Richard Mayhew camminava lungo la banchina della metropolitana.
Non aveva riconosciuto la stazione. Era una stazione della District Line: il cartello diceva blackfriars.
La banchina era vuota. Da qualche parte un treno passò rombando e mandò un vento spettrale a sparpagliare le pagine di una copia del Sun, che dalla banchina disseminarono seni e invettive fin sulle rotaie.
Richard guardò da una parte e dall’altra.
Quindi si sedette su una panchina in attesa che accadesse qualcosa.
Non accadde nulla.
Si massaggiò la testa e provò un po’ di nausea.
Sulla banchina si udirono dei passi. Alzò lo sguardo: gli stava passando accanto una bambina dall’aria molto linda e inamidata che teneva per mano una donna che pareva una versione più grande e più vecchia della bimba stessa. Lo videro, quindi, ovviamente, guardarono da un’altra parte.
«Non avvicinarti troppo, Melanie» raccomandò la donna in un sussurro anche troppo udibile.
Melanie guardò Richard, fissandolo come fissano i bambini, senza imbarazzo né disagio. Poi tornò a guardare la madre. «Perché persone cosi continuano a vivere?» chiese, curiosa.
«Non hanno il fegato di farla finita» spiegò la mamma.
Melanie arrischiò un’altra occhiata a Richard. «Patetico» disse.
Lo scalpiccio dei loro piedi si allontanò lungo la banchina, e ben presto erano scomparse.
Si chiese se fosse stato frutto della sua immaginazione. Cercò di ricordare il motivo per cui si trovava su quella banchina. Aspettava un treno della metropolitana? E dove stava andando?
Non lo sapeva.
Rimase seduto dov’era. Stava forse sognando? Provò a toccare il duro sedile di plastica sotto di lui, battè i piedi sul pavimento con le scarpe incrostate di fango (da dove proveniva quel fango?), si toccò il viso… No. Non era un sogno. Qualunque cosa fosse, era reale.
Si sentiva strano: indifferente e depresso, e orribilmente, stranamente triste.
Qualcuno si sedette accanto a lui. Richard non sollevò lo sguardo, non voltò la testa.
«Ciao» disse una voce familiare. «Come stai, Dick? Va tutto bene?»
Richard alzò gli occhi. Senti che il volto gli si increspava in un sorriso, e la speranza lo colpiva come un colpo al petto. «Garry?» domandò, impaurito. Poi, «Puoi vedermi?»
Garry sorrise. «Sei sempre stato un gran burlone» disse. «Divertente, ragazzo, divertente.»
Garry era in giacca e cravatta. Era ben rasato e non aveva un capello fuori posto. Di colpo Richard si rese conto di quale doveva essere il suo aspetto: infangato, non sbarbato, arruffato…
«Garry? Io… senti, so cosa devo sembrare. Posso spiegarti.» Ci pensò sopra un istante. «No… in realtà non posso.»
«Va tutto bene» disse Garry. La sua voce era consolante, equilibrata. «Non so come dirtelo. È un po’ imbarazzante.» Esitò. «Guarda,» spiegò «io non sono davvero qui.»
«Oh, si che ci sei» disse Richard.
Garry scosse il capo, con aria comprensiva. «No» disse. «Non ci sono. Io sono te. Stai parlando a te stesso.»
Richard si chiese vagamente se fosse uno degli scherzi di Garry.
«Forse questo ti…» disse Garry. Si portò le mani sul viso, premette, plasmò, modellò. La sua faccia pareva di pongo.
«Va meglio cosi?» disse la persona che era stata Garry, con una voce che gli era sgradevolmente familiare. Richard conosceva quel viso. L’aveva rasato quasi tutte le mattine dei giorni feriali da quando aveva finito la scuola. Gli aveva lavato i denti, strizzato i brufoli e, qualche volta, aveva desiderato somigliasse a quello di Tom Cruise o di John Lennon o…
Era la sua faccia.
«Sei seduto alla stazione di Blackfriars all’ora di punta» disse l’altro Richard. «Stai parlano da solo. E sai cosa dicono di chi parla da solo. Il fatto è che in questo momento stai semplicemente cominciando a riaccostarti alla sanità mentale.»
E il bagnato e inzaccherato Richard fissò il volto del Richard pulito e ben vestito e disse: «Non so chi tu sia o cosa stai cercando di fare. Ma non sei neppure molto convincente: neanche mi somigli.»
Sapeva di mentire.
L’altro se stesso fece un sorriso triste e scosse il capo.
«Sono te, Richard. Sono quel poco che rimane della tua sanità mentale…» L’altro Richard lo fissò intensamente. «Concentrati! Guarda questo posto, cerca di vedere le persone, cerca di vedere la verità… sei già più vicino alla realtà di quanto tu sia mai stato in quest’ultima settimana…»
«Tutte balle» replicò Richard in tono spento e disperato.
Scosse il capo, ma guardò la banchina. Al limite estremo della sua visione periferica c’era qualcosa che tremolava.
Provò a seguire l’immagine voltando la testa, ma era scomparsa.
«Guarda» bisbigliò il suo doppio, con una voce che conosceva anche troppo bene.
Si trovava in piedi su una banchina di stazione di metropolitana vuota e scarsamente illuminata, il solitario mausoleo di un luogo.
Poi…
Il rumore e la luce lo colpirono come un fulmine.
Era alla stazione di Blackfriars, nel bel mezzo dell’ora di punta. Intorno a lui un gran via vai di gente: un’orgia di luce e di rumore, di umanità in movimento.
In attesa alla stazione c’era un treno, e Richard si vide riflesso nel finestrino.
Ecco come appariva:
Sembrava pazzo. Aveva la barba di una settimana. Intorno alla bocca e sulla barba c’erano sedimenti di cibo. Aveva un livido recente intorno all’occhio, diventato nero, e su un lato del naso stava spuntando un foruncolo, una pustola scarlatta e rabbiosa. Era sudicio, ricoperto di uno sporco nero e incrostato che gli riempiva i pori e abitava sotto le unghie. Gli occhi erano rossi e velati, i capelli opachi e aggrovigliati.
Era un pazzo senza fissa dimora, che se ne stava in piedi sulla banchina di un’affollata stazione del metrò all’ora di punta.
Affondò il volto nelle mani.
Quando rialzò il viso, la gente se ne era andata. La banchina era di nuovo buia ed era solo.
Una mano trovò la sua, l’afferrò e la strinse. Una mano femminile. Sentiva un profumo familiare.
L’altro Richard era seduto alla sua sinistra, mentre Jessica stava alla sua destra e gli teneva la mano, guardandolo negli occhi. Non le aveva mai visto quell’espressione.
«Jess?» disse.
Jessica scosse il capo. Gli lasciò la mano. «Mi dispiace, ma non è cosi» disse. «Sono ancora te. Però mi devi ascoltare, caro. Sei più vicino alla realtà di quanto tu sia mai stato…»
«Voi due continuate a dire più vicino alla realtà, più vicino alla sanità mentale, non so proprio cosa…» Esitò. In quel momento ricordò qualcosa. Guardò l’altra versione di se stesso e la donna che aveva amato e chiese, «Fa parte della prova?»
«Prova?» domandò Jessica. Scambiò un’occhiata inquieta con 1’altro-Richard-che-non-era-lui.
«Si. La prova. Con i Frati Neri che vivono sotto Londra» spiegò Richard. E mentre lo diceva, diventava più reale. «C’è una chiave che devo trovare per un angelo che si chiama Islington. Se gli porto la chiave, lui mi rimanda a casa…» gli si era inaridita la bocca, quindi si fermò.
«Ascolta ciò che dici!» lo apostrofò l’altro Richard. «Non ti accorgi di quanto suona ridicolo?»
Jessica sembrava una che si sforza di non piangere. Aveva gli occhi lucidi. «Non stai affrontando nessuna prova, Richard. Tu — tu hai avuto una specie di esaurimento nervoso. Un paio di settimane fa. Probabilmente sei crollato perché ho rotto il fidanzamento. Il fatto è che ti comportavi in modo tanto strano, sembravi un’altra persona e io — io non riuscivo a sopportarlo… Poi sei sparito…» Le lacrime cominciavano a solcarle le guance, e smise di parlare per soffiarsi il naso con un fazzolettino di carta.
Prese a parlare l’altro Richard. «Mi aggiravo per le vie di Londra, impazzito e solo, dormivo sotto i ponti e mangiavo cibo trovato nei bidoni e nei contenitori della spazzatura. Perso, tremante e solo. Borbottavo tra me e parlavo con persone inesistenti…»
«Mi dispiace cosi tanto, Richard» disse Jessica. Stava piangendo, il viso contorto privo di attrattiva. Il mascara iniziava a colare e aveva il naso rosso.
Non l’aveva mai vista ferita, e si accorse di quanto desiderava fare in modo che non soffrisse.
Richard allungò la mano verso di lei, per cercare di abbracciarla, confortarla, rassicurarla, ma il mondo scivolò, si distorse e mutò…
Qualcuno inciampò su di lui.
Era sdraiato sulla banchina nella vivida luce dell’ora di punta. Un lato del suo viso era freddo e appiccicoso. Sollevò la testa da terra. Si era straiato in una pozzanghera di vomito, che sperava almeno fosse suo.
I passanti lo fissavano disgustati o, dopo un’occhiata di sfuggita, cercavano di non guardarlo affatto.
Si ripulì il viso e cercò di alzarsi, ma non si ricordava come si fa. Richard cominciò a piagnucolare. Chiuse gli occhi stretti stretti, e continuò a tenerli chiusi.
Quando li riapri, trenta secondi, un’ora o un giorno più tardi, la banchina era nella semi oscurità.
Si alzò in piedi. Non c’era nessuno.
«Ehi!» gridò. «Per favore, aiutatemi.»
Garry era seduto sulla panchina e lo osservava.
«Ma come, c’è ancora bisogno che qualcuno ti dica cosa devi fare?» Garry si alzò e si diresse verso il punto in cui si trovava Richard. «Richard» disse in tono pressante. «Sono te. L’unico consiglio che posso darti è quello che ti stai dando da solo. Anche se forse sei troppo impaurito per ascoltare.»
«Tu non sei me» disse Richard, anche se ormai non ci credeva più.
«Toccami» disse Garry.
Richard allungò la mano, che entrò nel viso di Garry, schiacciando e distorcendo, come stesse facendo pressione su una gomma da masticare tiepida. Richard non senti nulla nell’aria che gli circondava la mano, quindi la tolse dal viso di Garry.
«Visto?» disse Garry. «Non sono qui. Tutto quello che c’è sei tu, che cammini avanti e indietro lungo la banchina, parlando da solo e cercando di trovare il coraggio per…»
Richard non aveva intenzione di commentare, ma la bocca si mosse e udi la propria voce che diceva: «Cercando di trovare il coraggio per fare cosa?»
Con tono profondo, l’altoparlante annunciò: «L’Azienda londinese per il trasporto pubblico si scusa per il ritardo, dovuto a un incidente verificatosi alla stazione di Blackfriars.»
«Per fare questo» disse Garry. «Diventare un incidente verificatosi alla stazione di Blackfriars. Farla finita con tutto. La tua vita è una vuota messinscena, priva di gioia e di amore. Non hai amici…»
«Ho te» sussurrò Richard.
Garry lo esaminò con occhi sinceri. «Sei proprio un illuso» disse.
«Ho Porta, e Hunter, e Anestesia.»
Garry sorrise. C’era un compatimento, in quel sorriso, che ferì Richard più di qualunque altra cosa. «Altri amici immaginari? In ufficio ridevamo tutti per quei troll. Te li ricordi? Sulla tua scrivania.» Scoppiò a ridere.
Anche Richard si mise a ridere. Era tutto troppo orribile: non si poteva fare altro che mettersi a ridere.
Dopo un po’ smise.
Garry si infilò la mano in tasca e ne estrasse un troll. Aveva i capelli viola, e un tempo trovava posto sul monitor del computer di Richard. «Ecco» disse Garry. E gli tirò il troll.
Richard cercò di afferrarlo. Allungò le mani ma l’oggetto le attraversò come non fossero li.
Allora si mise carponi, alla ricerca del troll. In quel momento gli sembrava fosse l’unico frammento rimasto della sua vera vita, e che se solo avesse potuto riaverlo, forse avrebbe potuto riavere anche tutto il resto…
Flash.
Era di nuovo l’ora di punta. Un treno scaricò centinaia di persone, mentre altre centinaia cercavano di salire, e Richard era ancora carponi, preso a calci e a botte dai pendolari. Qualcuno gli calpestò le dita della mano, con forza. Lanciò uno strillo acuto e si ficcò le dita in bocca, come un bambino che si fosse scottato. Avevano un sapore davvero pessimo.
Non se ne curò. Poteva vedere il troll sul bordo della banchina, a circa tre metri.
Strisciò, lentamente, sulle mani e sulle ginocchia, attraverso la folla, fino alla fine della banchina. La gente lo insultò, gli intralciò la strada e lo spinse malamente. Non aveva mai immaginato che ci si potesse impiegare tanto a percorrere tre metri. Udì una voce penetrante sogghignare, e si chiese a chi potesse appartenere. Era una risatina fastidiosa, strana e sgradevole. Si chiese che tipo di persona potesse sogghignare a quel modo. Degluti, e il sogghigno si arrestò. Ora lo sapeva.
Una donna anziana sali sul treno, e nel farlo colpi con un piede il troll dai capelli viola spedendolo nel buio, giù nello spazio vuoto tra treno e banchina.
«No» disse Richard. Stava ancora ridendo, una risata sgraziata e ansimante, ma negli occhi gli spuntarono delle lacrime che si sparsero sulle guance. Si strofinò gli occhi con le mani, facendoli bruciare ancora di più.
Flash.
La banchina era di nuovo deserta e buia.
Si alzò in piedi e percorse barcollando gli ultimi centimetri che lo separavano dal bordo.
Poteva vederlo, laggiù sulle rotaie, accanto al terzo binario, quello sotto tensione: una piccola chiazza viola. Il suo troll.
Guardò davanti a sé: attaccati al muro dall’altra parte dei binari c’erano dei manifesti di grandi dimensioni. Pubblicizzavano carte di credito e scarpe sportive e vacanze a Cipro. Mentre guardava, il mondo si distorse e mutò.
Nuovi messaggi:
FALLA FINITA era uno di essi.
METTI FINE ALLE TUE SOFFERENZE.
PROCURATI UN INCIDENTE FATALE, OGGI.
Annuì. Stava parlando da solo. In realtà sui manifesti non c’erano quelle scritte. Si. Parlava con se stesso; ed era tempo che si ascoltasse.
Poteva sentire un treno, non molto distante, che si avvicinava alla stazione.
Strinse i denti e cominciò a dondolare avanti e indietro come stesse ancora ricevendo gli spintoni dei pendolari, anche se sulla banchina era solo.
Il treno si stava dirigendo verso di lui. In quel momento comprese che bastava davvero uno sforzo piccolissimo per mettere fine al dolore, per far si che il dolore sparisse per sempre.
Si ficcò le mani in tasca e fece un respiro profondo. Era cosi facile. Un momento di sofferenza, e tutto si sarebbe concluso e compiuto…
In una delle tasche c’era qualcosa. Lo sentiva con le dita: qualcosa di liscio e solido, approssimativamente sferico.
Lo estrasse: era una perlina di quarzo.
Allora si ricordò di averla raccolta da terra. Era stato dall’altra parte del Ponte della Notte. Si trattava di un pezzo della collana di Anestesia.
E da chissà dove, nella sua testa o fuori di essa, gli parve di sentire la ragazza-ratto che diceva, «Tieni duro, Richard!»
Annui e si rimise in tasca la perlina. Restò in piedi sulla banchina e aspettò che arrivasse il treno. Quello arrivò, rallentò e si fermò completamente.
Le porte del treno si aprirono con un sibilo.
Il vagone era pieno di morti; morti di tutti i tipi. C’erano cadaveri ancora caldi, con tagli grossolani alla gola e buchi di pallottola alla tempia. C’erano cadaveri vecchi e rinsecchiti. C’erano corpi coperti di ragnatele che si reggevano alle maniglie del treno, e esseri sciatti e cancerosi mollemente abbandonati nei relativi posti a sedere. Per quanto si poteva desumere, tutti i cadaveri sembravano essere defunti per mano propria.
C’erano corpi di uomini e corpi di donne.
A Richard pareva di avere già visto alcuni di quei visi, appesi a un lungo muro, ma non riusciva più a ricordare dove, né quando.
Il vagone puzzava come potrebbe puzzare un obitorio al termine di una lunga estate calda durante la quale il sistema di refrigerazione si fosse rotto definitivamente.
Richard non sapeva più chi era, non aveva idea di cosa fosse vero e cosa no, e nemmeno se era coraggioso o vigliacco, pazzo o sano di mente.
Però sapeva qual’era la successiva cosa da fare. Salire sul treno.
E a quel punto tutte le luci si spensero.
I chiavistelli vennero tirati di nuovo. Due sonori schiocchi echeggiarono nella stanza. La porta del minuscolo santuario si apri, lasciando entrare la luce delle lampade nel corridoio.
Era una piccola stanza con un alto soffitto a volta. Da un filo appeso nel punto più elevato del soffitto pendeva una chiave d’argento. Il soffio d’aria provocato dall’apertura della porta la fece oscillare avanti e indietro, quindi ruotare lentamente, prima da una parte, poi dall’altra.
L’Abate si appoggiava al braccio di fratello Caliginoso e i due uomini entrarono nel santuario fianco a fianco. Poi l’Abate lasciò il braccio del fratello e disse: «Prendi il cadavere, fratello Caliginoso.»
«Ma, ma padre…»
«Cosa c’è?»
Fratello Caliginoso appoggiò un ginocchio a terra. L’Abate poteva udire le dita che sfioravano abiti e pelle. «Non è morto.»
L’Abate sospirò. Era un pensiero immorale, lo sapeva, ma sinceramente riteneva fosse molto più clemente farli morire subito. In questo modo era molto peggio. «Uno di quelli, eh?» disse. «Be’, ci occuperemo della povera creatura finché giungerà a ottenere la sua ricompensa finale. Portiamolo in infermeria.»
A quel punto una flebile voce disse, con grande calma, «Non sono… una povera creatura…»
L’Abate senti qualcuno alzarsi in piedi; senti il brusco respiro di fratello Caliginoso.
«Penso… penso di averla superata» disse, esitante, la voce di Richard Mayhew. «A meno che anche questo faccia parte della prova.»
«No, figliolo» lo rassicurò l’Abate.
Calò il silenzio. Poi Richard disse, «Io… io credo che adesso la gradirei quella tazza di tè, se per voi non è un problema.»
«Certo» disse l’Abate. «Da questa parte.»
Richard fissò il vecchio. Stava tremando. Gli occhi glauchi guardavano il nulla. Sembrava contento che Richard fosse vivo, ma…
«Scusi, signore» disse pieno di rispetto fratello Caliginoso, rivolto a Richard. «Non dimentichi la chiave.»
«Oh, si. Grazie.»
Si era dimenticato della chiave. Allungò la mano e la richiuse sulla chiave d’argento, che ruotava lentamente appesa alla corda. Tirò, e il filo si spezzò senza opporre resistenza.
Richard apri la mano e osservò la chiave che lo fissava dal suo palmo.
«Dipende dai miei denti irregolari» disse Richard, che ora ricordava. «Chi sono?»
La mise in tasca, accanto alla perlina di quarzo, e insieme lasciarono quel luogo.
La nebbia aveva cominciato a diradare. Hunter ne era lieta. Adesso era certa che, se fosse stato necessario, avrebbe potuto portar via Lady Porta ai frati senza che le succedesse nulla, cavandosela lei stessa solo con qualche ferita superficiale.
All’altro lato del ponte ci fu un movimento, carico di eccitazione.
«Succede qualcosa» disse Hunter a bassa voce. «Preparati a scappare.»
I frati si scostarono.
Richard, l’uomo del Mondo di Sopra, camminava nella nebbia, a fianco dell’Abate. Richard sembrava… Hunter lo esaminò attentamente per cercare di capire in cosa fosse cambiato. Il suo punto di equilibrio si era abbassato, era più centrato. No… non si trattava solo di quello. Sembrava…
Sembrava che fosse cresciuto.
«Ancora vivo?» chiese Hunter.
Richard annui, mise la mano in tasca e ne tolse una chiave d’argento. La lanciò a Porta, che la prese al volo, per poi correre verso di lui e mettergli le braccia al collo, stringendolo più forte che poteva.
Quindi Porta si staccò da Richard e andò dall’Abate. «Non so dirle quanto ciò significhi per noi» gli disse.
Lui sorrise, debolmente ma con dolcezza. «Possano Temple e Arch essere con tutti voi, nel vostro viaggio attraverso il Mondo di Sotto.»
Porta fece un inchino poi, tenendo la chiave stretta in mano, tornò da Richard e da Hunter.
I viaggiatori superarono il ponte.
I frati rimasero sul ponte finché i tre uscirono dal loro campo visivo, persi nella vecchia nebbia del mondo sotto il mondo.
«Abbiamo perduto la chiave» disse l’Abate. «Che Dio ci aiuti.»