, e Richard si ritrovò nel corridoio di quello che era il suo appartamento a tremare, nel silenzio, per il freddo.

«Questo» annunciò al mondo, in aperto contrasto con le prove fornite dai suoi sensi, «non sta accadendo.»

Il Bat-telefono squillò e i fari lampeggiarono. Richard sollevò il ricevitore con circospezione.

«Pronto?»

La linea era disturbata, piena di sibili e di crepitii come se la chiamata provenisse da molto, molto lontano. La voce all’altro capo del filo non aveva un tono familiare.

«Signor Mayhew?» disse. «Il signor Richard Mayhew?»

«Si» rispose. E poi, felicissimo, «Riesce a sentirmi! Oh, grazie al cielo. Chi parla?»

«Il mio socio e io ci siamo incontrati con lei sabato, signor Mayhew. Stavo chiedendo informazioni riguardo al luogo dove si trovava una certa giovane signora. Si ricorda?» L’inflessione era untuosa, sgradevole, volpina.

«Oh. Si. È lei.»

«Signor Mayhew. Ci ha detto che Porta non era con lei. Abbiamo ragione di credere che stesse imbellettando la verità probabilmente più del dovuto.»

«Be’, lei ha detto di essere suo fratello.»

«Tutti gli uomini sono fratelli, signor Mayhew.»

«Non è più qui. E non so dove sia.»

«Lo sappiamo, signor Mayhew. Siamo perfettamente a conoscenza di entrambi questi fatti. E per essere eminentemente sincero, signor Mayhew — e sono certo che lei desidera che io sia sincero, giusto? — se fossi in lei non mi preoccuperei più della giovane signora. I suoi giorni sono contati, e il numero in questione non è neppure in doppia cifra.»

«Senta, perché mi ha chiamato?»

«Signor Mayhew,» disse mister Croup con aria servizievole «sa che sapore ha il suo stesso fegato?»

Richard non rispose.

«Perché mister Vandemar mi ha promesso che glielo strapperà lui personalmente e glielo infilerà in bocca prima di tagliarle la sua piccola gola triste. Cosi potrà scoprirlo, non le pare?»

«Chiamo la polizia. Non potete minacciarmi a questo modo.»

«Signor Mayhew. Lei può chiamare chi crede. Ma odio l’idea che possa pensare che la stiamo minacciando. Né io né mister Vandemar facciamo minacce, non è vero mister Vandemar?»

«No? E allora cosa diavolo state facendo?»

«Stiamo facendo una promessa» disse mister Croup in mezzo alle scariche elettrostatiche, all’eco e ai sibili. «E sappiamo dove abita.»

Detto questo riagganciò.

Richard teneva stretto in mano il Bat-telefono, lo guardò, poi premette violentemente il pulsante del numero nove per tre volte.

«Servizio emergenze. Come posso aiutarla?»

«Può passarmi la polizia, per favore? Un uomo ha appena minacciato di uccidermi, e non credo stesse scherzando.»

Segui una pausa. Sperò di essere stato messo in contatto con la polizia. Dopo qualche istante la voce disse, «Servizio emergenze. Pronto? C’è nessuno in linea? Pronto?»

Allora Richard riappoggiò il Bat-telefono sul tavolino, andò in camera da letto e si vesti, perché aveva freddo, era nudo e spaventato, e proprio non aveva alternative.


Tolse la borsa sportiva nera di sotto il letto e ci infilò dei calzini. Mutande. Qualche maglietta. Il passaporto. Il portafogli.

Indossava jeans, scarpe da ginnastica e un maglione pesante.

Si ricordò del modo in cui la ragazza di nome Porta gli aveva detto addio. Il modo in cui aveva esitato. Il modo in cui aveva detto che le dispiaceva…

«Lo sapevi» disse all’appartamento vuoto. «Tu sapevi che sarebbe successo questo.»

Andò in cucina, prese della frutta dalla ciotola e la mise nella borsa. Poi la chiuse con la cerniera e usci nella strada buia.


Il bancomat gli prese la carta con un VITT.

DIGITARE IL CODICE SEGRETO, disse.

Richard digitò il suo numero di identificazione.

Lo schermo diventò bianco. Poi disse, attendere prego.

Schermo vuoto. Da qualche parte nelle profondità della macchina qualcosa brontolava e borbottava.

CARTA NON VALIDA. CONTATTARE LA PROPRIA BANCA.

Si udi un clung e la carta usci di nuovo.

«Può darmi qualcosa?» disse una flebile voce alle sue spalle.

Richard allungò all’uomo la carta del bancomat.

«Ecco» disse. «Tieni. Ci sono circa millecinquecento sterline sul conto, se riesci a fartele dare.»

L’uomo, che era alto e magro, e aveva una disordinata barba biondastra e le mani nere per la vita di strada, prese la carta del bancomat, la guardò, la rigirò e disse, con voce piatta, «Grazie. Con questa e sessanta pence mi prendo una bella tazza di caffè.» E restituì la carta a Richard.

Richard sollevò da terra la borsa, poi si voltò verso l’uomo e gli disse, «Aspetta un momento. Tu mi vedi.»

«Non c’è niente che non va nei miei occhi» fece l’uomo.

«Senti,» disse Richard «hai mai sentito parlare di un posto che si chiama ’Il Mercato Fluttuante’? Devo trovarlo. C’è una ragazza di nome Porta…»

Ma l’uomo stava indietreggiando nervosamente, allontanandosi da lui.

«Guarda, ho davvero bisogno di aiuto» disse Richard. «Per favore!»

L’uomo lo guardò fisso.

Richard sospirò. «D’accordo» disse. «Scusa se ti ho disturbato.»

Gli voltò le spalle e, afferrando la maniglia della borsa con entrambe le mani per impedire che tremassero, cominciò a percorrere High Street.

«Ehi» sibilò l’uomo.

Richard lo guardò. Gli stava facendo cenno di avvicinarsi.

«Vieni, vieni qui, presto!»

L’uomo si mise a scendere velocemente alcuni gradini a lato della strada — gradini disseminati di rifiuti, del tipo che portano ad appartamenti vuoti e trascurati in un seminterrato. Richard gli incespicò dietro. Ai piedi della scala c’era una porta. L’uomo spinse per aprirla, attese che anche Richard entrasse, e la richiuse dietro di sé.

Oltre la porta, si trovarono immersi nell’oscurità.

Uno scricchiolio e il rumore di un fiammifero che prende vita. L’uomo lo accostò allo stoppino di una vecchia lampada da ferroviere, che si accese, illuminando leggermente meno di quanto avesse fatto il fiammifero, poi si avviarono insieme in quel luogo tenebroso.

C’era puzza di muffa, di umido e di mattoni vecchi, di marcio e di buio.

«Dove siamo?» sussurrò Richard.

La sua guida lo zitti.

Giunsero a un’altra porta in un muro.

L’uomo bussò ritmicamente. Ci fu un momento di pausa.

La porta si spalancò.

Per un attimo Richard rimase accecato dalla luce improvvisa. Si trovava in un’enorme stanza a vòlte, un salone sotterraneo, pieno di fumo e di luce. Piccoli fuochi ardevano per tutta la stanza. Persone dalla forma indistinta stavano accanto alle fiamme, arrostendo piccoli animali su degli spiedi. La gente si affrettava da un falò all’altro.

Gli ricordava l’inferno. 0 meglio, il modo in cui si immaginava l’inferno quando era ragazzino

Il fumo gli raschiò la gola, e tossì.

Un centinaio di occhi lo fissarono. Un centinaio di occhi imperturbabili e poco amichevoli.

Un uomo si diresse verso di loro a passi rapidi. Aveva i capelli lunghi e una barba irregolare, e a Richard parve che i suoi abiti laceri fossero decorati di pelliccia — di pelo arancione, bianco e nero, come il manto di un gatto. Era alto, ma camminava curvo, le mani sul petto.

«Cosa? Cos’è? Cos’è questo?» chiese alla guida di Richard. «Chi ci hai portato, Iliaster? Parla-parla-parla.»

«Viene da Sopra» rispose la guida. (Iliaster? pensò Richard).

«Domandava di Lady Porta. E del Mercato Fluttuante. Gliel’ho portato, Lord Parla-coi-Ratti. Pensavo avreste saputo cosa farne.»

Adesso intorno a loro c’era oltre una dozzina di persone decorate di pelliccia. C’erano uomini e donne, e anche qualche bambino. Si spostavano a ondate: momenti di immobilità seguiti da corse precipitose.

Lord Parla-coi-Ratti mise la mano all’interno dei suoi stracci impellicciati e ne trasse una scheggia di vetro lunga circa venti centimetri e dall’aria pericolosa. Della pelliccia mal conservata era stata avvolta intorno alla metà inferiore della scheggia a formare una sorta di impugnatura improvvisata.

La luce dei falò rifulse dalla lama di vetro.

Lord Parla-coi-Ratti appoggiò il frammento tagliente contro la gola di Richard.

«Oh, si. Si-si-si» cinguettò. «So esattamente cosa farne.»

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