DICIANNOVE

Per un momento non avrebbe proprio saputo dire chi era. Si trattava di una sensazione estremamente liberatoria, quasi avesse la possibilità di essere qualunque cosa desiderasse: chiunque in assoluto — provare nuove identità. Poteva essere un uomo o una donna, un ratto o un uccello, un mostro o un dio.

Poi qualcuno produsse un fruscio, e si svegliò senza avere terminato l’elenco. Era Richard Mayhew, chiunque egli fosse, qualunque cosa ciò significasse.

Era Richard Mayhew e non sapeva dove si trovava. Il suo viso premeva contro del ruvido lino, e aveva male dappertutto. In alcuni punti — il mignolo della mano sinistra, per esempio — più che in altri.

Vicino a lui c’era qualcuno. Sentiva respirare.

Sollevò la testa, e nel farlo scopri altri punti dolenti. Alcuni dolevano molto, molto forte.

Lontano — a camere e camere di distanza — delle persone cantavano. Il suono era cosi sfocato e sommesso che sapeva che l’avrebbe perduto se avesse aperto gli occhi: un salmodiare profondo e melodioso…

Aprì gli occhi. La stanza era piccola e scarsamente illuminata. Si trovava su un letto basso e il fruscio che aveva udito era prodotto da una figura incappucciata vestita di nero che gli dava le spalle. L’individuo stava spolverando la stanza con un piumino dai colori accesi e bizarri.

«Dove sono?» chiese Richard.

La figura in nero si voltò, rivelando un volto magro, molto nervoso e di un color bruno intenso. «Vuole dell’acqua?» domandò, come uno a cui è stato spiegato che se il paziente dovesse svegliarsi bisogna chiedergli se vuole dell’acqua e che negli ultimi venti minuti si è ripetuto in continuazione la frase, per essere certo di non dimenticarsene.

«Io…» e Richard si rese conto di avere una sete terribile. Si mise a sedere sul letto. «Si, per favore. Grazie mille.»

Da una caraffa di metallo il frate versò un po’ d’acqua in una malconcia tazza, sempre di metallo, che passò a Richard. Lui sorseggiò con lentezza, resistendo all’impulso di inghiottirla tutta in una volta. Era fresca e cristallina, come di sorgente.

Richard abbassò lo sguardo. I suoi abiti erano spariti. Era stato vestito con qualcosa di lungo, simile al saio dei Frati Neri ma grigio. Il dito rotto era stato steccato e bendato con cura.

Si portò un dito all’orecchio, su cui c’era un cerotto appiccicoso. Sotto il cerotto, quelli che al tatto sembravano punti.

«Sei uno dei Frati Neri?» disse Richard.

«Si, signore.»

«Come sono arrivato qui? Dove sono i miei amici?»

Il frate indicò il corridoio, senza pronunciare parola e con aria nervosa.

Richard scese dal letto. Controllò sotto la veste grigia: era nudo. Petto e gambe erano coperti da innumerevoli lividi violacei, che sembravano essere stati trattati con un unguento non meglio identificato: odorava di sciroppo per la tosse e toast imburrato. Aveva un ginocchio bendato. Si chiedeva dove fossero andati a finire i suoi abiti. Accanto al letto c’erano dei sandali, e se li infilò. Quindi usci dalla stanza.

Nel corridoio vide l’Abate che si stava dirigendo verso di lui, gli occhi ciechi di un bianco perlaceo nell’oscurità al di sotto del cappuccio. Si appoggiava al braccio di fratello Caliginoso.

«Allora sei sveglio, Richard Mayhew» disse l’Abate. «Come ti senti?»

Richard fece una smorfia. «La mano…»

«Ti abbiamo sistemato il dito. Era rotto. Ti abbiamo curato tagli e lividi. Poi avevi bisogno di riposo, che ti abbiamo procurato.»

«Dov’è Porta? E il Marchese? Come siamo arrivati qui?»

«Vi ho portato qui io» disse l’Abate. I due frati iniziarono a camminare lungo il corridoio, e Richard camminava con loro.

«Hunter» disse Richard. «Avete recuperato il suo corpo?»

L’Abate scosse il capo. «Non c’era alcun corpo. Solo la Bestia.»

«Ah, hmm. I miei vestiti…»

Giunsero alla porta di una cella, molto simile a quella in cui Richard si era svegliato. Porta se ne stava seduta sul bordo del letto, leggendo una copia di Mansfìeld Park che Richard era certo i frati non avessero mai saputo di possedere. Anche la ragazza indossava un saio grigio dei monaci. Era infinitamente troppo grande per lei, in modo quasi comico. Quando entrarono alzò la testa. «Ciao» disse. «Hai dormito per secoli! Come ti senti?»

«Bene, credo. E tu?»

Lei sorrise, ma non era un sorriso molto convincente. «Un po’ debole» disse.

Nel corridoio si udì uno sferragliare. Richard si voltò e vide il Marchese de Carabas che arrivava verso di loro a bordo di una vecchia e traballante poltrona a rotelle spinta da un Frate Nero grande e grosso. Si chiese come il Marchese riuscisse a far sembrare una romantica smargiassata anche il fatto di essere spinto su una sedia a rotelle.

Il Marchese li onorò di un immenso sorriso.

«Buona sera a lor signori… e signora» disse.

«Bene» commentò l’Abate. «Ci siete tutti. Dobbiamo parlare.»

Li condusse in una stanza molto ampia, riscaldata da un crepitante fuoco di eterogenei frammenti di legno. Si disposero intorno a un tavolo. Con un gesto, l’Abate li invitò a mettersi a sedere, e lui stesso cercò la sua sedia con la mano e si accomodò. Poi mandò fuori dalla stanza fratello Caliginoso e fratello Tenebre (che era colui che spingeva la poltrona a rotelle del Marchese).

«Dunque» disse l’Abate «al lavoro. Dov’è Islington?»

Porta si strinse nelle spalle. «Nel luogo più lontano in cui sono riuscita a mandarlo. A metà strada nello spazio-tempo.»

«Capisco» disse l’Abate. Quindi aggiunse, «Bene.»

«Perché non ci avete messi in guardia contro di lui?» chiese Richard.

«Non era compito nostro.»

«Allora,» disse Richard «adesso cosa succede?»

L’Abate non rispose.

«In che senso?» domandò Porta.

«Be’, tu volevi vendicare la tua famiglia. E l’hai fatto. E hai spedito tutti quelli che erano coinvolti in un qualche angolo remoto del nulla. Voglio dire, nessuno cercherà più di ucciderti, giusto?»

«Non per il momento» disse Porta, tutta seria.

«E lei?» Richard domandò al Marchese. «Ha avuto ciò che voleva?»

Il Marchese annui. «Ritengo di si. Il mio debito nei confronti di Lord Portico è stato pagato, e Lady Porta mi deve un favore di una certa importanza.»

Richard guardò Porta, che fece un cenno di assenso.

«Bene, e io?» chiese.

«Be’,» disse Porta «non ce l’avremmo fatta senza di te.»

«Non è questo che intendevo. Che ne è della mia possibilità di tornare a casa?»

Il Marchese inarcò un sopracciglio. «Chi pensi che sia lei — il Mago di Oz? Non possiamo rimandarti a casa. La tua casa è questa.»

Porta disse, «Ho già cercato di spiegartelo, Richard.»

«Ci deve essere un modo!» e picchiò con forza la mano sinistra sul tavolo, per dare maggiore enfasi alle parole. Poi aggiunse, «Ahi! » perché picchiare la mano sul tavolo per dare maggiore enfasi non è la cosa più saggia da fare quando si ha un dito rotto.

«Prova a crescere!» disse il Marchese.

Richard si massaggiò la mano. Lo spirito combattivo l’aveva abbandonato.

«Dov’è la chiave?» chiese l’Abate.

Richard inclinò la testa. «Porta» disse.

Lei scosse il capo. «Non ce l’ho io» spiegò. «Te l’ho fatta scivolare in tasca dopo l’ultimo mercato.»

Richard apri la bocca, poi la richiuse di nuovo. Quindi la riapri e disse, «Vuoi dire che quando ho detto a Croup e Vandemar che l’avevo io e che potevano anche perquisirmi… ce l’avevo davvero?»

Porta annui. Adesso Richard ricordava l’oggetto duro nella tasca posteriore, in Down Street; ricordava come la ragazza l’aveva abbracciato quando era tornato con le pietanze al curry, sulla nave.

«Capperi!» esclamò Richard.

L’Abate allungò una mano. Le rugose dita marrone trovarono un piccolo campanello sul tavolo, che agitarono per chiamare fratello Caliginoso.

«Portami i calzoni del Guerriero» disse.

Caliginoso fece un cenno di assenso e usci.

«Io non sono un guerriero» affermò Richard.

L’abate sorrise dolcemente. «Hai ucciso la Bestia. Sei il Guerriero.»

Esasperato, Richard si mise a braccia conserte. «Quindi, dopo tutto questo, continuo a non poter tornare a casa, ma come premio di consolazione sono stato inserito in una qualche arcaica lista delle onorificenze sotterranee?»

Il Marchese sembrava del tutto indifferente. «Non puoi tornare a Londra Sopra. Sono pochi gli individui che riescono a condurre una sorta di vita a metà — hai incontrato Iliaster e Lear — ma questo è il massimo a cui puoi aspirare.»

Porta allungò la mano e accarezzò il braccio di Richard. «Mi dispiace» gli disse. «Ma guarda quanto bene hai fatto. Sei tu che hai preso la chiave.»

«Già» ribatté lui. «Ma a cosa è servito? Ti è bastato forgiarne una nuova…»

Era riapparso fratello Caliginoso, e portava i calzoni di Richard; erano coperti di fango e sangue secco, e puzzavano. Il frate diede i pantaloni all’Abate, che iniziò a cercare nelle tasche.

Porta sorrideva. «Fabbroferraio non avrebbe potuto fare una copia, senza l’originale.»

L’Abate si schiari la voce. «Siete tutti molto sciocchi» disse loro, con condiscendenza. «E non sapete proprio un bel niente.»

Teneva in mano la chiave d’argento, che brillava ai bagliori del fuoco. «Richard ha superato la Prova della Chiave. Ne è lui il padrone, fino a quando la porrà di nuovo sotto la nostra custodia. La chiave ha un grande potere.»

«È la chiave per il Paradiso…» disse Richard, incerto su quello a cui voleva alludere l’Abate.

La voce del vecchio era profonda e melodiosa. «E la chiave per ogni realtà. Se Richard vuole tornare a Londra Sopra, allora la chiave ce lo riporterà.»

«È cosi semplice?» chiese Richard.

Il vecchio frate fece un cenno di assenso con gli occhi ciechi, nell’ombra del suo cappuccio.

«E quando possiamo farlo?» domandò Richard.

«Appena sei pronto» rispose l’Abate.


Prima di restituirglieli, i frati gli avevano lavato e rattoppato i vestiti. Fratello Caliginoso lo condusse attraverso l’abbazia, per una vertiginosa serie di scale e scalini, per salire fino alla torre campanaria. In cima alla torre c’era una botola. La attraversarono e si ritrovarono in uno stretto tunnel, con una serie di gradini di metallo inseriti nel muro su un lato della galleria. Salirono lungo quel muro e giunsero su una banchina della metropolitana piuttosto buia.

NIGHTINGALE LANE

dicevano i vecchi cartelli sulle pareti. Fratello Caliginoso augurò buona fortuna a Richard e gli disse di attendere, che sarebbero passati a prenderlo. Lui rimase seduto sulla banchina per venti minuti, chiedendosi perché il Marchese non gli aveva detto addio.

Quando l’aveva domandato a Porta, lei aveva risposto di non saperlo, ma che forse gli addii, come il confortare le persone, erano cose in cui il Marchese non era molto bravo.

Quindi aveva detto di avere un bruscolino nell’occhio, gli aveva dato un foglio con delle istruzioni, e se ne era andata.

Nell’oscurità, qualcosa stava ondeggiando. Qualcosa di bianco.

Era un fazzoletto in cima a un bastone.

«C’è qualcuno?» gridò Richard.

La piumosa rotondità di Old Bailey usci dal buio, evidentemente impacciato e a disagio. Stava sventolando il fazzoletto di Richard.

«È la mia bandierina» disse.

«Sono contento che sia stato utile.»

Old Bailey sorrise con un po’ di apprensione. «Già. Volevo solo dire… Ho qualcosa per te. Tieni.»

Ficcò la mano in una tasca del cappotto e ne estrasse una lunga penna nera che risplendeva di riflessi blu-porpora-verde. Intorno al calamo aveva legato un filo rosso.

«Hmm. Be’, grazie» disse Richard, incerto sull’uso che avrebbe dovuto farne.

«È una penna» spiegò Old Bailey. «E bella, anche. Memento. Souvenir. Ricordo. Ed è gratis. Un regalo. Da me a te. Un piccolo ringraziamento.»

«Si, be’, davvero molto gentile da parte tua.»

Se la mise in tasca.

Un vento caldo prese a soffiare lungo il tunnel. Stava arrivando un treno.

«Quello è il tuo treno» disse Old Bailey. «Io i treni mica li prendo. Datemi un buon tetto al giorno…»

Strinse la mano a Richard e scomparve.

Il treno arrivò in stazione. I vagoni erano tutti bui e le porte non si aprivano. Richard bussò a quella che aveva di fronte, sperando fosse la scelta giusta.

La porta si apri, inondando la stazione abbandonata di una calda luce gialla, e ne uscirono due anziani signori con in mano delle chiarine. Richard li riconobbe: Dagvard e Halvard, della Corte del Conte, anche se non ricordava chi fosse l’uno e chi l’altro. Si portarono la tromba alle labbra e si esibirono in una grossolana ma sentita fanfara.

Richard sali sul treno, e i due lo seguirono.

Il Conte era seduto in fondo alla carrozza, intento ad accarezzare il suo levriero. Il giullare — Tooley, pensò Richard, ecco come si chiama — era in piedi al suo fianco. A parte loro e i due armigeri, il vagone era deserto.

«Chi è?» chiese il Conte.

«È lui, signore,» rispose il giullare «Richard Mayhew. Colui che ha ucciso la Bestia.»

«Il Guerriero?» Il Conte si grattò la barba grigio rossastra. «Portatelo qui.»

Richard si avvicinò allo scranno del Conte. Questi lo squadrò dall’alto e dal basso con aria pensosa, senza mostrare in alcun modo di ricordare di averlo già incontrato.

«Pensavo fossi più alto» disse, alla fine, il Conte.

«Mi dispiace.»

«Be’, è meglio andare avanti con la cerimonia.» Si alzò e si rivolse al vagone vuoto. «Buona sera. Siamo qui per rendere onore al giovane Maybury. Quali erano le parole del bardo?» Al che iniziò a declamare, con un ritmico rimbombo, «Cremisi le ferite nella carcassa, Presto cade il nemico, Impavido devoto difensore, Coraggioso tra i ragazzi di coraggio… Anche se in realtà non è proprio un ragazzo, vero Tooley?»

«Non esattamente, vostra grazia.»

Il Conte allungò la mano. «Dammi la tua spada, ragazzo.»

Richard si portò la mano alla cintura e estrasse il pugnale che gli aveva dato Hunter. «Può andare bene, questo?» chiese.

«Si-si» disse il vecchio, prendendogli il pugnale.

«Inginocchiati!» disse Tooley, in un sussurro perfettamente udibile, indicando il pavimento del treno. Richard mise un ginocchio a terra.

Il Conte lo colpi gentilmente su entrambe le spalle con il pugnale. «Alzati,» urlò a squarciagola «Sir Richard di Maybury. Con questo pugnale ti dono la libertà del Mondo di Sotto. Che tu possa camminare liberamente senza ostacoli o impedimenti… e cosi via e cosi discorrendo… eccetera… bla bla bla.» Il discorso andava scemando.

«Grazie» disse Richard. «Comunque, è Mayhew.»

Ma il treno si stava fermando.

«Tu scendi qui» disse il Conte. Restituì il pugnale a Richard e gli diede una pacca sulle spalle.


Il luogo in cui Richard era sceso non era una stazione della metropolitana. Era sopraterra. Gli ricordava un po’ la stazione di St Pancras — c’era qualcosa di troppo grande e di finto gotico nell’architettura. Ma c’era anche qualcosa di sbagliato, che la etichettava come una zona di Londra Sotto.

La luce era quella stranamente grigia che si vede per qualche attimo prima dell’alba e dopo il tramonto, quando il mondo si ripulisce e si colora, e le distanze diventano impossibili da valutare.

Seduto su una panchina c’era un uomo che lo fissava, perciò Richard si avvicinò, con cautela, incapace di riconoscerlo in quella grigia luminescenza. Teneva ancora in mano il pugnale di Hunter — il suo pugnale, ora — e afferrò ancora più saldamente l’impugnatura per darsi coraggio.

Mentre Richard si avvicinava, l’uomo alzò lo sguardo e schizzò in piedi. Era Lord Parla-coi-Ratti. Si inchinò facendo il gesto di chi si toglie il cappello in segno di rispetto, una cosa che Richard aveva visto solo negli adattamenti di romanzi classici trasmessi dalla BBC2. «Bene-bene. Si-si» disse il parla-coi-ratti, molto agitato. «Tanto per chiarire, la ragazza Anestesia… Nessun rancore. I ratti sono ancora tuoi amici. E anche i parla-coi-ratti. Tu vieni da noi, e noi ti trattiamo bene.»

«Grazie» disse Richard. Lo accompagnerà Anestesia, pensò. Lei è sacrificabile.

Lord Parla-coi-Ratti cercò a tentoni qualcosa sulla panchina, poi offri a Richard una borsa sportiva nera con cerniera che gli era estremamente familiare.

«C’è tutto. Ogni cosa. Controlla.»

Richard apri la borsa. Dentro c’erano tutti i suoi possedimenti, incluso, in cima a un paio di jeans ben piegati, il portafogli. Richiuse la borsa, se la mise in spalla, e se ne andò senza voltarsi indietro.

Uscì dalla stazione e scese alcuni scalini.

Tutto era silenzio. Tutto era vuoto. Secche foglie autunnali si rincorrevano per il piazzale, un turbinio di giallo, ocra e marrone.

Attraversò il piazzale e scese dei gradini che portavano a un sottopassaggio. Nella semi-oscurità qualcosa fluttuava.

Richard si voltò circospetto. Ce ne erano almeno una decina, nel corridoio alle sue spalle, e scivolavano verso di lui quasi senza far rumore, solo un fruscio di velluto scuro e, qui e là, il luccicare di gioielli d’argento a segnalare la loro presenza.

Lo guardavano con occhi avidi.

Era davvero impaurito. Certo, aveva il pugnale, ma in quel momento era in grado di combattere quanto di saltare da una sponda all’altra del Tamigi. Sperava solo che il pugnale mettesse loro paura.

Poteva sentire il profumo di caprifoglio, di mughetto e di muschio.

Lamia si fece largo fino alla prima linea delle Velluto, e fece un passo avanti. Ricordando il gelo del suo abbraccio, Richard alzò il pugnale.

Lei gli sorrise, e inclinò dolcemente il capo. Poi ammiccò, si baciò la punta delle dita e, con un soffio, mandò il bacio a Richard.

Lui rabbrividi.

Qualcosa fluttuò nel buio del sottopassaggio, e quando guardò di nuovo non c’era altro che ombra.


Attraversò il sottopassaggio, sali altri gradini, e si ritrovò in cima a una collinetta erbosa, appena prima dell’alba. La luce era strana e innaturale, ma riusciva a individuare i dettagli della campagna circostante: querce, frassini e faggi. Un grande fiume serpeggiava dolcemente tra il verde. Guardandosi intorno, si rese conto di trovarsi su una sorta di isola — due fiumi più piccoli si riversavano in quello grande, separando Richard dalla terraferma.

E allora seppe, senza sapere come, ma con assoluta certezza, di trovarsi a Londra — ma una Londra di forse tremila anni fa, prima che la prima pietra della prima abitazione umana fosse posata sopra un’altra pietra.

Apri la borsa e ci infilò il coltello, accanto al portafogli. Poi la richiuse.

Il cielo cominciava a rischiarare, ma la luce era insolita. In qualche modo era più giovane della luce solare a cui era abituato. Un sole rosso-arancio sali da est: dove un giorno sarebbe stato creato il quartiere di Docklands, e più oltre ancora, verso Greenwich, Kent e il mare.

«Salve» disse Porta. Non l’aveva sentita arrivare. Sotto alla malridotta giacca di pelle marrone indossava dei vestiti diversi: sempre a strati, laceri e rattoppati, però di taffettà, pizzo, seta e broccato.

«Salve» disse Richard.

Gli rimase accanto in piedi, e intrecciò le sue dita sottili con quelle della mano destra di lui, la mano che reggeva la borsa sportiva.

«Dove siamo?» chiese Richard.

«Sulla spaventosa e terribile isola di Westminster.» Sembrava quasi stesse citando una frase famosa, ma non gli pareva di averla mai sentita prima.

Cominciarono a camminare sui lunghi fili d’erba, bagnati di brina. I loro piedi lasciavano impronte verde scuro, che indicavano il punto in cui erano passati.

«Senti,» disse Porta «adesso che l’angelo non c’è più, a Londra Sotto bisogna mettere a posto tante cose. E ci sono solo io a farlo. Mio padre voleva unire Londra Sotto… Suppongo che dovrei almeno provare a finire quanto ha cominciato.»

Si stavano dirigendo verso nord, allontanandosi dal Tamigi. Nel cielo sopra di loro, gabbiani bianchi giravano e gridavano.

«E hai sentito quello che Islington ha detto a proposito di mia sorella. Forse potrebbe essere ancora viva. Chissà, potrei non essere l’unica rimasta. E tu mi hai salvato la vita.» Fece una pausa, poi, tutto d’un fiato, «Per me sei stato davvero un grande amico, Richard. E averti intorno ha cominciato a piacermi. Ti prego, non andare.»

Con la mano sinistra, quella ferita, le diede qualche goffo colpetto sulla mano.

«Be’,» disse «anche a me ha cominciato a piacere averti intorno. Ma non appartengo a questo mondo. Nella mia Londra… be’, la cosa più pericolosa a cui devi fare attenzione è un taxi che va di fretta. Anche tu mi piaci. Mi piaci davvero tanto. Però voglio tornare a casa.»

Lei alzò verso di lui gli occhi dallo strano colore.

«Allora non ci rivedremo più» disse.

«Immagino di no.»

«Grazie per tutto quello che hai fatto» disse Porta. Poi gli mise le braccia al collo e si abbracciarono stretti stretti, al punto che i lividi sulle costole di Richard si fecero sentire, ma anche lui ricambiò l’abbraccio, altrettanto forte, e non gliene importava.

«Bene,» disse alla fine «è stato molto bello conoscerti.»

Lei continuava a battere le palpebre. Si chiese se anche questa volta avrebbe detto di avere un bruscolino nell’occhio. Invece, Porta domandò, «Sei pronto?»

Lui annui.

«Hai la chiave?»

Appoggiò la borsa a terra e si frugò nella tasca posteriore con la mano buona. Prese la chiave e gliela diede. Lei la tenne sollevata come la stesse inserendo in una porta immaginaria.

«Tutto a posto» disse la ragazza. «Basta che cammini. Senza voltarti.»

Lui cominciò a scendere la collinetta. Un gabbiano lo sfiorò passandogli accanto.

Ai piedi della collina, si voltò. Era là, in cima, che si stagliava nella luce del sole nascente. Le sue guance luccicavano.

Dalla chiave brillò un raggio di luce arancione.

Porta la girò, con un unico movimento deciso.


Il mondo si oscurò, e un sordo ruggito riempi la testa di Richard, simile al folle ringhiare di migliaia di bestie rabbiose.

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