Richard scrisse mentalmente un appunto per il suo diario.
Caro Diario, cominciò, venerdì avevo un lavoro, una fidanzata, una casa e una vita che aveva senso. (Be’, per quanto senso possa avere qualunque vita). Poi ho trovato una ragazza ferita e sanguinante sul marciapiede e ho cercato di fare il Buon Samaritano. Adesso non ho più fidanzata, né casa, né lavoro, e me ne vado in giro a quasi un centinaio di metri sotto le strade di Londra con un’aspettativa di vita pari a quella di un’efemera.
«Da questa parte» disse il Marchese.
«Ma non sembrano tutti uguali questi tunnel?» chiese Richard, mettendo temporaneamente da parte le annotazioni per il diario. «Come si fa a capire qual’è uno e qual’è l’altro?»
«Non si capisce» disse il Marchese. «Infatti ci siamo irrimediabilmente persi. Non ci troveranno mai più. Tra un paio di giorni ci uccideremo a vicenda per procurarci il cibo.»
«Sul serio?»
«No.»
Richard riprese a redigere il diario mentale.
Ci sono centinaia di persone in quest’altra Londra. Forse migliaia. Persone che provengono da qui o persone che sono cadute nelle fenditure. Io sto vagando senza meta con una ragazza che si chiama Porta, la sua guardia del corpo e il suo psicotico gran visir. La notte scorsa abbiamo dormito in un piccolo tunnel che secondo Porta una volta era una sezione della fognatura del quartiere di Regency. Quando mi sono addormentato, la guardia del corpo era sveglia, e lo era anche quando mi hanno svegliato. Credo non dorma mai. Per colazione abbiamo avuto della torta di frutta; il Marchese ne aveva in tasca un bel pezzo. Perché mai qualcuno dovrebbe tenersi in tasca delle fette di torta di frutta? Mentre dormivo mi si sono asciugate le scarpe. Quasi del tutto.
Voglio andare a casa.
E sottolineò mentalmente l’ultima frase per tre volte, la riscrisse a caratteri cubitali con l’inchiostro rosso e ci fece intorno un circoletto, prima di aggiungere punti esclamativi a profusione sul margine mentale lì a fianco.
Per lo meno il tunnel in cui stavano procedendo era asciutto. Era un tunnel high-tech: tutto tubi d’argento e muri bianchi.
Il Marchese e Porta camminavano insieme, davanti. Hunter si spostava in continuazione: a volte era dietro di loro, a volte su un lato o sull’altro, spesso li precedeva di qualche passo, fusa con le ombre. Quando si muoveva non produceva alcun rumore, fatto che Richard trovava piuttosto sconcertante.
Davanti a loro spuntò una luce.
«Ci siamo» disse il Marchese. «È la stazione di Bank. Ottimo posto da cui cominciare le ricerche.»
«È fuori di testa» commentò Richard. Non intendeva farsi sentire, ma anche la più sotto delle voci si diffondeva e riecheggiava nell’oscurità.
«Davvero?» disse il Marchese.
Il terreno cominciò a rimbombare: un treno della metropolitana, da qualche parte, molto vicino.
«Richard, lascia perdere» disse Porta.
Ma ormai gli stava uscendo di bocca: «Be’,» disse «vi state comportando da sciocchi tutti e due. Non esistono gli angeli.»
Il Marchese annui commentando, «E già, certo. Adesso si che ti capisco. Gli angeli non esistono. Cosi come non esiste una Londra Sotto, né parla-coi-ratti, né pastori a Shepherd’s Bush.»
«Non ci sono pastori a Shepherd’s Bush solo perché si chiama ’boschetto dei pastori’» puntualizzò seccamente Richard.
«Ci sono» disse Hunter dall’oscurità, proprio accanto al suo orecchio. «Prega di non incontrarli mai.» Sembrava serissima.
«Dite quello che volete,» riprese Richard «ma io continuo a non credere che qui sotto si aggirino stuoli di angeli.»
«Non stuoli di angeli» precisò il Marchese. «Un angelo.» Erano giunti alla fine del tunnel. Davanti a loro c’era una porta chiusa a chiave. Il Marchese si fece da parte. «Mia signora?» disse a Porta.
Lei appoggiò per un attimo la mano sulla porta, che si apri senza far rumore.
«Forse» insistette Richard «intendiamo cose diverse. Gli angeli che ho in mente io sono tutti ali, aureole, trombe e pace-in-terra-agli-uomini-di-buona-volontà. »
«Esatto» disse Porta. «È proprio cosi: un angelo.»
Attraversarono la porta.
Istintivamente Richard chiuse gli occhi. Troppa luce, che gli trafiggeva la testa come un attacco di emicrania. Quando gli occhi si furono abituati al chiarore, Richard si accorse di trovarsi nel lungo tunnel pedonale che unisce le stazioni della metropolitana di Monument e Bank. Nei tunnel si aggiravano numerosi pendolari, nessuno dei quali diede ai quattro neppure un’occhiata di striscio.
Nel tunnel echeggiava il vivace lamento di un sassofono: I’ll Never Fall in Love Again di Burt Bacharach e Hal David, suonata neanche troppo male.
Richard si impose di non canticchiare.
Si stavano dirigendo verso Bank.
«Allora chi stiamo cercando» chiese con aria da innocentino. «L’angelo Gabriele? Raffaele? Michele?»
Passando davanti a una piantina del metrò il Marchese indicò col dito: «’Angel’, stazione dell’angelo: ’Islington’.»
Richard cambiò argomento. «Sapete, un paio di giorni fa ho tentato di salire su un treno della metropolitana, ma non me lo ha permesso.»
«Devi solo fargli capire chi è che comanda, tutto qui» disse dolcemente Hunter, dietro di lui.
Porta si mordicchiava il labbro inferiore. «Questo ci lascerà salire» disse. «Se riusciamo a trovarlo.»
Innamorarsi vuol dire stare
sempre nell’occhio del ciclone…
Io, no non mi innamoro più…
Scesero qualche scalino e svoltarono a un angolo.
Il suonatore di sassofono aveva steso il cappotto davanti a sé, sul pavimento del tunnel. Sul cappotto c’erano delle monete che parevano messe da lui stesso per convincere i passanti che chi li aveva preceduti aveva lasciato qualcosa.
Non si faceva imbrogliare nessuno.
Il suonatore di sassofono era estremamente alto; aveva i capelli neri fino alle spalle, e una lunga barba biforcuta che incorniciava degli occhi infossati e un naso severo. Indossava una maglietta sbrindellata e jeans macchiati di olio.
Quando i viaggiatori lo raggiunsero smise di suonare, tolse la saliva dall’imboccatura, riposizionò l’ancia e si lanciò in un’interpretazione della canzone di Julie London Cry me a river.
Ora, dici mi dispiace…
Con sorpresa, Richard si rese conto che l’uomo poteva vederli — e che faceva del suo meglio per fingere di non riuscirci. Il Marchese si fermò di fronte a lui. Il lamento del sassofono si affievolì nervosamente. Il Marchese fece lampeggiare un largo e gelido sorriso.
«Sei Lear, vero?» chiese.
L’uomo annui circospetto. Le dita accarezzavano i tasti del sassofono.
«Cerchiamo Earl’s Court» continuò il Marchese. «Capita per caso che sulla tua persona si trovi qualcosa di simile a un orario dei treni?»
Lear si inumidì le labbra con la punta della lingua. «Non è impossibile. Cosa me ne verrebbe se ce l’avessi?»
Il Marchese si ficcò le mani nelle tasche del soprabito. Poi sorrise, come un gatto a cui siano state affidate le chiavi di un istituto per canarini disobbedienti ma cicciottelli.
«Si dice» buttò li oziosamente, come stesse solo passando il tempo, «che Blaise, il maestro di Merlino, una volta scrisse una musica da danza cosi allettante da attirare il denaro fuori dalle tasche di chiunque la ascolti.»
Gli occhi di Lear divennero due fessure. «Questo varrebbe ben più di un orario dei treni» disse. «Se tu ce l’avessi davvero.»
Il Marchese fece una perfetta imitazione di qualcuno che scopre: perbacco, ha ragione, varrebbe di più! «Be’, allora,» disse magnanimo «suppongo ciò significhi che mi dovresti un favore, giusto?»
Lear annui, lentamente e con riluttanza. Si frugò nella tasca posteriore, ne estrasse un pezzo di carta piegato e spiegazzato che tenne ben alto in mano.
Il Marchese si allungò per prenderlo. Lear allontanò la mano. «Prima fammi ascoltare la musica, vecchio imbroglione» disse. «E sarà meglio che funzioni.»
Il Marchese alzò un sopracciglio. Infilò velocemente la mano in una delle tasche interne del soprabito, e quando la tirò fuori di nuovo conteneva un fischietto e una piccola sfera di cristallo. Guardò la sfera di cristallo facendo quel tipo di «hmm» che significa «ah, ecco dov’era finita», e se la rimise in tasca. Quindi piegò le dita, si portò il fischietto alle labbra e cominciò a suonare.
Era un motivetto strano e brioso, che saltellava e si contorceva. Richard credette quasi di avere ancora tredici anni, quando a scuola, durante l’intervallo per il pranzo, ascoltava la radio portatile del suo migliore amico, attento alla classifica dei dischi più venduti, perché la musica era importante come può esserlo solo quando si è adolescenti: era tutto quello che aveva sempre voluto sentire in una canzone…
Una manciata di monete tintinnò sul cappotto di Lear.
Il marchese abbassò il fischietto.
«Allora sono in debito, vecchia canaglia» disse Lear, con un cenno del capo.
«Si, lo sei.» Il Marchese gli prese il foglio — l’orario dei treni — e lo esaminò attentamente, quindi annui. «Ma a buon intenditor poche parole: non esagerare. Basta poco per avere molto.»
E i quattro ripresero il cammino, lungo il corridoio, circondati da manifesti che pubblicizzavano film e biancheria intima e dagli sporadici avvisi dall’aria ufficiale che consigliavano agli artisti di strada di allontanarsi dalla stazione. Li seguiva il lamento del sassofono e il suono del denaro che atterrava sul cappotto.
Il Marchese li condusse a una banchina della Central Line.
Richard si diresse verso il limitare della banchina e guardò in basso. Si chiese, come faceva sempre, quale fosse la rotaia sotto tensione, poi si scopri a sorridere, involontariamente, a un topolino grigio che si aggirava con coraggio sui binari, alla timida ricerca di panini abbandonati e patatine cadute dal sacchetto.
«Attento allo Spazio Vuoto» gli disse Hunter, con tono pressante. «Resta qui dietro. Accanto al muro.»
«Cosa?» chiese Richard.
«Ho detto» ripeté Hunter «attento allo…»
E in quell’istante fece irruzione sul lato della banchina. Era diafano, simile a un sogno, una cosa spettrale color fumo nero che prorompeva come seta sotto uno strato di acqua. Spostandosi a una velocità stupefacente pur dando l’impressione di muoversi al rallentatore, si avvinghiò con forza alla caviglia di Richard.
Pungeva, anche attraverso la spessa stoffa dei Levi’s. La cosa lo trascinava verso il bordo della banchina, e lui barcollò.
Quasi con distacco si accorse che Hunter aveva estratto il bastone e con esso colpiva il tentacolo, ripetutamente e con forza.
Si udì uno strillo lontano, sottile e stupido, come di un bambino idiota privato del suo giocattolo.
Il tentacolo di fumo lasciò la caviglia di Richard, scivolò indietro oltre il bordo della banchina e spari.
Hunter afferrò Richard per la collottola e lo tirò verso il muro.
Richard ci crollò contro. Dove la cosa aveva toccato i jeans, il colore era stato succhiato via, e adesso sembravano un maldestro esempio di tintura a nodi. Sollevò la gamba dei pantaloni: sulla caviglia e sul polpaccio stavano spuntando minuscole vesciche rosse.
«Cosa…» si provò a parlare ma non usci alcun suono. Deglutì e ritentò, «Cos’era quello?»
Hunter abbassò lo sguardo verso di lui. Il suo viso pareva intagliato in un legno scuro. «Non credo abbia un nome» rispose. «Vivono negli spazi vuoti. Ti avevo avvertito.»
«Io… io non ne avevo mai visto uno prima.»
«Non facevi parte del Mondo di Sotto, prima» disse Hunter. «Aspetta vicino al muro. È più sicuro.»
Il Marchese stava controllando l’ora su un grosso orologio d’oro da tasca. Lo ripose nel taschino del panciotto, consultò il foglio che gli aveva dato Lear e annui soddisfatto. «Siamo fortunati» sentenziò. «Il treno per Earl’s Court dovrebbe passare tra circa mezz’ora.»
«La stazione di Earl’s Court non è sulla Central Line» fece notare Richard.
Il Marchese lo guardò, palesemente divertito. «Una mente come la tua è proprio rincuorante, giovanotto» disse. «Non c’è nulla come la totale ignoranza, vero?»
Il vento cominciò a soffiare. Un treno della metropolitana si fermò alla loro stazione. Persone che scendevano e persone che salivano, immerse negli impegni quotidiani. Richard le guardò con invidia.
«Attenzione allo spazio vuoto tra treno e banchina» intonò una voce registrata. «Non sostare davanti alle porte. Attenzione allo spazio vuoto. »
Porta diede un’occhiata a Richard. Poi, preoccupata per ciò che aveva visto, gli si avvicinò prendendogli la mano. Era molto pallido, e il respiro si era fatto rapido e breve.
«Attenzione allo spazio vuoto tra treno e banchina» tuonò un’altra volta la voce registrata.
«Sto bene» mentì coraggiosamente Richard a nessuno in particolare.
Il pozzo centrale dell’ospedale di mister Croup e mister Vandemar era un luogo freddo, umido e tetro. Dell’erba ispida e disordinata cresceva tra scrivanie abbandonate, pneumatici d’auto e pezzi di mobili per ufficio. L’impressione generale offerta da quell’area era che una decina d’anni prima (forse per noia, forse per frustrazione, forse addirittura come opera d’arte di qualche genere) un gran numero di persone avesse gettato il contenuto dei propri uffici dalle molteplici finestre affacciate là sopra, lasciando poi il tutto a marcire.
C’erano vetri rotti. Vetri rotti in abbondanza. C’erano anche parecchi materassi. Per qualche ragione non facilmente comprensibile, e in un momento non meglio identificato, ad alcuni dei suddetti materassi era stato dato fuoco. Nessuno sapeva perché, e a nessuno importava. L’erba, crescendo, aveva attraversato le molle.
Intorno alla fontana ornamentale che si trovava al centro del pozzo e che da parecchio tempo non era particolarmente ornamentale e neppure molto fontana, si era sviluppata una nicchia ecologica completa. Con l’aiuto della pioggia, un tubo dell’acqua incrinato e sgocciolante li vicino l’aveva trasformata in luogo di riproduzione per numerose ranocchie che ci si lasciavano cadere allegramente, esultanti per la mancanza di predatori naturali non alati. A loro volta, corvi, cornacchie e qualche sporadico gabbiano consideravano quel posto un self-service di prelibatezze gastronomiche senza gatti e specializzato in rane.
Lumache si allungavano indolenti sotto le molle dei materassi bruciati; chiocciole lasciavano tracce bavose sui vetri rotti. Grossi scarafaggi neri si affrettavano con aria operosa su telefoni di plastica grigia ormai in frantumi e su vecchie bambole Sindy mutilate.
Mister Croup e mister Vandemar erano saliti fin li per cambiare aria. Camminavano lentamente lungo il perimetro del cortile centrale, i pezzi di vetro che scricchiolavano sotto i loro piedi. Nei logori completi neri parevano ombre.
Mister Croup era in preda a una furia ben celata. Camminava due volte più veloce di mister Vandemar, girandogli intorno, quasi danzando al ritmo della propria rabbia. A volte, incapace di trattenere l’ira dentro di sé, mister Croup si lanciava contro il muro dell’ospedale, attaccandolo tìsicamente a calci e pugni, come fosse un indegno sostituto di una persona vera.
Mister Vandemar, da parte sua, si limitava a camminare. Era una camminata troppo decisa, troppo costante e inesorabile per poter essere definita una passeggiata. La morte cammina come mister Vandemar. Impassibile, mister Vandemar osservava mister Croup prendere a pedate una lastra di vetro appoggiata al muro. Che si frantumò con un fragore di grande soddisfazione.
«Io, mister Vandemar,» disse mister Croup contemplando i frammenti «io, per quanto mi riguarda, ne ho già avuto abbastanza. Quasi. Quel rospo sbiancato… agire con cautela, gingillarsi, cinci-schiare, perdere tempo… potrei fargli schizzare gli occhi dalle orbite con un dito…»
Mister Vandemar scosse il capo. «Non ancora» disse. «È il nostro capo. Per questo lavoro. Dopo che ci ha pagati, magari potremo divertirci un po’ a modo nostro.»
Mister Croup sputò per terra. «È un inutile stupido intrigante… Dovremmo macellare quella cagna. Annullarla, cancellarla, inumarla e ammortizzarla.»
Un telefono cominciò a squillare, forte. Mister Croup e mister Vandemar si guardarono attorno perplessi. Infine mister Vandemar trovò il telefono a metà di una pila di detriti sopra a un pendio formato da cartelle mediche macchiate di pioggia. Il filo tagliato penzolava dal ricevitore. Lo prese e lo passò a mister Croup.
«Per lei» disse.
A mister Vandemar i telefoni non piacevano.
«Qui mister Croup» disse Croup. Poi, ossequioso, «Oh, siete voi signore…»
Una pausa.
«Al momento, come avevate richiesto, se ne va in giro libera come l’aria. Purtroppo la vostra idea della guardia del corpo è andata a male come una mela marcia… Varney? Si, è decisamente morto.»
Un’altra pausa.
«Signore, comincio ad avere qualche problema concettuale riguardo al ruolo svolto da me e dal mio socio in queste birbonate.»
Ci fu una terza pausa, e mister Croup divenne più pallido del pallido.
«Poco professionali?» chiese gentilmente. «Noi?»
Chiuse la mano a pugno e la sbatté, con una certa forza, contro un muro di mattoni. Nel tono di voce però, non si percepì alcun cambiamento, mentre diceva, «Signore, posso con il dovuto rispetto ricordarvi che mister Vandemar e io abbiamo bruciato fino alle fondamenta la città di Troia? Abbiamo portato la Morte Nera nelle Fiandre. Il nostro ultimo incarico prima di questo è stato torturare a morte un intero monastero nella Toscana del sedicesimo secolo. Noi siamo estremamente professionali.»
Mister Vandemar, che si era divertito ad acchiappare piccole rane e a vedere quante riusciva a infilarsene in bocca in una sola volta prima di essere costretto a masticare, disse, con la bocca piena, «Mi è piaciuto farlo…»
«Il punto?» chiese mister Croup, dando un colpetto per togliere della polvere immaginaria dal liso completo nero, ignorando del tutto quella vera. «Il punto è che siamo degli assassini. Dei tagliagole. Noi uccidiamo.»
Ascoltò qualcosa, poi, «Bene, e per quanto riguarda quello del Mondo di Sopra? Perché non possiamo ammazzarlo?» Mister Croup ebbe uno spasmo, sputò di nuovo e prese a calci il muro, mentre se ne stava li in piedi tenendo in mano il telefono mezzo rotto e coperto di ruggine.
«Spaventarla? Siamo tagliagole, non spaventapasseri.» Una pausa. Fece un respiro profondo. «Si, capisco, però non mi piace.» Ma la persona all’altro capo del filo aveva riattaccato. Mister Croup diede un’occhiata al telefono. Quindi lo sollevò con una mano e procedette metodicamente a ridurlo in minuscoli frammenti di metallo e plastica sbattendolo contro il muro.
Mister Vandemar passò oltre. Aveva trovato una grossa lumaca nera con la parte inferiore di un bell’arancione brillante, e la stava masticando come fosse un sigaro di liquirizia. La lumaca, che non era molto astuta, stava cercando di strisciare via lungo il mento di mister Vandemar.
«Chi era?» chiese mister Vandemar.
«Chi diavolo pensa che fosse?»
Mister Vandemar masticò meditabondo, poi succhiò la lumaca aspirandola in bocca quasi fosse un blocco di spaghetti scotti, neri e arancione. «Uno spaventapasseri?» azzardò.
«Il nostro datore di lavoro.»
«Era la mia seconda ipotesi.»
«Spaventapasseri» sputò mister Croup, disgustato. Stava passando da una rabbia rosso-violacea a un grigio e untuoso malumore.
Mister Vandemar inghiottì il contenuto della bocca e si pulì le labbra sulla manica. «Il modo migliore per spaventare i passeri» disse mister Vandemar «è di scivolargli alle spalle, mettere la mano intorno ai loro sottili colli da passero e stringere finché non si muovono più. Questo li spaventa a morte.»
Quindi tacque, e da lontano, sopra le loro teste, udirono il rumore di passeri e corvi che volavano lassù, gracchianti di rabbia.
«Passeri. Corvi. Famiglia dei passeriformi o passeracei. Nome collettivo» intonò mister Croup, assaporando il suono della parola: «omicidio.»
Richard era rimasto ad aspettare contro il muro, vicino a Porta. Lei parlava poco; si mangiava le unghie, passava le mani nei capelli, che si rizzavano in tutte le direzioni, poi cercava di lisciarli di nuovo.
Indubbiamente non aveva mai conosciuto una persona cosi.
Quando si accorse di essere osservata, si strinse nelle spalle e ondeggiando sprofondò ulteriormente nei suoi strati di vestiti, nascondendosi nella giacca di pelle. Gli occhi guardavano il mondo da dentro una giacca. L’espressione sul suo viso fece ricordare a Richard un bambino senza casa che aveva visto dietro il Covent Garden l’inverno precedente: non sapeva se fosse maschio o femmina. La madre chiedeva l’elemosina, supplicando i passanti di darle del denaro per nutrire il bambino e il neonato che teneva in braccio. Il bambino, invece, fissava il mondo senza domandare nulla, anche se doveva avere freddo e fame. Stava li, fermo, a fissare.
Hunter si avvicinò a Porta, controllando la banchina a destra e a sinistra. Il Marchese aveva detto dove dovevano aspettare e si era allontanato. Da chissà dove, Richard udi il pianto di un bambino.
Il Marchese scivolò fuori da una porta con scritto ’uscita’ e si diresse verso di loro. Stava succhiando una caramella.
«Divertito?» chiese Richard. Stava arrivando un treno.
«Faccende di lavoro» rispose il Marchese. Consultò il pezzo di carta e l’orologio. Indicò un punto sulla banchina. «Questo è il treno per Earl’s Court. Statemi dietro, voi tre.»
Poi, mentre il treno del metrò — un treno dall’aspetto alquanto banale, notò Richard, deluso — rimbombava e sferragliava entrando nella stazione, il Marchese si chinò per superare Richard e dire a Porta, «Mia signora? C’è una cosa che forse avrei fatto meglio a menzionare prima.»
Gli occhi dallo strano colore si volsero verso di lui. «Si?»
«Be’,» disse «il Conte potrebbe non gradire particolarmente la mia visita.»
Il treno rallentò e si fermò. La carrozza vicino a cui si trovava Richard era completamente vuota: le luci erano spente, era cupa, deserta e buia. Le altre porte del treno si aprirono con un sibilo. Passeggeri salivano e scendevano. Le porte del vagone buio rimanevano chiuse.
Con il pugno, il Marchese tamburellò sulla porta un rap ritmico e complicato. Non accadde nulla. Richard si stava già chiedendo se il treno sarebbe ripartito senza prenderli a bordo, quando la porta del vagone venne aperta dall’interno. Da un’apertura di una ventina di centimetri spuntò un viso di vecchio che li osservò incuriosito.
«Chi bussa?» chiese.
Attraverso lo spazio tra le porte scorrevoli Richard poteva vedere alte fiamme, gente e fumo. Attraverso il vetro sulle porte stesse, però, continuava a vedere solo una carrozza buia e vuota.
«Lady Porta» disse dolcemente il Marchese «e i suoi compagni.»
La porta si spalancò, ed eccoli giunti alla Corte del Conte, Earl’s Court.