Mister Croup e mister Vandemar avevano installato la propria abitazione nelle cantine di un ospedale vittoriano chiuso dieci anni prima per i tagli al bilancio del servizio sanitario nazionale.
Gli imprenditori interessati allo sviluppo della zona, che avevano annunciato l’intenzione di trasformare la costruzione in un incomparabile caseggiato formato da alloggi di gran lusso, erano svaniti uno a uno non appena l’ospedale era stato chiuso, e cosi se ne stava là anno dopo anno, grigio, vuoto e indesiderato, con assi inchiodate alle finestre e lucchetti alle porte.
Il tetto era in pessimo stato e la pioggia colava all’interno dell’ospedale vuoto, propagando umidità e putridume in tutto l’edificio.
La struttura era stata disposta intorno a un pozzo centrale che lasciava entrare una luce grigia e ostile.
Il mondo dei seminterrati al di sotto dei reparti deserti comprendeva oltre un centinaio di stanzette, alcune vuote, altre contenenti attrezzature sanitarie abbandonate. In una stanza c’era una tozza e gigantesca caldaia di metallo. Nella successiva si trovavano servizi igienici e docce bloccati e privi di acqua. Il pavimento di questi seminterrati era in gran parte ricoperto da un sottile strato di acqua piovana mista a olio, che rifletteva oscurità e decadimento verso il soffitto marcio.
Scendendo le scale dell’ospedale fino a dove era possibile arrivare, attraversati i locali con le docce deserte, superate le toilettes del personale, oltrepassate le stanze piene di vetri rotti in cui il soffitto era completamente crollato, creando un’apertura verso la tromba delle scale che stava al di sopra, si giungeva a una piccola scaletta di ferro. E scendendo anche quei gradini, superando la zona paludosa in fondo alla scala e attraversando una porta di legno mezza marcia, ci si ritrovava nello scantinato, una stanza enorme in cui per centoventi anni il materiale di scarto dell’ospedale era stato accumulato, abbandonato e dimenticato; ed era là che mister Croup e mister Vandemar avevano per il momento stabilito la propria dimora.
I muri erano umidi, e dal soffitto colava acqua. Negli angoli si stavano lentamente decomponendo le cose più strane, alcune delle quali un tempo erano state vive.
Mister Croup e mister Vandemar stavano ammazzando il tempo.
Mister Vandemar aveva trovato da qualche parte un centopiedi — una creatura rosso-arancio lunga quasi venti centimetri, con pericolose punte velenose su entrambe le estremità — e se lo faceva correre sulle mani, osservandolo mentre gli girava tra le dita, scompariva su per una manica per riapparire un minuto dopo in uscita dall’altra.
Mister Croup stava giocando con delle lamette da barba. In un angolo ne aveva trovata una scatola intera, lamette vecchie di almeno cinquant’anni avvolte nella pergamina, e si era messo di impegno a pensare a come utilizzarle.
«Se posso avere la sua attenzione, mister Vandemar,» disse infine «punti i suoi occhiettini luccicanti su questo.»
Affinché smettesse di dimenarsi, mister Vandemar prese con delicatezza la testa del centopiedi tra un pollice enorme e un indice massiccio, quindi guardò mister Croup.
Mister Croup appoggiò la mano sinistra contro il muro, le dita allargate. Nella mano destra teneva cinque lamette, prese attentamente la mira e le scagliò verso il muro.
Ogni lametta si conficcò con precisione nella parete, tra le sue dita. Sembrava il numero di un bravissimo lanciatore di coltelli in miniatura.
Mister Croup tolse la mano dal muro, lasciandoci infisse le lamette, a evidenziare la posizione in cui erano state le dita, quindi si voltò verso il suo socio in cerca di approvazione.
Mister Vandemar non era per nulla impressionato.
«Be’? Cosa c’era di tanto intelligente?» chiese. «Non ha colpito nemmeno un dito.»
Mister Croup sospirò. «Non l’ho fatto?» ribadì. «Perbacco, che mi si squarci la gola, ha ragione. Come ho potuto essere cosi sventato?» Estrasse le lamette dal muro, una a una, e le lasciò cadere sul tavolo di legno. «Perché non mi fa vedere lei come si dovrebbe fare?»
Mister Vandemar annui. Ripose il suo centopiedi nel vasetto di marmellata vuoto.
Poi appoggiò la mano sinistra contro la parete.
Alzò il braccio destro: in mano teneva il coltello, pericoloso, tagliente e perfettamente bilanciato. Socchiuse gli occhi e lanciò.
L’arma attraversò l’aria come un coltello da lancio particolarmente grande e affilato che vola attraversando l’aria a una velocità davvero notevole. Con un rumore sordo la lama si conficcò nel muro, avendo prima colpito e trapassato il dorso della mano di mister Vandemar.
Suonò un campanello.
Mister Vandemar alzò lo sguardo, soddisfatto, con un coltello che gli attraversava la mano. «Così» disse.
In un angolo della stanza c’era un telefono. Si trattava di un vecchissimo modello in legno e bachelite, inutilizzato in ospedale già dagli anni Venti. Mister Croup sollevò il ricevitore, che era collegato a un filo molto lungo e ricoperto di stoffa, e parlò nell’imboccatura che era attaccata alla base. «Croup e Vandemar» disse suadente. «Antica Ditta. Annientamento ostacoli, eliminazione seccature, estirpazione arti fastidiosi e odontoiatria tutelare.»
La persona all’altro capo del filo disse qualcosa. Mister Croup si fece piccolo per la paura.
Mister Vandemar diede uno strattone alla mano sinistra, che era inchiodata al muro dal coltello.
«Oh. Si, signore. Certo, signore. E posso dirvi quanto la vostra confabulazione telefonica illumini e rallegri la nostra altrimenti tediosa e squallida giornata?» Un’altra pausa. «Naturalmente, smetterò di adulare e di strisciare. Con vero piacere. Un onore, e — cosa sappiamo? Sappiamo che…» Un’interruzione; si mise le dita nel naso con aria riflessiva, paziente. «No, non sappiamo dove si trova in questo preciso momento. Ma non è necessario. Stasera sarà al mercato e…» Serrò le labbra, poi aggiunse, «Non abbiamo intenzione di violare l’armistizio del mercato. Più che altro di aspettare che lasci il mercato per squartarla…» Rimase un attimo in silenzio, in ascolto, annuendo di quando in quando.
Con la mano libera, Mister Vandemar tentò di estrarre il coltello dal muro, ma si era conficcato con troppa energia.
«Si può fare, certo» disse mister Croup nell’imboccatura. «Voglio dire, sarà fatto. Naturalmente. Si. Lo capisco. E, signore, forse potremmo discutere del…?»
Ma colui che aveva chiamato aveva già interrotto la comunicazione. Mister Croup fissò per un attimo il ricevitore, quindi lo riappese al suo gancio.
«Pensi di essere cosi dannatamente intelligente» bisbigliò. Poi si accorse dell’impiccio in cui si trovava mister Vandemar e disse, «Fermo!» Si chinò, estrasse il coltello dal muro e dal dorso della mano di mister Vandemar, e lo appoggiò sul tavolo.
Mister Vandemar agitò la mano sinistra e piegò le dita, poi tolse i frammenti di intonaco ammuffito dalla lama del coltello. «Chi era?»
«Il nostro datore di lavoro» rispose mister Croup. «Sembra che l’altro non funzioni. Non è abbastanza grande. Dovrà proprio essere la femmina Porta.»
«Perciò non abbiamo più il permesso di ucciderla?»
«Questo, mister Vandemar è il succo della questione, proprio cosi. Ora, sembra che la piccola signorina Porta abbia annunciato che assumerà una guardia del corpo. Al mercato. Questa sera.»
«E allora?» Mister Vandemar si sputò sul dorso della mano, nel punto dove era entrato il coltello, e sul palmo della mano, nel punto dove il coltello era uscito.
Mister Croup sollevò dal pavimento il suo cappotto, pesante, nero e lucido per l’età. Lo indossò.
«E allora, mister Vandemar, perché non assumere anche noi una guardia del corpo?»
Mister Vandemar fece scivolare il coltello al proprio posto, nella custodia dentro la manica. Indossò il cappotto anche lui, infilò con foga le mani in tasca e fu piacevolmente stupito di trovarci quasi mezzo topo. Bene. Era affamato.
Quindi si mise a meditare sull’ultima affermazione di mister Croup con l’intensità di un patologo legale che disseziona il suo unico grande amore, e, accorgendosi della falla nella logica del suo socio, mister Vandemar disse, «Non abbiamo bisogno di una guardia del corpo, mister Croup. Noi facciamo male alla gente. Non sono gli altri a far del male a noi.»
Mister Croup spense le luci.
«Oh, mister Vandemar» disse, gustando il suono delle parole, come gustava il suono di tutte le parole, «se ci tagliamo, non sanguiniamo forse anche noi?»
Mister Vandemar ci pensò sopra un istante, al buio. Poi, con precisione inoppugnabile, disse, «No.»
«Una spia dal Mondo di Sopra» disse Lord-Parla-coi-Ratti. «Sai, dovrei farti un bel taglio dalla gola allo stomaco e predire il futuro con le tue budella.»
«Senti» disse Richard con la schiena contro il muro e lo stiletto di vetro premuto contro il pomo d’Adamo. «Penso che tu stia facendo un grosso errore. Mi chiamo Richard Mayhew. Posso dimostrare la mia identità. Ho la tessera della biblioteca. Le carte di credito. Tante cose» aggiunse disperato.
Con la fredda lucidità che si impossessa di chi ha di fronte a sé uno squilibrato che sta per tagliargli la gola con un pezzo di vetro rotto, Richard si accorse che sul lato opposto della sala la gente si stava gettando al suolo, in un inchino estremamente profondo, e rimaneva a terra.
Una figurina nera si stava dirigendo verso di loro.
«Sono certo che se ci pensiamo un attimo ci renderemo conto di essere stati tutti molto sciocchi» disse Richard. Non aveva idea di cosa significassero quelle parole, se non che gli erano semplicemente uscite di bocca e che finché parlava non era morto. «Ora, perché non metti via quel coso e — scusa, quella è la mia borsa» quest’ultima frase era rivolta a una ragazza magra e sporca sui diciassette/diciotto anni che si era impossessata della borsa di Richard e ne stava svuotando con forza il contenuto sul selciato.
La gente nella sala continuava a inchinarsi e a rimanere china, mentre la piccola figura si avvicinava.
La figura raggiunse il gruppo di persone che circondava Richard. Nessuno di loro la notò. Stavano tutti guardando Richard.
Si trattava di un ratto. Alzò lo sguardo verso di lui e per un attimo Richard ebbe la bizzarra impressione che gli avesse strizzato l’occhio.
Quindi si mise a squittire ad alta voce.
L’uomo con lo stiletto di vetro si gettò in ginocchio, e lo stesso fecero le persone riunite li intorno. E cosi, dopo un momento di esitazione, fece anche il senzatetto, l’uomo che avevano chiamato Iliaster.
Richard fu l’unico a rimanere in piedi. La ragazza magra lo tirò per il gomito, e pure lui si mise in ginocchio.
Lord Parla-coi-Ratti si inchinò cosi profondamente che i suoi lunghi capelli spazzavano il pavimento, e squitti in risposta al ratto, increspando il naso, mostrando i denti, squittendo e soffiando, in tutto e per tutto come un ratto formato gigante.
«Ehi, qualcuno sa dirmi…» bofonchiò Richard.
«Zitto!» disse la ragazza.
Con aria un po’ sprezzante, il ratto sali sulla mano sudicia di Lord Parla-coi-Ratti, e con grande rispetto l’uomo lo sollevò fino al viso di Richard. Ondeggiava languidamente la coda.
«Questo è Padron Codalunga, del clan Grigio» disse Lord Parla-coi-Ratti. «Dice che hai un aspetto decisamente familiare. Vuole sapere se vi siete mai incontrati prima.»
Richard osservò il ratto. Il ratto osservò Richard. «Suppongo sia possibile» ammise.
«Dice che si stava liberando da un’obbligazione verso il Marchese de Carabas.»
Richard lo guardò più da vicino. «È quel ratto? Si, ci siamo già incontrati. In verità gli ho lanciato contro il telecomando.»
Alcune delle persone li intorno parvero scioccate. La ragazzina magra addirittura squitti. Richard quasi non se ne accorse; finalmente c’era qualcosa di familiare in quella pazzia.
«Ciao, Rattino» disse. «È bello rivederti. Sai dov’è Porta?»
«Rattino!» esclamò la ragazza tra uno squittio e un soffocato grido di raccapriccio. Attaccata agli abiti cenciosi aveva una piccola spilla rossa macchiata d’acqua su cui stava scritto Ho 11 anni a caratteri gialli.
Lord Parla-coi-Ratti agitò minacciosamente lo stiletto di vetro verso Richard. «Non puoi rivolgerti a Padron Codalunga se non attraverso me» disse.
Il ratto squitti un ordine. L’espressione sul viso dell’uomo si oscurò.
«Lui?» disse, guardando Richard con disprezzo. «Senta, non ho neppure un’anima disponibile. E se semplicemente gli tagliassi la gola e lo spedissi giù al Popolo delle Fogne…»
Il ratto squitti un’altra volta, risoluto, poi spiccò un balzo dalla spalla dell’uomo fino a terra e svanì in uno dei numerosi fori che trivellavano i muri.
Lord Parla-coi-Ratti si alzò.
Un centinaio di occhi erano fissi su di lui. Si voltò verso la sala e guardò tutti gli altri, accucciati accanto ai fuochi untuosi.
«Non so cosa stiate guardando, tutti» strillò. «Chi gira gli spiedi, eh? Volete che la roba da mangiare si bruci? Non c’è niente da vedere. Continuate. Andate-andate via.»
Richard si rimise in piedi, un po’ nervoso.
Lord Parla-coi-Ratti si rivolse a Iliaster. «Deve essere accompagnato al mercato. Ordini di Padron Codalunga.»
Iliaster scosse il capo e sputò per terra. «Be’, io non ce lo porto» disse. «Vale più di tutta la mia vita, quel viaggio. Voi parla-coi-ratti siete sempre stati buoni con me, ma là non ci posso andare. Lo sapete.»
Lord Parla-coi-Ratti annui. Ripose lo stiletto.
Quindi fece a Richard un sorriso sdentato. «Non sai quanto sei stato fortunato, poco fa» disse.
«Si, lo so» rispose Richard. «Eccome se lo so.»
«No,» disse l’uomo «non lo sai. Eccome se non lo sai.» E scosse il capo, ripetendo ’Rattino!’ tra sé.
Lord Parla-coi-Ratti prese sottobraccio Iliaster, e i due si allontanarono quanto bastava per non farsi udire. Poi cominciarono a discutere, lanciando nel frattempo occhiatacce a Richard.
La ragazzina magra stava ingurgitando una delle banane di Richard in quello che egli ritenne l’utilizzo gastronomicamente meno erotico possibile del frutto in questione.
«Sai, quella doveva essere la mia colazione» disse Richard.
Assunse un’espressione colpevole.
«Io mi chiamo Richard, e tu?»
La ragazza che, a un esame più approfondito, sembrava essersi mangiata quasi tutta la frutta che Richard aveva portato con sé, alzò gli occhi con aria imbarazzata. Poi fece un mezzo sorrisino e disse qualcosa che dal suono pareva molto simile ad Anestesia.
«Avevo fame» disse lei. «Be’, anch’io» commentò lui.
La ragazza diede un’occhiata ai piccoli fuochi intorno alla stanza. Poi si rivolse di nuovo a Richard. «Ti piace il gatto?» chiese.
«Si» rispose Richard. «Mi piacciono molto i gatti.» Anestesia parve sollevata. «Petto o coscia?» domandò.
La ragazza di nome Porta attraversò a piedi la corte, seguita dal Marchese de Carabas.
C’erano centinaia di altre piccole corti come questa a Londra, di vicoli e cortiletti per le scuderie, minuscole tracce del tempo che fu, immutate da trecento anni. Anche la puzza di urina era la stessa che riportavano le cronache di Samuel Pepys.
Mancava ancora un’ora all’alba, ma il cielo iniziava a rischiarare, per diventare di un intenso colore plumbeo.
La porta era malamente ricoperta di assi e di sudici manifesti di gruppi musicali dimenticati e locali notturni chiusi da tempo.
Si fermarono davanti alla porta e il Marchese la fissò, tutta assi, chiodi e manifesti com’era, e parve assolutamente indifferente.
«Perciò l’entrata è questa?» chiese.
Lei annui. «Una delle entrate.»
Lui incrociò le braccia. «Be’? Di’ apriti sesamo o quello che devi dire.»
«Non voglio farlo» rispose. «Non sono sicura che stiamo facendo la cosa giusta.»
«Molto bene» distese le braccia e le fece un inchino. «Ci vediamo, allora.»
Cominciò a incamminarsi per la strada da cui erano venuti. Porta gli afferrò il braccio. «Mi abbandoni cosi?» chiese. «Come se niente fosse?»
Lui fece un largo sorriso, per nulla divertito. «Certo. Sono un uomo molto impegnato. Ho cose da fare. Persone da vedere.»
«Senti, aspetta.» Gli lasciò la manica, mordendosi il labbro inferiore. «L’ultima volta che sono stata qui…» la voce si spense.
«L’ultima volta che sei stata qui hai trovato i tuoi familiari morti. Bene, ecco fatto. Non dovrai spiegarlo di nuovo. Se non entriamo, il nostro rapporto di lavoro è da considerarsi concluso.»
Alzò lo sguardo verso di lui, il viso pallido nella luce che precede l’alba. «Ed è tutto?»
«Potrei augurarti buona fortuna per la tua futura carriera, ma temo di dover dubitare del fatto che vivrai abbastanza a lungo da averne una.»
«Sei proprio senza ritegno, vero?»
Lui non rispose.
La ragazza ritornò alla porta. «D’accordo» disse. «Vieni, entriamo.»
Porta appoggiò la mano sinistra sulla porta inchiodata e con la destra strinse la manona scura del Marchese. Delle minuscole dita si intrecciarono ad altre più grandi. Chiuse gli occhi.
… Qualcosa sussurrava e tremava e mutava…
… E la porta crollò nell’oscurità…
Il ricordo era recente, pochi giorni soltanto. Porta si aggirava nella Casa Senza Porte gridando «Sono a casa!» e «C’è nessuno?» Era scivolata con circospezione dall’anticamera in sala da pranzo, in biblioteca, in salotto: nessuna risposta. Non c’era nessuno da nessuna parte. Si trasferì in un ’altra stanza.
La piscina era una struttura vittoriana al coperto, costruita in marmo e ghisa. Suo padre l’aveva trovata da giovane, abbandonata e sul punto di essere demolita, e l’aveva inserita nell’impianto della Casa Senza Porte.
Porta non aveva idea di dove si trovassero le varie stanze della casa, flsicamente. Era stato suo nonno a costruirla, prendendo una camera qui e una là in tutta Londra, stanze separate e prive di porte.
Camminava lungo il bordo della vecchia piscina, contenta di essere a casa. Poi guardò verso il basso.
C’era qualcuno che galleggiava sull’acqua e lasciava dietro di sé due nuvolette gemelle di sangue, una dalla gola, l’altra dall’inguine. Era suo fratello, Arco. Aveva gli occhi spalancati e ciechi.
Si rese conto di avere aperto la bocca. Poteva sentirsi urlare.
«Che male» disse il Marchese. Si massaggiò energicamente la fronte e girò la testa come cercando di alleviare un improvviso attacco di torcicollo.
«È per i ricordi» spiegò Porta. «Sono impressi nei muri.»
Lui sollevò un sopracciglio. «Avresti dovuto avvertirmi.»
«Si» rispose. «Giusto.»
Si trovavano in un’ampia sala bianca. I muri erano tutti coperti di quadri. Ogni quadro rappresentava una stanza diversa.
«Décor interessante» riconobbe il Marchese.
«È il salone d’ingresso. Da qui si può entrare in ogni stanza della Casa. Sono tutte collegate.»
«Dove sono situate le altre camere?»
Porta scosse il capo. «Non lo so. A chilometri da qui, probabilmente. Sono sparse in tutto il Mondo di Sotto.»
Il Marchese era riuscito a coprire l’intera stanza con una serie di lunghi passi impazienti. «Davvero notevole. Una casa associativa, in cui ogni stanza è collocata da un’altra parte. Davvero immaginativa. Tuo nonno era un uomo dalle grandi visioni, Porta.»
«Non l’ho mai conosciuto.» Deglutì, poi riprese, parlando a se stessa quanto a lui, «Avremmo dovuto essere al sicuro qui. Non avrebbe dovuto esserci per nessuno la possibilità di farci del male. Solo la mia famiglia poteva andare in giro per la casa.»
«Speriamo che il diario di tuo padre ci fornisca qualche indizio» commentò il Marchese. «Da dove cominciamo a cercare?»
Si strinse nelle spalle.
«Sei sicura che tenesse un diario?»
Annui. «Era solito andare nel suo studio e isolare i collegamenti finché aveva finito di dettare.»
«Allora cominceremo dallo studio.»
«Ma ci ho guardato. L’ho fatto. Ci ho guardato. Quando stavo ricomponendo il corpo…» E cominciò a piangere, con singhiozzi bassi e rabbiosi, che parevano emergere a fatica dal profondo del cuore.
«Su. Su» disse il Marchese de Carabas, in maniera un po’ goffa, dandole una pacca sulle spalle. Poi, per buona misura, aggiunse, «Su.»
Non era un gran che come confortatore di afflitti.
Gli occhi dallo strano colore di Porta erano colmi di lacrime. «Puoi… puoi concedermi solo un secondo? Starò benissimo.»
Lui annui e camminò fino al punto più lontano della sala. Quando si voltò a guardarla, era ancora là, tutta sola, che si stagliava contro il bianco salone d’ingresso, pieno di quadri di stanze, e si stringeva in un abbraccio solitario, tremando e piangendo come una bambina.
Richard era ancora turbato per avere perso la borsa.
Lord Parla-coi-Ratti non aveva ceduto di una virgola. Aveva sentenziato baldanzoso che il ratto — Padron Codalunga — non aveva assolutamente parlato di restituire a Richard le sue cose. Aveva solo detto di accompagnarlo al mercato.
Poi aveva comunicato a Anestesia che sarebbe spettato a lei di portare l’uomo del Mondo di Sopra al mercato e che, si, era un ordine. E che era ora di smettere di piagnucolare e il momento di mettersi in marcia.
A Richard aveva detto che se lui, Lord Parla-coi-Ratti, l’avesse visto di nuovo, lui, Richard, si sarebbe trovato in guai davvero grossi.
Aveva ribadito che non aveva idea di quanto fosse stato fortunato e, ignorando le sue richieste perché gli restituisse la roba — o almeno il portafogli — li accompagnò a una porta, che poi chiuse a chiave dietro di loro.
Richard e Anestesia camminarono fianco a fianco nel buio.
Lei portava una lampada improvvisata costruita con una candela, una lattina, del filo e una vecchia bottiglietta di tamarindo. Richard si sorprese della rapidità con cui i suoi occhi si adeguarono alla semioscurità. Sembrava stessero passando attraverso una serie di volte sotterranee. In qualche occasione gli parve di cogliere un movimento, negli angoli più lontani delle volte, ma che si trattasse di essere umani, ratti o chissà che altro, quando arrivavano nel luogo in cui si era verificato il guizzo, non c’era più nulla.
Quando tentò di parlare di quei movimenti con Anestesia, lei lo zitti con un sibilo.
Senti una folata gelida sul viso. Di punto in bianco la ragazza-ratto si acquattò, appoggiò a terra la lampada-candela e si mise a tirare e strattonare con forza una grata di metallo fissata nel muro, che si apri di colpo, mandandola a gambe all’aria.
Fece cenno a Richard di entrare.
Lui si chinò e procedette lentamente attraverso il foro nel muro. Dopo una trentina di centimetri, il pavimento finiva.
«Scusa» bisbigliò Richard. «C’è un buco qui.»
«Non è un gran dislivello» gli disse. «Va’ avanti.»
Richiuse la grata dietro di sé. Adesso si trovava scomodamente vicina a Richard. Lui procedette piano, nell’oscurità. Quindi si fermò.
«Tieni» disse la ragazza, dandogli da reggere il manico della piccola lampada, e saltò giù nel buio.
«Ecco» disse. «Non era poi tanto terribile, vero?» Il suo viso si trovava circa un metro al di sotto dei piedi ciondolanti di Richard. «Forza, passami la lampada.»
La abbassò verso di lei, che dovette saltare per afferrarla.
«Bene» bisbigliò. «Vieni.»
Scavalcò il ciglio, rimase sospeso un istante, poi si lasciò andare. Atterrò con mani e piedi nel fango soffice e umido. Si tolse il fango dalle mani pulendole sul maglione.
Pochi passi più in là, Anestesia apri un’altra porta.
La attraversarono, e lei se la chiuse alle spalle.
«Possiamo parlare, adesso» disse. «Non ad alta voce, però possiamo parlare. Se vuoi.»
«Oh. Grazie» fece Richard. Non gli veniva in mente niente da dire. «Perciò… hmmm… tu sei un ratto, è cosi?» chiese.
Lei ridacchiò. «Magari fossi cosi fortunata. Mi piacerebbe. No, io sono una parla-coi-ratti. Noi parliamo ai ratti.»
«Cioè, chiacchierate e basta?»
«Oh, no. Facciamo delle cose per loro. Voglio dire,» e il tono della sua voce sottintendeva che Richard non ci sarebbe mai arrivato da solo a capirlo, «ci sono delle cose che i ratti non possono fare, sai. Voglio dire, non avendo le dita, il pollice, e, insomma, cose. Aspetta…»
Lo spinse contro il muro, all’improvviso, e gli tappò la bocca con una mano sudicia. Quindi spense la candela.
Non accadde nulla.
Poi Richard udì delle voci lontane.
Aspettarono.
Delle persone passarono loro accanto e li superarono, parlando a bassa voce.
Quando ogni suono fu spento, Anestesia gli tolse la mano dalla bocca, riaccese la candela e proseguirono.
«Chi erano?» chiese Richard.
Lei fece spallucce. «Non importa» rispose.
«E allora cosa ti fa pensare che non sarebbero stati contenti di vederci?»
Lo guardò con aria alquanto triste, come una mamma che cerca di spiegare al suo piccino che, si, anche quella fiamma scotta. Tutte le fiamme scottano. Fidati, per favore.
«Vieni» disse. «Conosco una scorciatoia. Possiamo fare un salto a Londra Sopra. Per un pochino.»
Salirono alcuni gradini di pietra, e la ragazza spinse una porta, che si apri. La attraversarono e questa si richiuse alle loro spalle.
Richard si guardò intorno, perplesso.
Si trovavano sull’Embankment, l’argine del Tamigi. Era ancora notte — o forse era di nuovo notte. Non sapeva per quanto tempo avessero camminato nel sottosuolo e nell’oscurità.
La luna non si vedeva, ma il cielo era una profusione di nitide e scintillanti stelle autunnali. Anche i lampioni erano accesi, e cosi le luci su ponti e palazzi, che parevano astri terreni e brillavano riflessi nelle acque del Tamigi.
È il paese delle fate, pensò Richard.
Anestesia spense la candela.
«Sei certa che sia la strada giusta?»
«Si» rispose lei. «Certissima.»
Si stavano avvicinando a una panchina, e non appena ci posò sopra gli occhi, a Richard parve fosse uno degli oggetti più desiderabili che avesse mai visto. «Possiamo sederci?» domandò.
Lei si strinse nelle spalle, e si sedettero agli estremi opposti della panchina.
«Fino a venerdì» disse Richard «lavoravo da uno dei migliori analisti finanziari di Londra.»
«Che cosa fa un analista eccetera?»
«Lavora.»
Lei annui soddisfatta. «Bene. E…?»
«In realtà lo stavo solo ricordando a me stesso. Ieri… era come se non esistessi più per nessuno, qui sopra.»
«E perché è cosi» spiegò Anestesia.
Una coppia di nottambuli, che si era mossa nella loro direzione camminando lentamente lungo l’argine, tenendosi per mano, aveva preso posto sulla panchina, nel mezzo, proprio tra Richard e Anestesia. I due avevano cominciato a baciarsi, appassionatamente.
«Scusate» disse loro Richard.
L’uomo aveva infilato una mano sotto al maglione della donna e la muoveva in qua e in là con grande entusiasmo, un viaggiatore solitario alla scoperta di un continente inesplorato.
«Rivoglio la mia vita» disse Richard alla coppia.
«Ti amo» disse l’uomo alla donna.
«Ma tua moglie…» fece lei, dandogli una leccatina vicino all’orecchio.
«Che vada a scopare il mare» rispose l’uomo.
«Non mi frega di quello che si scopa lei» commentò la donna con una risatina da ubriaca. «Basta che io possa scoparmi te…» Gli mise una mano tra le cosce e ridacchiò più forte.
«Andiamo» disse Richard a Anestesia, sentendo che la panchina cominciava a diventare un luogo meno piacevole, quindi si alzarono e si allontanarono. Incuriosita, Anestesia si voltò a sbirciare la coppia che stava gradualmente assumendo una posizione sempre più orizzontale.
Richard non disse nulla.
«Qualcosa non va?» chiese Anestesia.
«Assolutamente tutto» rispose Richard. «Hai sempre vissuto di sotto?»
«No. Sono nata qui» esitò. «Non credo ti interessi sapere di me.»
Richard si rese conto, con una certa sorpresa, che invece gli interessava. «Sbagli.»
La ragazza si mise a giocherellare con le perline di quarzo infilate nella collana che aveva al collo, poi iniziò a parlare, senza guardarlo.
«La mamma ha avuto me e le mie sorelle, ma è diventata un po’ strana nella testa. La signora è venuta e si è presa cura delle mie sorelle, e io sono andata a stare da mia zia. Lei viveva con quel tizio. Mi faceva sempre male. Faceva delle cose. L’ho detto alla zia e lei mi ha picchiata. Diceva che mentivo. Diceva che mi portava dalla polizia. Ma io non mentivo. Perciò sono scappata. Era il giorno del mio compleanno.»
Avevano raggiunto l’Albert Bridge, più che un ponte un monumento kitsch da cui pendevano migliaia di lucine gialle.
«Faceva cosi freddo» continuò Anestesia, poi fece una pausa. «Dormivo per strada. Dormivo di giorno, quando faceva un pochino più caldo, e andavo in giro di notte, tanto per muovermi. Avevo undici anni. Per mangiare rubavo il pane e il latte davanti alle case. Odiavo farlo. Giravo nelle strade dei mercati e prendevo le mele marce e le arance e le cose che gli altri buttavano. Vivevo sotto un cavalcavia a Notting Hill. Poi mi sono ammalata per davvero. Quando sono rinvenuta ero a Londra Sotto. Mi avevano trovata i ratti.»
«Hai mai cercato di ritornare a tutto questo?» chiese, indicando le case silenziose, calde e deserte. Le auto nella notte. Il mondo reale…
Scosse il capo. Tutte le fiamme scottano, piccolino. Imparerai. «Non puoi. O uno o l’altro. Nessuno li ha tutti e due.»
«Mi dispiace» disse Porta con voce esitante. Aveva ancora gli occhi rossi.
Il Marchese, che si era divertito giocando un gioco degli astragali con delle ossa e delle monete antiche, la guardò. «Davvero?»
Si mordicchiò il labbro inferiore. «No. Veramente no. Non mi dispiace. Ho corso e mi sono nascosta e ho corso cosi tanto che… questa è stata la prima occasione per…» Si interruppe.
Il Marchese raccolse le monete e le ossa e le ripose in una delle sue tante tasche.
«Dopo di te» disse.
La segui di nuovo alla parete di quadri. Lei appoggiò una mano sull’immagine dello studio di suo padre, e con l’altra afferrò la manona del Marchese.
… La realtà si alterava…
Erano nella serra a bagnare le piante.
Entrata aveva un pìccolo annaffiatoio tutto per lei. Ne era cosi fiera. Era proprio uguale a quello della mamma.
Cominciò a ridere, una risata spontanea, da bambina.
E anche sua madre si mise a ridere, finché mister Croup la tirò forte per i capelli, un colpo secco e improvviso, e le tagliò la gola da un orecchio all’altro.
«Ciao, papà» disse Porta sommessamente.
Sfiorò il busto del padre con le dita, accarezzandogli una guancia. Un uomo magro, ascetico, quasi calvo. Cesare come Prospero, pensò il Marchese de Carabas. Non si sentiva molto bene. Quell’ultima immagine era stata dolorosa.
Quadro: studio di Lord Portico. Quello era un inizio.
Osservò la stanza, gli occhi che passavano da un dettaglio all’altro. Il coccodrillo impagliato che pendeva dal soffitto; i libri, un astrolabio, specchi, curiosi strumenti scientifici; sui muri c’erano delle mappe; una scrivania, coperta di lettere.
La parete bianca dietro la scrivania era deturpata da una macchia rosso-marrone.
Sulla scrivania c’era un piccolo ritratto della famiglia di Porta. Il Marchese lo studiò attentamente.
«Tua madre e tua sorella. Tuo padre. E tuo fratello. Tutti morti. E tu, come sei riuscita a salvarti?»
Abbassò la mano. «Sono stata fortunata. Ero andata in esplorazione per qualche giorno… sapevi che ci sono ancora dei soldati romani accampati vicino al fiume Kilburn?»
Il Marchese non lo sapeva, e la cosa lo metteva di malumore. «Hmm. Quanti?»
Lei si strinse nelle spalle. «Poche decine. Erano disertori dalla diciannovesima legione, credo. Il mio latino è un po’ approssimativo. Comunque, quando sono tornata qui…»
Fece una pausa e deglutì, gli occhi dallo strano colore colmi di lacrime.
«Ricomponiti» disse bruscamente il Marchese. «Ci serve il diario di tuo padre. Dobbiamo scoprire chi è stato.»
Lo guardò con disapprovazione. «Sappiamo già chi è stato: Croup e Vandemar…»
Lui allargò una mano, e parlò agitando le dita. «Loro sono braccia. Mani. Dita. Ma c’è un cervello dietro a tutto questo, e vuole morta anche te. Quei due non costano certo poco.»
Si guardò intorno nello studio in disordine.
«Il suo diario?» domandò il Marchese.
«Non è qui» rispose Porta. «Te l’ho detto. Ho guardato.»
«Avevo l’errata convinzione che la tua famiglia fosse particolarmente abile nell’individuare aperture, evidenti oppure no.»
Lei lo guardò in cagnesco. Poi chiuse gli occhi e mise pollice e indice ai lati del proprio dorso nasale.
Il Marchese esaminò gli oggetti sulla scrivania di Portico. Un calamaio; un pezzo degli scacchi; un dado in osso; un orologio d’oro da taschino; svariate penne d’oca e…
Interessante.
Era una statuina che rappresentava un cinghiale, o un orso accucciato, o forse un toro. Difficile a dirsi. Aveva le dimensioni di un pezzo degli scacchi piuttosto grande ed era stato intagliato grossolanamente in un blocco di ossidiana nera. Gli ricordava qualcosa, ma non avrebbe saputo dire cosa.
Lo prese in mano, lo voltò. Lo avvolse con le proprie dita.
Porta abbassò la mano. Pareva perplessa e confusa.
«Cosa c’è?» domandò il Marchese.
«È qui» rispose, semplicemente. Iniziò a camminare su e giù per lo studio, la testa piegata ora da un lato ora dall’altro.
Il Marchese fece scivolare la statuina in una tasca interna.
Porta era in piedi davanti a un mobiletto alto. «Qui» disse. Allungò la mano: si udi un click e si apri un piccolo pannello laterale. Porta infilò la mano nella cavità buia, e ne estrasse qualcosa all’incirca della forma e delle dimensioni di una palla da cricket. La passò al Marchese.
Era una sfera, realizzata in ottone antico e legno pregiato, con inserti in rame lucido e lenti di vetro.
Gliela tolse di mano.
«È questo?»
Lei annui.
«Ottimo.»
Aveva un’aria seria. «Non so come ho fatto a non trovarlo prima.»
«Eri sconvolta» disse il Marchese. «Ero certo che fosse qui. E io mi sbaglio cosi di rado. Ora…» e sollevò il piccolo globo di legno. La luce colpi i vetri e rimbalzò dal rame all’ottone.
Gli scocciava moltissimo, ma lo disse comunque: «Come funziona?»
Anestesia aveva portato Richard in un piccolo parco sull’altro lato del ponte, poi gli aveva fatto scendere dei gradini di pietra accanto a un muro. Aveva riacceso la candela e aperto una porta di servizio, che si era poi richiusa alle spalle.
Scesero alcuni scalini, circondati dall’oscurità.
«C’è una ragazza che si chiama Porta» disse Richard. «È poco più giovane di te. La conosci?»
«Lady Porta. So chi è.»
«Quindi, a quale, hmm, baronia appartiene?»
«Nessuna baronia. È della casata degli Arch. La sua famiglia era molto importante.»
«Era? Perché non lo è più?»
«Qualcuno li ha uccisi.»
Già, ricordava che il Marchese aveva detto qualcosa al riguardo.
Un ratto attraversò loro la strada. Anestesia si fermò sui gradini e fece un profondo inchino. Il ratto indugiò un attimo.
«Sire» disse la ragazza.
«Ciao» fece Richard.
Il ratto li guardò il tempo di un battito di ciglia e si lanciò giù dalle scale.
«Allora» disse Richard. «Cos’è un mercato fluttuante?»
«E molto grande» rispose Anestesia. «Ma i parla-coi-ratti non ci vanno quasi mai. A dire la verità…» Esitava a continuare. «No. Rideresti di me.»
«No di certo» disse Richard, convinto.
«Be’,» disse la ragazza magra «ho un po’ di paura.»
«Paura? Del mercato?»
Erano arrivati in cima alla scala. Anestesia era indecisa, poi girò a sinistra. «Oh, no. Durante il mercato c’è l’armistizio. Se uno fa del male a un altro, tutta Londra Sotto gli si riversa addosso come una tonnellata di acqua di scarico.»
«E allora di cosa hai paura?»
«Di arrivarci. Lo tengono ogni volta in un posto diverso. Si sposta. E per arrivare nel posto dove sarà stasera…» prese a giocherellare nervosamente con le perline di quarzo che aveva al collo. «Dovremo attraversare un quartiere proprio brutto.» Sembrava davvero spaventata.
Richard represse l’istinto di passarle un braccio intorno alle spalle.
«E dove sarebbe?» chiese.
Si voltò verso di lui, si tolse i capelli dagli occhi e disse, «Night’s Bridge, il ponte della notte.»
«Vorrai dire Knightsbridge, il ponte dei cavalieri» ribadì Richard, mettendosi a ridacchiare piano per quella pronuncia che falsava il senso.
Lei si allontanò seccata. «Visto?» disse. «L’avevo detto che avresti riso.»
I tunnel profondi erano stati costruiti negli anni Venti per un tratto ad alta velocità della Northern Line. Durante la seconda guerra mondiale, le truppe acquartierate là erano migliaia, e i loro rifiuti dovevano essere pompati al livello superiore, cioè quello delle fogne, con l’aria compressa: entrambi i lati dei tunnel erano stati ricoperti da letti a castello di metallo. Al termine della guerra i letti a castello rimasero dov’erano, e sulle loro basi di rete vennero ammassate delle scatole di cartone, ognuna delle quali conteneva lettere, schedari e carte: segreti del tipo più stupido, depositati giù in fondo per essere dimenticati.
Il sistema economico aveva fatto chiudere definitivamente i tunnel profondi nei primi anni Novanta. Le scatole con i segreti erano state rimosse, per essere conservate nei computer, fatte a pezzi o bruciate.
Varney abitava nella parte più profonda dei tunnel profondi, molto, molto al di sotto della metropolitana di Camden Town. Aveva impilato i letti a castello davanti all’unica entrata, quindi aveva realizzato delle decorazioni. A Varney piacevano le armi. Se le costruiva da solo, utilizzando ciò che riusciva a trovare, a prendere o a rubare. Pezzi di auto e di macchinari venivano trasformati in uncini, coltelli a serramanico, balestre e baliste, piccoli mangani e trabocchi per rompere i muri, clave, spadoni e mazze ferrate. Se ne stavano appese alle pareti del tunnel profondo, oppure appoggiate in un angolo, con aria cattiva.
Varney aveva l’aspetto di un toro, se si riesce a immaginare un toro rasato, senza corna, ricoperto di tatuaggi e i cui denti avessero subito un crollo totale. E russava anche.
La lampada a olio accanto alla testa aveva la fiammella al minimo. Varney dormiva su un mucchio di stracci, russando e tirando su col naso, con l’elsa di una spada a due lame appoggiata al suolo a portata di mano.
Una mano fece aumentare l’intensità della lampada a olio.
Varney teneva stretta la spada a due lame prima ancora di avere aperto gli occhi. Sbatté le palpebre, guardandosi intorno. Non c’era nessuno: niente aveva scomposto la pila di letti a castello che bloccava la porta. Cominciò ad abbassare la spada.
Una voce disse, «Psst.»
«Eh?» fece Varney.
«Sorpresa!» disse mister Croup entrando nel cerchio di luce.
Varney fece un passo indietro: grosso errore. Si trovò un coltello alla tempia, con la punta della lama accanto all’occhio.
«Non sono consigliati ulteriori movimenti» disse mister Croup, servizievole. «A mister Vandemar potrebbe accadere di avere un piccolo incidente con il suo vecchio infilza-rane. La maggior parte degli incidenti si verifica tra le mura domestiche. Non è forse vero, mister Vandemar?»
«Non credo alle statistiche» rispose la voce di mister Vandemar. Una mano guantata si protese alle spalle di Varney, gli piegò la spada e la lasciò cadere, deformata e ritorta, al suolo.
«Come stai, Varney?» chiese mister Croup. «Bene, c’è da augurarsi! È cosi? In piena forma, con fiocchi e controfiocchi, pronto per il mercato di stasera? Sai chi siamo?»
Varney fece la cosa più simile a un cenno di consenso che non implicasse il movimento di alcun muscolo. Sapeva chi erano Croup e Vandemar.
Con gli occhi scrutava le pareti. Eccola li: la stella del mattino, la mazzafrusto: una sfera di legno munita di punte, ornata di chiodi, appesa a una catena, nell’angolo estremo della stanza…
«Si dice che una certa giovane signora concederà un’audizione per guardie del corpo, questa sera. Hai pensato di presentarti per il posto?» mister Croup si stuzzicò i denti. «Enuncia con chiarezza.»
Con la forza della mente, Varney sollevò la stella del mattino. Era la sua specialità. Piano, ora… dolcemente… La tolse dal gancio e la spinse in alto verso la cima dell’arco del tunnel…
Con la bocca, disse, «Varney è il miglior bravo e guardia del corpo del Mondo di Sotto. Dicono che sono il migliore dai tempi di Hunter.»
Varney posizionò mentalmente la stella del mattino nell’ombra al di sopra e dietro la testa di mister Croup.
Per prima cosa spaccherà il cranio di Croup, poi passerà a Vandemar…
La stella del mattino precipitò verso la testa di mister Croup: Varney si gettò in basso, lontano dalla lama di coltello che gli pesava sull’occhio.
Mister Croup non guardò in alto. Non si voltò. Si limitò a spostare la testa, con una rapidità oscena, e la stella del mattino lo superò andando a fracassarsi a terra, spargendo intorno schegge di mattone e cemento.
Mister Vandemar afferrò Varney con una mano. «Gli faccio male?» chiese al suo socio.
Mister Croup scosse il capo: non ancora. A Varney disse, «Tentativo passabile. Quindi, ’miglior bravo e guardia del corpo’, vogliamo che tu stasera vada al mercato. Vogliamo che tu faccia ciò che serve per diventare la guardia del corpo personale di quella certa giovane signora. Poi, quando hai avuto il posto, c’è una cosa che non devi dimenticare. Puoi anche proteggerla dal resto del mondo ma quando siamo noi a volerla, noi ce la prendiamo. Capito?»
Varney si passò la lingua sui suoi ruderi di denti.
«Mi state corrompendo?» chiese.
Mister Vandemar aveva sollevato la stella del mattino. Con la mano libera stava smontando la catena, anello dopo anello, e lasciava cadere a terra i pezzi di metallo contorto. Tink.
«No» rispose mister Vandemar. Tink. «Ti stiamo intimidendo.» Tink. «E se non fai quello che dice mister Croup, noi ti…» tink «… faremo male…» tink «… molto male, prima di…» tink «… ucciderti, anche peggio.»
«Ah» fece Varney. «Allora lavoro per voi, non è cosi?»
«Si, è cosi» disse mister Croup. «Mi spiace dirlo, ma purtroppo non abbiamo lati positivi.»
«Questo non mi preoccupa» disse Varney.
«Bene» disse mister Croup. «Benvenuto a bordo.»
Si trattava di un marchingegno molto elegante, realizzato in legno di noce, ottone e vetro, rame e specchi, avorio intagliato e intarsiato, prismi di quarzo e ingranaggi di ottone, molle e ruote dentate. Il tutto risultava più grande di un televisore, benché lo schermo vero e proprio non superasse i 15 centimetri. Era una lente d’ingrandimento sullo schermo stesso ad aumentare le dimensioni dell’immagine.
Dal lato sporgeva una grande tromba di ottone, simile a quelle che si trovano sui vecchi grammofoni. Il meccanismo aveva l’aspetto che avrebbe avuto un insieme di televisore e videoregistratore se gli stessi fossero stati inventati e costruiti trecento anni prima da Sir Isaac Newton. Cosa che non si distaccava poi molto dalla realtà.
«Guarda» disse Porta.
Appoggiò la sfera di legno su una piattaforma. Delle luci attraversarono la macchina e illuminarono la sfera, che cominciò a girare e rigirare su se stessa.
Sul piccolo schermo apparve un viso aristocratico, vividamente colorato. Lievemente fuori sincrono, dalla tromba usci una voce crepitante, nel mezzo di un discorso.
«… Che due città debbano essere cosi vicine e tuttavia in ogni cosa tanto lontane; i possidenti sopra di noi, e gli spodestati, noi che viviamo al di sotto e nel mezzo, che abitiamo nelle fenditure.»
Porta fissava lo schermo, pallida in volto.
«… Eppure sono dell’opinione che ciò che rende mutilati, storpi, paralizzati noi abitanti del Mondo di Sotto sia la nostra gretta faziosità. Il sistema di baronie e feudi risulta divisivo e insensato.» Lord Portico indossava una giacca da casa vecchia e lisa, e una papalina. La sua voce sembrava giungere fino a loro attraverso i secoli, non risalire a poche settimane o giorni prima.
Tossì.
«Non sono il solo ad abbracciare tale convinzione. Ci sono alcuni che desiderano vedere le cose come stanno. Ci sono altri che desiderano che la situazione peggiori. Ci sono alcuni…»
«Puoi farlo andare più veloce?» domandò il Marchese.
Porta annui. Toccò una leva d’avorio posta di lato: l’immagine divenne poco più che un’ombra, si frammentò e si riformò.
Ora Portico indossava il cappotto. La papalina era sparita. Aveva un taglio profondo su un lato della fronte. Non era più seduto alla scrivania, e parlava con tono pressante e sommesso. «Non so chi vedrà questo, chi lo ritroverà. Ma chiunque siate, vi prego di portare questo a mia figlia, Lady Porta, se è ancora in vita…» Una scarica elettrostatica attraversò l’immagine e il sonoro.
«Porta? Ragazza mia, questo è male. Non so quanto tempo mi resta prima che scoprano questa stanza. Penso che la mia povera Ianua, tuo fratello e tua sorella siano morti.»
La qualità del suono e dell’immagine cominciava a peggiorare.
Il Marchese lanciò un’occhiata a Porta. Aveva il viso umido: le lacrime traboccavano dai suoi occhi, lasciando una scia lucente sulle guance. Sembrava non rendersi conto di stare piangendo e non tentava in alcun modo di asciugare le lacrime. Si limitava a fissare l’immagine del padre e ad ascoltarne le parole.
Scrack. Bzzz. Scrack. «Ascoltami, ragazza mia» le disse il padre morto. «Va’ da Islington… puoi fidarti di Islington… Credimi… Islington…»
Diventò un’ombra. Il sangue gli era sceso dalla fronte sugli occhi, e lo tolse con la mano. «Porta? Vendicaci. Vendica la tua famiglia.» Dalla tromba del grammofono si udì un forte bang. Portico voltò il capo verso qualcosa non inquadrato nello schermo. Aveva un’aria stupita e impaurita. «Cosa…?»
Usci dall’inquadratura. Per un istante l’immagine rimase immutata: la scrivania, il muro bianco dietro di essa. Poi un arco di sangue rosso acceso schizzò quel muro.
Porta diede un colpetto a una leva laterale, facendo diventare grigio lo schermo, e si girò dall’altra parte.
«Tieni.» Il Marchese le allungò un fazzoletto.
«Grazie.» Si asciugò il viso e si soffiò energicamente il naso. Poi si mise a fissare il vuoto. Alla fine, disse, «Islington.»
«Non ho mai avuto niente a che fare con Islington» disse il Marchese.
«Pensavo fosse solo una leggenda» commentò Porta.
«No di certo.»
Il Marchese si allungò sulla scrivania per prendere l’orologio d’oro da taschino e lo apri. «Ottima lavorazione» commentò.
Lei annui. «Era di mio padre.»
Richiuse il coperchio con un click. «È ora di andare al mercato. Comincia presto. Il Signor Tempo non ci è amico.»
Lei si soffiò di nuovo il naso, quindi affondò le mani nelle tasche della giacca di pelle. Poi si volse verso di lui, il faccino da elfo accigliato, gli occhi dallo strano colore e luminosissimi. «Sei davvero convinto che possiamo trovare una guardia del corpo in grado di affrontare Croup e Vandemar?»
Il Marchese le indirizzò uno sfolgorio di denti. «Dopo Hunter non c’è più stato nessuno con la benché minima possibilità. No, cercherò qualcuno che possa darti il tempo di scappare.»
Assicurò la catena dell’orologio al panciotto, lasciando scivolare l’orologio nell’apposito taschino.
«Cosa stai facendo?» chiese Porta. «Quello è l’orologio di mio padre.»
«Ma non lo usa più, vero? Ecco fatto. Piuttosto elegante, direi.» Osservò le emozioni alternarsi sul viso di lei: dolore, rabbia, rassegnazione.
«Andiamo» disse la ragazza.
«Il Ponte della Notte non è molto lontano da qui» disse Anestesia.
Richard si augurò che fosse vero. Erano alla terza candela, e si stupiva che fossero ancora sotto Londra: era pressoché convinto di aver percorso quasi tutta la strada per la Fine del Mondo.
«Ho proprio paura» continuò lei. «Non ho mai attraversato il ponte.»
«Mi pareva avessi detto che c’eri già stata al mercato.»
«È il Mercato Fluttuante, sciocco. Te l’ho già detto. Si sposta. Zone diverse. L’ultimo a cui sono andata si teneva in quella grande torre con le campane. Il Big… qualcosa. E quello dopo era…»
«Il Big Ben?»
«Forse. Eravamo all’interno dove girano tutte quelle ruote enormi, ed è stato li che ho preso questo…»
Gli mostrò la collana. Alla luce della candela i quarzi luccicanti mandarono bagliori giallastri. Lei sorrise, come una bambina.
«Ti piace?» chiese.
«È bellissima. L’hai pagata molto?»
«Ho dato della roba in cambio. È cosi che funzionano le cose qui sotto. Ci scambiamo la roba.»
Poi svoltarono un angolo e videro il ponte.
Avrebbe potuto essere uno dei ponti sul Tamigi, pensò Richard; un enorme ponte di pietra che si estende sopra un baratro, nella notte. Ma non c’era cielo sopra quel ponte, e non c’era acqua sotto.
Si innalzava nell’oscurità.
Richard si chiese chi l’avesse costruito e quando. Si chiese come era possibile che qualcosa del genere potesse esistere sotto la città di Londra, senza che nessuno lo sapesse.
Alle spalle di Richard si udì un brusio di voci.
Qualcuno gli diede uno spintone mandandolo lungo e disteso per terra. Alzò gli occhi. Un uomo gigantesco, rozzamente tatuato, vestito con abiti improvvisati di pelle e di gomma, che parevano ritagliati da un interno di automobile, lo osservava dall’alto in basso. Dietro a lui c’erano dozzine di persone, uomini e donne: persone che parevano dirette a una festa mascherata con costumi di infima qualità presi a nolo.
«Qualcuno» disse Varney, che non era dell’umore migliore, «mi stava tra i piedi. Qualcuno farebbe bene a guardare dove va.»
Una volta, da piccolo, mentre tornava da scuola, Richard aveva incontrato un ratto in un fosso a lato della strada. Vedendolo, il ratto si era sollevato sulle zampe posteriori, soffiando e saltando, e spaventando a morte Richard, che aveva indietreggiato, stupito che un essere cosi piccolo fosse pronto a lottare contro qualcosa tanto più grande.
Anestesia si mise in mezzo, tra Richard e Varney. Lanciò un’occhiata furiosa al gigante e cominciò a sibilare come un ratto arrabbiato messo alle strette. Varney fece un passo indietro.
Sputò sulle scarpe di Richard, dopo di che girò sui tacchi e il manipolo di persone si diresse sul ponte e nel buio.
«Tutto a posto?» chiese Anestesia, aiutando Richard a rimettersi in piedi.
«Sto bene» rispose. «Sei stata coraggiosissima.»
Lei guardò in basso, con aria timida. «Non sono davvero coraggiosa» disse. «Ho ancora paura del ponte. Anche quelli avevano paura. Ecco perché sono andati tutti insieme. L’unione fa la forza. Dei veri bulli!»
«Se dovete attraversare il ponte, vengo con voi» disse una voce femminile.
Richard non riusci mai a capire che accento avesse. In quel momento pensò fosse canadese o americano. In seguito ritenne che potesse essere africano, australiano o persìno indiano. Non riuscì mai a individuarlo.
Era una donna alta, con lunghi capelli color bruno fulvo e la pelle scura, come lo zucchero caramellato. Indossava indumenti di pelle chiazzata, grigia e marrone. Sulla spalla portava una sacca da viaggio in pelle alquanto vissuta.
Teneva in mano un bastone, aveva un pugnale alla cintura e una torcia elettrica legata al polso con una cinghia.
Era, senza alcun dubbio, la donna più bella che Richard avesse mai visto.
«L’unione fa la forza. Se desidera venire con noi, è la benvenuta» disse, dopo un istante di esitazione. «Mi chiamo Richard Mayhew, e questa è Anestesia. È quella di noi che sa cosa sta facendo.»
La ragazza-ratto gongolava.
La donna vestita di pelle lo osservò dalla testa ai piedi. «Vieni da Londra Sopra» gli disse.
«Si.»
«E vai in giro con una parla-coi-ratti. Perbacco!»
«Sono il suo guardiano» disse Anestesia con aria feroce. «E tu chi sei? A quale signore devi fedeltà?»
La donna sorrise. «Non devo fedeltà a nessun uomo, ragazza-ratto. Qualcuno di voi due ha già attraversato il Night’s Bridge, il temibile Ponte della Notte?»
Anestesia scosse il capo.
«Bene. Allora ci divertiremo, giusto?»
Procedettero verso il ponte.
Anestesia diede a Richard la lampada-candela. «Tieni» disse.
«Grazie.» Richard guardò la donna vestita di pelle. «C’è davvero qualcosa da temere? Cosa c’è sul Knightsbridge, o Night’s Bridge che sia cosi pericoloso?»
«Solo quello che hai detto.»
«Intendi un tipo in armatura?»
«Intendo quel tipo di armatura che cala quando finisce il giorno. Questo c’è da temere.»
La mano di Anestesia andò in cerca di quella di Richard, che la afferrò con forza, una piccola mano in una più grande. Lei gli sorrise e ricambiò la stretta.
Quindi misero piede sul ponte, e Richard iniziò a comprendere il buio: il buio come qualcosa di solido e reale.
Richard sentiva che gli sfiorava la pelle, cercando, spostandosi, esplorando: gli scorreva nella mente. Poi gli scivolò nei polmoni, dietro gli occhi, in bocca…
A ogni passo la luce della candela diventava più fioca. Si accorse che la stessa cosa stava accadendo anche alla torcia della donna vestita di pelle.
Buio, totale e assoluto.
Rumori. Un fruscio, un movimento inconsulto. Richard sbatté le palpebre, accecato dalla notte.
I suoni erano sempre più cattivi, più affamati. A Richard parve di udire delle voci: un’orda di giganteschi troll deformi, sotto il ponte…
Qualcosa nell’oscurità scivolò accanto a loro e li superò.
«Cos’è?» squitti Anestesia. La piccola mano tremava in quella più grande.
«Shh!» sussurrò la donna. «Non attirare la sua attenzione.»
«Che succede?» bisbigliò Richard.
«Il buio» spiegò con calma la donna vestita di pelle. «Tutti gli incubi che emergono al calare del sole, fin dai tempi delle caverne, quando ci si rannicchiava gli uni accanto agli altri alla ricerca di calore e sicurezza. Questo è il momento di avere paura dell’oscurità.»
Richard si rese conto che qualcosa gli stava strisciando sul viso. Chiuse gli occhi: tanto non faceva alcuna differenza rispetto a ciò che vedeva o sentiva. La notte era assoluta.
E fu allora che cominciarono le allucinazioni.
Vide una figura cadere verso di lui nella notte, in fiamme, le ali e i capelli che andavano a fuoco.
Sollevò le mani: li non c’era nulla.
Jessica lo guardò, il disprezzo negli occhi.
Avrebbe voluto gridarle qualcosa, dirle che gli dispiaceva.
Metti un piede dopo l’altro.
Era un bambino, pìccolo, che tornava a casa da scuola, dì notte, lungo una strada senza lampioni. Non importava quante volte l’avesse fatto, non diventava mai più facile, mai più piacevole.
Era in fondo alla fognatura, perso in un labirinto. La Bestia lo stava aspettando.
Poteva sentire un lento sgocciolio d’acqua. Sapeva che la Bestia aspettava. Afferrò saldamente la lancia… Poi un rombo, dal profondo della gola della Bestia, da dietro dì lui. Si voltò. Con lentezza, con angosciante, terrìbile lentezza, l’animale caricò, nell’oscurità.
E caricò.
Mentre lui moriva. Continuò a camminare.
Con lentezza, con angosciante, terribile lentezza, l’animale caricò, ancora e ancora, nell’oscurità…
Ci fu un crepitio, e un chiarore cosi forte da far male. Era la fiamma della candela, nel suo candelabro di bottiglietta di tamarindo. Non aveva mai fatto caso a quanta luce può produrre una singola candela. La sollevò con orgoglio.
«Sembra che abbiamo attraversato con successo» disse la donna vestita di pelle.
Richard si accorse che il cuore gli batteva all’impazzata, che non riusciva a parlare. Si costrinse a respirare lentamente per calmarsi.
«Suppongo» disse esitante «che non siamo mai stati veramente in pericolo. Era come il castello delle streghe… dei rumori nel buio. E l’immaginazione fa il resto. Non c’era niente da temere, vero?»
La donna lo guardò con aria di compatimento, e Richard si rese conto che nessuno gli teneva la mano.
«Anestesia?»
Dall’oscurità sulla cima del ponte giunse un rumore sommesso, come un fruscio o un sospiro. Una manciata di perline di quarzo scese ticchettando dalla curvatura del ponte, nella loro direzione.
Richard ne prese una. Veniva dalla collana della ragazza-ratto.
«Sarà meglio… Dobbiamo tornare indietro. È…»
La donna sollevò la torcia, illuminando il ponte. Richard poteva vederlo tutto, ed era deserto.
«Dov’è?»
«Andata» rispose la donna con tono piatto. «Se l’è presa il buio.»
«Dobbiamo fare qualcosa» disse Richard.
«Del tipo?»
Lui apri la bocca. La richiuse. Maneggiò il piccolo blocco di quarzo e osservò gli altri, a terra. «Non lo so.»
«È andata» ripeté la donna. «Il ponte si prende un pedaggio. Sii felice che non abbia preso anche te. Ora, se stai andando al mercato, è per di qua, da questa parte. Vieni?»
Richard rimase là al buio per alcuni istanti scanditi dai violenti battiti del suo cuore pesante, poi infilò nella tasca dei jeans la perlina di quarzo e segui la donna, che lo precedeva di qualche passo.
Nel seguirla gli venne in mente che ancora non conosceva il suo nome.