La gente scivolava e fluiva nell’oscurità circostante impugnando lampade, torce e candele. A Richard pareva uscita da un documentario sui branchi di pesci, che luccicano e si muovono repentini nell’oceano… Acque profonde, abitate da esseri che hanno perso l’uso degli occhi. Acque davvero troppo profonde…
Richard segui la donna vestita di pelle che aveva salito qualche gradino. Gradini dì pietra bordati di metallo. Si trovavano in una stazione della metropolitana.
Si unirono a un gruppo di persone in coda in attesa di scivolare attraverso una grata, aperta all’incirca per una trentina di centimetri per scoprire la porta che conduceva fuori, sul marciapiede.
Immediatamente davanti a loro c’era una coppia di ragazzi, molto giovani, che portavano entrambi un legaccio stretto intorno al polso. L’altro capo dei legacci era tenuto da un uomo pallido e calvo che puzzava di formaldeide. Appena dietro di loro, invece, c’era un uomo con la barba grigia e un micino bianco e nero sulla spalla. Il gattino si stava lavando tutto assorto, poi diede una leccatina all’orecchio dell’uomo, quindi gli si acciambellò sulla spalla e si mise a dormire.
La coda procedeva lentamente quando, una a una, le sagome che si trovavano in cima scivolavano nello spazio tra la grata e il muro e avanzavano nella notte.
«Perché vai al mercato, Richard Mayhew?» chiese con tono pacato la donna vestita di pelle.
«Spero di incontrare degli amici. Be’, una amica, a dire il vero. In realtà non conosco molte persone di questo mondo. In qualche modo stavo iniziando a conoscere Anestesia, ma…» la voce gli venne meno. Fece la domanda. «È morta?»
La donna si strinse nelle spalle. «Si. O come se. Spero che la tua visita al mercato dia un senso alla sua perdita.»
Richard rabbrividì. «Lo spero anch’io» disse.
Stavano arrivando alla fine della coda.
«Tu cosa fai?» le chiese.
Lei sorrise. «Vendo servizi fisici personali.»
«Oh» fece lui. Poi, «Che tipo di servizi fisici personali?»
«Affitto il mio corpo.»
«Ah.»
E uscirono nella notte.
Richard si voltò a dare un’occhiata. Il cartello sulla stazione del metrò diceva: Knightsbridge. Non sapeva se ridere o piangere. Sembrava fossero le prime ore del mattino. Richard abbassò lo sguardo sul suo orologio e vedere che i numeri digitali erano scomparsi lasciando uno spazio vuoto non lo sorprese affatto. Forse si erano esaurite le pile. Forse il tempo a Londra Sotto era solo un lontano parente del tipo di tempo a cui era abituato. Si slacciò l’orologio e lo lasciò cadere nel più vicino cestino per la spazzatura.
Lo strano assortimento di persone stava sciamando per attraversare la strada, oltrepassando le doppie porte di fronte a loro.
«Lì?» chiese, spaventato.
La donna annui. «Lì.»
L’edificio era molto grande e pieno di luci. Vistosi blasoni sul muro affermavano che erano in vendita articoli di ogni genere approvati da vari membri della famiglia reale. Richard, che nei fine settimana aveva trascorso parecchie ore con i piedi doloranti, arrancando al seguito di Jessica attraverso i negozi più illustri di Londra, l’avrebbe riconosciuto anche senza l’enorme insegna che ne proclamava l’identità:
«Harrods?»
Hunter annui. «Solo per questa sera» disse. «Il prossimo mercato potrà essere ovunque.»
«Si, ma insomma…» disse Richard «Harrods!»
Entrarono attraverso la porta laterale. La stanza era al buio. Superarono il bureau de change e il reparto pacchi regalo. Attraversarono un’altra sala buia dove si vendevano occhiali da sole e statuine. Poi entrarono nella Sala Egizia. Luci e colori colpirono Richard come un pugno in pieno petto. La sua compagna si voltò verso di lui: stava sbadigliando, come una gatta, il dorso della mano a nascondere il vivido rosa della bocca.
«Bene. Sei arrivato. Sano e, più o meno, salvo. Io ho degli impegni di lavoro, perciò addio.» Un rapido cenno del capo, ed era scomparsa tra la gente.
Richard rimase li, solo in mezzo alla calca, abbeverandosene.
Era follia pura. Di quello non c’era alcun dubbio.
Il rumore era molto forte. La gente discuteva, contrattava, gridava e cantava. Erano venditori ambulanti che mostravano la propria mercanzia, decantandone la superiorità. Si udiva della musica — una dozzina di generi musicali diversi, suonati in una dozzina di maniere diverse su altrettanti strumenti diversi, la maggior parte improvvisati, improbabili,, improponibili.
Richard sentiva odore di cibo. Di cibi di ogni tipo.
Le bancarelle erano state sistemate in tutto il negozio. Accanto, quando non sopra, a banconi dove durante il giorno erano stati venduti profumi, orologi, ambra o foulard di seta, i venditori notturni avevano installato i loro banchetti improvvisati.
Tutti compravano. Tutti vendevano.
Si aggirava per le immense stanze del grande magazzino come in trance, incapace persino di fare una stima approssimativa del numero di persone presenti al mercato: un migliaio? Duemila? Cinquemila?
Una bancarella era stipata fino all’inverosimile di bottiglie, bottiglie piene e vuote, bottiglie di ogni forma e dimensione; un’altra offriva lampade e candele; passò davanti a un chiosco dove si vendevano luccicanti gioielli in oro e argento, e a uno in cui la gioielleria pareva creata utilizzando pezzi di vecchie radio; c’erano banchi con ogni sorta di libri; altri che vendevano vestiti — rattoppati e nuovi, e strani; tatuatori; un dentista; un vecchio curvo che vendeva cappelli; qualcosa che somigliava molto a un albergo diurno; persino un fabbro…
Le bancarelle erano intervallate da venditori di cibarie. Alcuni cuocevano la propria merce sul fuoco vivo: pietanze al curry, patate, caldarroste, funghi, pane.
Richard si ritrovò a chiedersi come mai il fumo dei fornelli non facesse scattare il sistema antincendio. Poi si ritrovò a chiedersi come mai nessuno saccheggiasse il negozio: perché montare bancarelle proprie? Perché non prendere direttamente la roba del grande magazzino?
Nella gente che lo circondava c’era qualcosa di profondamente tribale, decise Richard. Cercò di individuare i diversi gruppi: c’erano quelli che parevano scappati da una recita in costume; quelli che gli ricordavano gli hippy; gli albini con abiti grigi e occhiali scuri; quelli raffinati e pericolosi, in completo elegante e guanti neri; le donne gigantesche e praticamente identiche che si aggiravano in gruppetti di due o tre e incontrandosi facevano un cenno d’intesa; quelli dai capelli arruffati che dall’aspetto sembravano proprio vivere nelle fogne e che puzzavano in maniera terribile; e centinaia di altri…
Si chiese come la Londra normale — la sua Londra — sarebbe apparsa a un alieno. E il pensiero lo rese spavaldo.
Continuando a camminare, cominciò a chiedere in giro:
«Mi scusi, sto cercando un uomo di nome de Carabas e una ragazza che si chiama Porta. Sa dove posso trovarli?»
La gente scuoteva il capo, distoglieva lo sguardo e si allontanava, scusandosi.
Richard fece un passo indietro e pestò il piede a qualcuno.
Qualcuno che superava di parecchio i due metri ed era ricoperto di ciuffetti di pelo rossiccio. Qualcuno i cui denti erano stati limati fino a diventare aculei appuntiti. Qualcuno che sollevò Richard con una mano grande quanto la testa di un montone e ne portò il viso cosi vicino alla bocca del suddetto qualcuno da farlo quasi vomitare.
«Sono davvero spiacente» disse Richard. «Io — io sto cercando una ragazza di nome Porta. Sa dove…»
Ma qualcuno lo lasciò ricadere sul pavimento e se ne andò.
Una zaffata di odori di cucina si diffuse in tutto il piano, e Richard, che era riuscito a dimenticare la fame (fin da quando aveva declinato l’offerta di una prelibata fetta di gatto arrosto, non sapeva più quante ore prima), si ritrovò con l’acquolina in bocca e i processi mentali avviati verso un lento e inesorabile blocco.
La donna dai capelli color ferro che gestiva il banchetto di cibo li accanto non gli arrivava alla cintola. Quando Richard provò a rivolgerle la parola, scosse il capo e si appoggiò un dito sulle labbra. Non poteva parlare, o non parlava, o non voleva. Richard si mise a mimare un negoziato per dei panini con formaggio e insalata e per quello che alla vista e all’olfatto sembrava un bicchiere di limonata fatta in casa.
Il cibo gli costò una biro e un pacchetto di fiammiferi che non ricordava di possedere.
La donnina doveva essere convinta di avere fatto decisamente un buon affare, perché quando gli diede quello che aveva chiesto aggiunse anche un paio di biscotti alle noci.
Ora Richard era in piedi in mezzo alla folla, ad ascoltare la musica — qualcuno, per un motivo che a lui sfuggiva completamente, stava cantando il testo di Greensleeves, una famosa canzone di epoca elisabettiana, sulle note di Yakkety-Yak — , a osservare il bizzarro bazaar che gli si svolgeva intorno e a mangiare i panini.
Mentre finiva l’ultimo boccone, si rese conto di non avere fatto per niente caso al sapore di quanto aveva appena ingurgitato, quindi decise di rallentare il ritmo e di masticare i biscotti con calma. Sorseggiò la limonata, facendola durare il più possibile.
«Le serve un uccello, signore?» domandò una voce briosa, molto vicina. «Ho corvi neri e corvi imperiali, cornacchie e storni. Uccelli belli, saggi. Gustosi e saggi. Fantastici.»
Richard rispose «No, grazie» e si voltò.
L’insegna dipinta a mano che si trovava sopra il banco diceva
Tutto intorno c’erano altri cartelli più piccoli: «LO VUOI, LO SO!» e «NON TROVERAI STORNI PIÙ CARNOSI!!!!» e anche «QUANDO È TEMPO DI CORVO, È TEMPO DI OLD BAILEY!!» Richard si scoprì a ripensare all’uomo-sandwich che aveva visto appena arrivato a Londra, che se ne stava all’uscita della stazione della metropolitana di Leicester Square con un cartello davanti e uno sulla schiena per esortare il mondo a una Minore Lussuria Con Meno Proteine, Uova, Carne, Fagioli, Formaggio e Vita Sedentaria. Uccelli saltellavano e sbatacchiavano le ali all’interno di gabbiette che parevano ricavate intrecciando antenne televisive.
«Informazioni, allora?» continuò Old Bailey, ravvivando la parlantina da venditore. «Mappe dei tetti? Storia? Notizie segrete e misteriose? Se non lo so io, probabilmente è meglio dimenticarsene. Ecco cosa dico sempre.»
Il vecchio indossava ancora il cappotto piumato, ed era avvolto in corde e funi. Guardò Richard di sottecchi, poi inforcò gli occhiali che teneva legati al collo con uno spago e lo osservò attentamente attraverso le lenti.
«Aspetta un attimo. Io ti conosco. Tu stavi col Marchese de Carabas. Sul tetto. Ricordi? Eh? Sono Old Bailey. Ti ricordi di me?» Allungò la mano e strinse quella di Richard, agitandola furiosamente su e giù.
«In realtà» disse Richard «sto proprio cercando il Marchese. E la giovane signora di nome Porta. Penso che probabilmente siano insieme.»
Il vecchio si mise a saltellare, cosa che provocò il distacco di alcune penne dal cappotto e un coro di rauca disapprovazione da parte dei numerosi uccelli che lo circondavano.
«Informazioni! Informazioni!» annunciò alla stanza affollata. «Visto? Gliel’avevo detto. Diversificare, avevo detto. Diversificare! Non puoi passare la vita a vendere corvi per stufato — comunque sanno sempre di ciabatte bollite. E sono cosi stupidi. Duri come il muro. Hai mai mangiato corvo?» Richard scosse il capo. Quella era una cosa di cui poteva essere certo, in ogni caso.
«Cosa mi dai?» chiese Old Bailey.
«Prego?» fece Richard, saltando goffamente da un banco all’altro.
«Se ti do l’informazione, che me ne viene?»
«Non ho soldi» rispose Richard. «E ho appena dato via la mia penna.»
Cominciò a vuotarsi le tasche.
«Ecco!» disse Old Bailey. «Quello!»
«Il mio fazzoletto?» domandò Richard. Si trattava di un fazzoletto non esattamente immacolato, regalo di zia Maude per il suo ultimo compleanno.
Old Bailey lo afferrò e se lo agitò festante sopra la testa.
«Non temere, ragazzo!» canticchiò trionfante. «La tua ricerca è alla fine! Vai laggiù, oltre quella porta. Non puoi non vederli. Stanno facendo l’audizione.»
Un corvo gracchiò malignamente.
«Fatti i becchi tuoi» gli disse Old Bailey. Mentre a Richard disse: «Grazie della bandierina!»
E prese a saltellare intorno alla bancarella, felice e contento, agitando il fazzoletto avanti e indietro.
L’audizione? pensò Richard. Poi sorrise. Non aveva importanza. La sua ricerca, come aveva detto il vecchio e pazzo uomo dei tetti, era alla fine.
Si diresse verso il Reparto Alimentari.
Lo stile, per le guardie del corpo, era tutto. A nessuna mancava una specialità di qualche tipo, e non vedevano l’ora di mostrarla al mondo.
In quel momento Ruislip era intento all’ingaggio contro il Damerino Senza Nome.
Il Damerino Senza Nome somigliava un po’ a un libertino dei primi anni del diciottesimo secolo, uno che non riuscendo a trovare dei veri abiti da libertino avesse dovuto arrangiarsi con quanto recuperato a una fiera di beneficenza. Aveva il viso incipriato di bianco e le labbra dipinte.
Ruislip, l’avversario di Damerino, era la rappresentazione del tipo di sogno che si potrebbe fare mentre ci si addormenta guardando un incontro di sumo alla televisione, con un disco di Bob Marley in sottofondo: un gigantesco Rasta che pareva in modo impressionante un bebé obeso e enorme.
Stavano faccia a faccia, nel mezzo di un cerchio formato da spettatori e altre guardie del corpo.
Nessuno dei due uomini muoveva un muscolo.
Il Damerino superava Ruislip di una testa buona. D’altra parte, Ruislip pesava almeno quanto quattro damerini messi assieme, anche se ognuno avesse portato una grossa valigia di pelle straripante di lardo.
Si fissavano, senza mai interrompere il contatto visivo.
Il Marchese de Carabas toccò la spalla di Porta e le fece un cenno. Stava per accadere qualcosa.
Due uomini, che si limitavano a guardarsi…
Poi la testa del Damerino oscillò all’indietro, come fosse stato colpito al volto. Un piccolo livido rosso-violaceo gli comparve sulla guancia. Increspò le labbra e sbatté le ciglia.
«Oh!» disse, quindi distese al massimo le labbra imbellettate, nell’agghiacciante parodia di un sorriso. Gesticolò.
Ruislip barcollò e si portò le mani allo stomaco.
Il Damerino Senza Nome sorrise in modo smaccatamente compiaciuto, agitò le dita e mandò baci agli spettatori.
Ruislip lo fissava con rabbia, mentre ripeteva l’assalto mentale.
Le labbra del Damerino cominciarono a grondare sangue. L’occhio sinistro iniziò a gonfiarsi. Barcollò. Il pubblico rumoreggiava soddisfatto.
«Non è terribile come sembra» bisbigliò il Marchese a Porta.
Il Damerino Senza Nome vacillò, all’improvviso. Cadde in ginocchio come se qualcuno lo stesse spingendo giù, e fini lungo e disteso sul pavimento. Poi sobbalzò, come se qualcuno l’avesse appena preso a calci, con forza, nello stomaco.
Ruislip appariva trionfante. Gli spettatori applaudirono, educatamente. Il Damerino si contorceva, poi sputò sangue sulla segatura che copriva il pavimento del reparto Pesce e Carne di Harrods.
«Il prossimo» disse il Marchese.
Il Damerino venne trascinato in un angolo da alcuni amici e prese a dare violentemente di stomaco.
Anche il successivo aspirante guardia del corpo era più magro di Ruislip (all’incirca come due damerini e mezzo, che portassero però un’unica valigia piena di lardo in due). Era ricoperto di tatuaggi e vestito con abiti che sembravano realizzati unendo vecchi coprisedili per auto e tappetini di gomma. Aveva la testa rasata e scherniva il mondo con i denti marci.
«Sono Varney» disse, si raschiò la gola e sputò sulla segatura un ammasso verdognolo. Si diresse sul ring.
«Signori, quando siete pronti» disse il Marchese.
Ruislip pestò ritmicamente i piedi nudi sul pavimento, uno-due, uno-due, e cominciò a fissare duro Varney. Sulla fronte di Varney si apri un piccolo cratere da cui usciva un rivolo di sangue che gli gocciolava nell’occhio. Varney ignorò la cosa, e parve invece concentrarsi sul braccio destro.
Lo sollevò lentamente, come si opponesse a una foltissima pressione. Poi scaraventò il pugno contro il pomo d’Adamo di Ruislip. Che precipitò al suolo con il rumore di una mezza tonnellata di fegato fresco lasciato cadere in una vasca da bagno.
Varney ridacchiò.
Con estrema lentezza, Ruislip si rimise in piedi.
Varney si pulì il sangue dalla fronte e mostrò al mondo la sua bocca in rovina con un ghigno terrificante. «Vieni» disse. «Grasso segaiolo. Colpiscimi ancora.»
«Quello promette bene» bofonchiò il Marchese.
Porta rabbrividì. «Non ha un aspetto molto gradevole.»
«Gradevole in una guardia del corpo» predicò il Marchese «è utile quanto la capacità di rigurgitare un’aragosta intera. Ha un aspetto pericoloso.»
In quel mentre ci fu un mormorio di apprezzamento, quando Varney fece qualcosa di piuttosto doloroso a Ruislip, qualcosa di rapido, che implicava l’improvviso contatto tra il ginocchio foderato in similpelle di Varney e i testicoli di Ruislip. Il mormorio era un’approvazione del tipo sobrio e profondamente poco entusiasta che di solito si riscontra solo nei sonnacchiosi pomeriggi domenicali, durante gli incontri di cricket tra paesi limitrofi.
Il Marchese applaudì educatamente con il resto degli astanti. «Ottimo, signore» commentò.
Varney guardò Porta e le fece l’occhiolino, quasi con aria di possesso, prima di rivolgere nuovamente l’attenzione su Ruislip.
Porta rabbrividì.
Richard udì gli applausi e andò in quella direzione.
Venne superato da cinque giovani donne estremamente pallide e vestite in modo pressoché identico. Indossavano lunghi abiti di velluto, tutti scuri al punto da sembrare quasi neri pur essendo rispettivamente verde scuro, marrone scuro, blu notte, sangue intenso e nero vero e proprio.
Tutte avevano i capelli neri e portavano gioielli d’argento; tutte erano pettinate e truccate alla perfezione. Si muovevano in silenzio: solo un fruscio dei pesanti velluti quando passavano, un fruscio che pareva quasi un sospiro.
L’ultima, quella vestita di nero, la più pallida e la più bella, sorrise a Richard.
Che, un po’ circospetto, restituì il sorriso.
Quindi si mosse verso l’audizione.
Si teneva nel reparto Pesce e Carne, nella zona al di sotto della scultura del pesce di Harrods.
Il pubblico gli voltava le spalle e formava un cerchio con due o tre persone una dietro l’altra. Richard si chiedeva se sarebbe stato facile trovare Porta e il Marchese, e in quel momento la folla si apri e li vide, seduti entrambi sul bancone di vetro del salmone affumicato. Aprì la bocca per gridare «Porta!» e mentre lo faceva comprese il motivo per cui la folla si era aperta: un uomo enorme, paralizzato dalla paura, praticamente nudo non fosse stato per il pezzo di stoffa giallo, rosso e verde che gli avvolgeva la parte bassa del torace a mo’ di pannolino, era stato catapultato oltre gli spettatori, come lanciato da un mangano, e gli stava atterrando proprio addosso.
«Richard?» disse la ragazza.
Lui apri gli occhi. La messa a fuoco del viso andava e veniva. Degli occhi dallo strano colore, che fissavano i suoi, in un viso giovane e pallido, quasi da folletto.
«Porta?» fece.
Era furiosa. Era molto più che furiosa.
«Temple e Arch, Richard! Non posso crederci. Che ci fai qui?»
«Anch’io sono contento di vederti» disse debolmente Richard. Si mise a sedere, chiedendosi se avesse una commozione cerebrale. Chiedendosi come poteva scoprirlo. Chiedendosi come aveva potuto pensare che Porta sarebbe stata felice di vederlo.
Lei, le narici frementi, si fissava intensamente le unghie, come non si fidasse a dire altro.
L’omone dall’orribile dentatura, che l’aveva fatto cadere sul ponte, stava lottando contro un nano. Combattevano con delle spranghe di ferro, e la lotta non era impari come avrebbe potuto sembrare. Il nano era straordinariamente veloce: si rotolava, colpiva, rimbalzava, si tuffava; ogni suo movimento faceva apparire Varney goffo e sgraziato al confronto.
Richard si rivolse al Marchese, che guardava il combattimento con attenzione.
«Cosa sta succedendo?» chiese.
Il Marchese gli concesse un’occhiata, quindi riportò lo sguardo sull’azione che si svolgeva davanti a loro. «Tu» disse «sei immerso in qualcosa di troppo profondo per le tue possibilità, ossia nella merda fino al collo, tanto per essere chiaro, e davvero poche ore, immagino, ti separano da una fine prematura e senza alcun dubbio disonorevole. Noi, al contrario, stiamo facendo un’audizione per guardie del corpo.»
Varney mise in comunicazione la sua spranga di ferro con il nano, che cessò istantaneamente di balzare e guizzare per mettersi a giacere privo di sensi.
«Penso che abbiamo visto abbastanza» disse il Marchese ad alta voce. «Grazie a tutti. Signor Varney, può cortesemente attendere un istante?»
«Perché sei voluto venire?» chiese con freddezza Porta.
«Non è che avessi molta scelta» ribatté Richard.
Lei sospirò.
Il Marchese stava marciando intorno al perimetro, congedando le diverse guardie del corpo che aveva già visionato, distribuendo qualche parola di lode qui e un consiglio là. Varney aspettava pazientemente in un angolo.
Richard azzardò un sorriso in direzione di Porta. Fu ignorato.
«Come sei arrivato al mercato?» chiese la ragazza.
«C’erano quelle persone-ratti…» cominciò Richard.
«Parla-coi-ratti» corresse lei.
«E, vedi, il ratto che ci aveva portato il messaggio del Marchese…»
«Padron Codalunga» disse lei.
«Be’, ha detto che dovevano accompagnarmi qui.»
Porta alzò un sopracciglio e piegò lievemente la testa da un lato. «Ti ha portato qui un parla-coi-ratti?»
Annui. «Per quasi tutta la strada. Era una ragazza. Si chiamava Anestesia. Lei è… be’, le è successo qualcosa. Sul ponte. Per l’ultima parte del tragitto mi ha portato qui un’altra signora. Credo che fosse una… lo sai.» Esitò, poi lo disse. «Prostituta.»
Il Marchese aveva fatto ritorno. Se ne stava in piedi di fronte a Varney, che appariva oscenamente compiaciuto di se stesso.
«Conoscenza delle armi?» domandò il Marchese.
«Uh!» disse Varney. «Mettiamola cosi: se ci si può affettare qualcuno, far schizzare via una testa, spaccare le ossa o fare un bucaccio in una pancia, Varney le usa da maestro.»
«Precedenti datori di lavoro soddisfatti del servizio?»
«Olympia, la Regina dei Pastori, i Finitori in Guardia Bassa. Per un po’ mi sono occupato della sicurezza della fiera di maggio di Mayfair.»
«Bene» disse il Marchese de Carabas. «La tua abilità ha molto colpito tutti noi.»
«Mi pareva di aver capito» disse una voce femminile «che aveste pubblicato un’inserzione per una guardia del corpo. Non per dilettanti fanatici.»
La sua pelle aveva il colore dello zucchero caramellato caldo, e il suo sorriso avrebbe fermato una rivoluzione. Era vestita da capo a piedi di morbide pelli grigie e marroni.
«È lei» bisbigliò Richard a Porta. «La prostituta.»
«Varney» ribadì Varney, offeso, «è la migliore guardia del corpo e bravo del Mondo di Sotto. Lo sanno tutti.»
La donna si rivolse al Marchese. «Sono già finite le prove di selezione?» chiese.
«Si» disse Varney.
«Non per forza» rispose il Marchese.
«Allora» gli disse lei «vorrei fare l’audizione.»
Solo un attimo di esitazione e il Marchese disse, «Molto bene.» Fece un passo indietro, balzò sul banco del salmone affumicato e si mise comodo a osservare l’azione.
Varney era indubbiamente pericoloso, per non dire prepotente, sadico e attivamente dannoso per la salute fisica di quanti lo circondavano. Non era, però, particolarmente sveglio. Rimase, li, fermo, a fissare il Marchese, mentre il seme del dubbio si insinuava e si insinuava, sempre più insinuante. Infine, incredulo, chiese, «Devo lottare contro di lei?»
«Si» rispose la donna vestita di pelle. «A meno che tu non voglia prima sdraiarti un pochino.»
Varney cominciò a ridere: un ghigno da maniaco.
Smise di ridere un attimo dopo, quando la donna gli diede un gran calcio al plesso solare, che lo abbatté come un albero.
Accanto alla sua mano, sul pavimento, si trovava la spranga di ferro utilizzata nel combattimento con il nano. L’afferrò e la sbatté violentemente contro il viso della donna — o l’avrebbe fatto se lei non avesse schivato il colpo. Rapidissima, gli picchiò le mani aperte sulle orecchie. La spranga volò dall’altra parte della stanza.
Ancora traballante per il dolore alle orecchie, Varney estrasse un coltello dallo stivale. Di quanto accadde dopo, non fu mai del tutto certo: sapeva solo che il mondo aveva ruotato sotto i suoi piedi e si era ritrovato a faccia in giù sul pavimento, con il sangue che gli colava dalle orecchie e il suo stesso coltello alla gola. Il Marchese de Carabas stava dicendo, «È sufficiente!»
La donna alzò gli occhi, tenendo sempre il coltello contro la gola di Varney. «Allora?» chiese.
«Davvero notevole» disse il Marchese.
Porta annui.
Richard era sbalordito: era stato come vedere Emma Peel, Bruce Lee e un tornado particolarmente temibile tutti condensati in un solo essere, con una generosa farcitura di riprese tratte da un documentario sulla vita animale che una volta aveva visto in TV e che mostrava l’uccisione di un cobra reale da parte di una mangusta. Era cosi che si muoveva. Era cosi che aveva lottato.
La donna abbassò gli occhi verso Varney. «Grazie, signor Varney» disse educatamente. «Temo che non avremo bisogno dei suoi servigi, dopo tutto.»
Gli scese di dosso e si mise il coltello alla cinta.
«E tu ti chiami?» domandò il Marchese.
«Mi chiamo Hunter» rispose lei.
Nessuno proferì parola. Poi Porta, titubante, disse, «Quell’Hunter?»
«Esatto» disse Hunter, spazzolando via la polvere dai gambali di pelle. «Sono tornata.»
Chissà dove una campana suonò, due volte, dei rintocchi profondi che fecero vibrare i denti di Richard. «Cinque minuti» bofonchiò il Marchese. Poi, rivolgendosi agli spettatori rimasti, disse, «Credo che abbiamo trovato la nostra guardia del corpo. Grazie a tutti. Non c’è altro da vedere.»
Hunter si diresse verso Porta e la squadrò dall’alto e dal basso.
«Puoi impedire che mi uccidano?» chiese Porta.
Hunter piegò il capo in direzione di Richard. «A lui oggi ho salvato la vita tre volte, sul ponte, venendo al mercato.» Varney si era faticosamente rimesso in piedi, e con la mente aveva sollevato la spranga di ferro.
Il Marchese vide cosa stava facendo ma non disse nulla.
L’ombra di un sorriso comparve sulle labbra di Porta. «Questa è bella» disse. «Richard pensava che fossi una…»
Hunter non seppe mai cosa Richard pensava che fosse. La spranga precipitò verso la sua testa come un bolide. Si limitò ad allungare il braccio e ad afferrarla: le si fermò agevolmente nel palmo della mano con un tuapp.
Andò da Varney.
«È tua?» chiese.
Le mostrò i denti, gialli, neri e marrone.
«In questo momento» disse Hunter «siamo sotto l’Armistizio del Mercato. Ma se provi a fare un’altra cosa del genere, revoco l’armistizio, ti spezzo entrambe le braccia e te le faccio riportare a casa con i denti. Ora,» continuò piegandogli il braccio dietro la schiena, «di’ mi dispiace. Con gentilezza.»
«Uau» fece Varney.
«Si?» disse lei, con aria incoraggiante.
Sputò fuori un «Mi dispiace» come se stesse per soffocare.
Lo lasciò andare.
Varney rinculò a distanza di sicurezza, impaurito e furioso, tenendo sempre gli occhi su Hunter, senza mai voltarle le spalle. E, una volta raggiunta la porta del Reparto Alimentari, esitò prima di strillare, «Sei morta! Sei morta e fottuta, ecco quello che sei!» con una voce che rasentava le lacrime.
Quindi si girò e corse via dalla stanza.
«Dilettanti» sospirò Hunter.
Ripercorsero la strada che aveva seguito Richard.
Adesso la campana rintoccava ininterrottamente, con suono profondo. Veniva suonata da un omone nero vestito di nero, con indumenti da frate domenicano, ed era stata posta accanto al banco che Harrods riserva alle gelatine di frutta di alta qualità.
Se il mercato non poteva lasciare indifferenti, ancora di più colpiva la rapidità con cui tutto veniva smantellato, fatto a pezzi e messo via. Ogni traccia del fatto che si fosse tenuto li stava scomparendo: le bancarelle venivano smontate, impilate sulle spalle dei proprietari e portate chissà dove.
Richard scorse Old Bailey, le braccia cariche di cartelli rudimentali e gabbie per uccelli, che usciva barcollando dal negozio.
La folla si diradò. Il mercato scomparve. Il piano terra di Harrods aveva l’aspetto di sempre, stucchevole e rispettabile come tutte le volte che ci aveva fatto un giro con Jessica.
«Hunter, il Cacciatore» disse il Marchese. «Ho sentito parlare di te, naturalmente, ma dove sei stata per tutto questo tempo?»
«Ho cacciato» rispose semplicemente lei. Poi, rivolta a Porta, «Puoi prendere ordini?»
Porta annui. «Se proprio devo.»
«Bene. Allora forse posso salvarti la vita» disse Hunter. «Se accetto l’incarico.»
Il Marchese si fermò. La guardò di sottecchi, diffidente. «Hai detto se accetti l’incarico…?»
Hunter apri la porta e uscirono sul marciapiede di Londra. Era notte. Mentre si trovavano al mercato aveva piovuto e i lampioni si specchiavano sul catrame bagnato.
«L’ho accettato» disse Hunter.
Richard si sentiva sempre più un bagaglio al seguito. Porta evitava di guardarlo negli occhi, il Marchese lo ignorava e Hunter lo trattava come una cosa del tutto non pertinente.
«Sentite» disse. «Non voglio annoiare o essere di peso, ma io che faccio?»
Il Marchese si voltò a fissarlo, gli occhi grandi e bianchi nel viso scuro. «Tu?» disse. «Cosa fai tu?»
«Be’,» disse Richard «come faccio a tornare alla normalità? È come se fossi entrato in un incubo. La settimana scorsa, tutto aveva un senso e adesso di senso proprio non…» le parole gli si spensero sulle labbra. Deglutì. «Voglio sapere come fare per riavere la mia vita» spiegò.
«Non la riavrai venendo con noi, Richard» disse Porta. «Per te sarà piuttosto dura comunque. Mi… mi dispiace davvero.»
Hunter, che guidava il gruppo, si inginocchiò sul marciapiede. Si tolse dalla cintura un piccolo oggetto metallico che utilizzò per sbloccare un tombino che portava alle fogne. Lo sollevò, guardò all’interno con circospezione, scese, quindi fece entrare Porta.
Mentre scendeva, Porta evitò di guardare Richard.
Il Marchese si grattò un lato del naso. «Giovanotto,» disse «ci sono due Londra. C’è Londra Sopra — quella dove vivevi tu — e Londra Sotto — la Parte Sotterranea — abitata dalle persone che sono precipitate nelle fenditure del mondo. Tu sei uno di loro, adesso. Buona notte.»
Cominciò a scendere la scaletta del pozzetto fognario. Richard disse «Aspetti!» e afferrò il tombino prima che si chiudesse. Seguì il Marchese all’interno.
All’inizio del pozzetto il tanfo di cloaca era molto forte — un’untuosa puzza di cavolo, di morte. Si aspettava che scendendo peggiorasse, invece si dissipò abbastanza rapidamente.
Dell’acqua grigia correva, poco profonda ma veloce, sul fondo del tunnel di mattoni.
Richard ci mise dentro i piedi. Poco più in là poteva scorgere la luce degli altri, perciò si mise a correre, schizzando, lungo il tunnel finché li raggiunse.
«Vattene» disse il Marchese.
«No» rispose lui.
Porta lo guardò. «Mi dispiace tanto, Richard» disse.
Il Marchese si intromise. «Non puoi tornare alla tua vecchia casa, al tuo vecchio lavoro o alla tua vecchia vita» gli disse, quasi con gentilezza. «Non esiste nessuna di quelle cose. Lassù, tu non esisti.» Erano arrivati a un raccordo, un luogo dove si univano tre tunnel. Porta e Hunter si infilarono in uno dei tre, quello dove non scorreva acqua, senza guardarsi indietro. Il Marchese indugiava.
«Devi solo cercare di affrontare la situazione nel miglior modo possibile» disse a Richard. «Nelle fognature, nella magia e nel buio.» Poi fece un ampio sorriso: «Bene, felice dì averti rivisto. Tutta la fortuna del mondo. Se riesci a sopravvivere per i prossimi due o tre giorni, forse puoi anche riuscire a farcela per un mese intero.»
Detto questo si voltò e prese a percorrere la fogna a grandi passi.
Richard si appoggiò al muro, ascoltando l’eco dei tacchi che si allontanavano, il flusso dell’acqua che gli correva accanto, diretta all’impianto di pompaggio della zona est, e il lavorio della fogna.
«Merda» esclamò.
Poi, con sua grande sorpresa, per la prima volta dopo la morte di suo padre, da solo, al buio, Richard Mayhew si mise a piangere.
La stazione della metropolitana era quasi deserta e quasi buia. Varney la attraversò, rasentando i muri, lanciando occhiate nervose dietro di sé e di fronte, da un lato e dall’altro.
Aveva scelto una stazione a caso ed era andato in quella direzione sui tetti e tra le ombre, accertandosi di non essere seguito. Non aveva intenzione di tornare al covo nei tunnel profondi di Camden Town. Troppo rischioso. C’erano altri posti in cui Varney aveva nascosto armi e cibo. Sarebbe rimasto in superficie per un po’. Fino a che la faccenda fosse passata nel dimenticatoio.
Si fermò accanto a un distributore di biglietti, in ascolto, nel buio.
Silenzio assoluto. Certo di essere solo, si concesse di rilassarsi. Si fermò in cima alla scala a chiocciola e fece un respiro profondo.
Una voce vicino a lui, untuosa come olio lubrificante esausto, disse con tono colloquiale, «Varney è il miglior bravo e guardia del corpo del Mondo di Sotto. Lo sanno tutti. Ce l’ha detto il signor Varney in persona.»
E una voce dall’altro lato rispose, dolcemente, «Non è carino mentire, mister Croup.»
Nell’oscurità più fitta, mister Croup caldeggiò il concetto. «No, non lo è, mister Vandemar. Devo dire che la considero un’offesa personale, che mi ha profondamente ferito. E deluso. Quando non si hanno lati positivi, le delusioni non si prendono molto bene, che ne pensa mister Vandemar?»
«Tutto il male possibile, mister Croup.»
Varney si lanciò in avanti e si mise a correre nel buio, scendendo a capofitto per la scala a chiocciola.
Una voce dalla cima delle scale, quella di mister Croup: «Dovremmo considerarla una vera e propria forma di eutanasia.»
Il rumore dei piedi di Varney si allontanò fragorosamente dalla ringhiera di metallo, riecheggiando per la tromba delle scale. Ansava e ansimava, le spalle che rimbalzavano contro il muro, mentre ruzzolava in avanti alla cieca, nell’oscurità.
Raggiunse gli scalini più in fondo, dove un cartello segnalava ai passeggeri in uscita che per arrivare in cima c’erano 259 gradini, e che soltanto persone in piena forma potevano anche solo pensare di tentare l’impresa. Tutti gli altri, suggeriva il cartello, avrebbero fatto meglio a usare l’ascensore.
L’ascensore?
Qualcosa produsse un suono metallico, e le porte dell’ascensore si aprirono con maestosa lentezza, inondando di luce il corridoio.
Varney armeggiò alla ricerca del coltello: prese a imprecare, accorgendosi che ce l’aveva ancora quella puttana di Hunter. Allungò la mano verso il machete che teneva nel fodero sulla spalla.
Era sparito.
Dietro di sé udì un educato tossicchiare, e si voltò.
Mister Vandemar era seduto sui gradini in fondo alla scala a chiocciola.
Si stava pulendo le unghie con il machete di Varney.
A quel punto mister Croup gli fu addosso, tutto denti, artigli e piccole lame; e Varney non ebbe neppure il tempo di gridare.
«Addio» disse mister Vandemar, impassibile, senza smettere di tagliarsi le unghie.
Allora cominciò a scorrere il sangue. Sangue rosso e tiepido in una quantità spaventosa, dato che Varney era un omone e se l’era tenuto tutto dentro.
Quando mister Croup e mister Vandemar ebbero finito, però, era quasi impossibile notare la minuscola macchiolina di sangue in fondo alla scala a chiocciola.
Alla prima lavata, ogni traccia sarebbe scomparsa per sempre.
Hunter procedeva per prima. Porta camminava nel mezzo. Il Marchese de Carabas si occupava della retroguardia. Nessuno dei tre aveva pronunciato verbo dopo avere lasciato Richard, mezz’ora prima.
All’improvviso Porta si fermò. «Non possiamo farlo» disse con tono piatto. «Non possiamo lasciarlo là da solo.»
«Certo che possiamo» disse il Marchese. «Anzi, l’abbiamo già fatto.»
Lei scosse il capo. Si era sentita colpevole e stupida fin dal momento in cui aveva visto Richard all’audizione, sdraiato sulla schiena sotto il peso di Ruislip. Non le andava proprio.
«Non essere sciocca» disse il Marchese.
«Mi ha salvato la vita» ribadi lei. «Avrebbe potuto lasciarmi sul marciapiede, ma non l’ha fatto.»
Il Marchese alzò un sopracciglio: distaccato, distante, un vero seguace dell’ironia. «Mia cara giovane signora,» disse «non abbiamo in programma di portare con noi un passeggero, durante questa spedizione.»
«Non assumere quell’aria di superiorità con me, de Carabas» disse Porta. Sembrava stanca. «Penso di poter decidere chi viene con noi. Lavori per me anche tu, no? O è vero il contrario?»
Lui la fissò con una freddezza piena di rabbia. «Lui non viene con noi» affermò con un tono che non ammette replica. «E comunque a quest’ora sarà già morto.»
Richard non era morto. Se ne stava seduto al buio, su un cornicione a lato di un canale per le acque piovane, chiedendosi cosa fare, chiedendosi in quali acque infinitamente troppo profonde per le sue possibilità si sarebbe potuto trovare.
Decise che fino a quel momento la vita l’aveva preparato alla perfezione per lavorare in Borsa, fare acquisti al supermercato, guardare la partita di calcio in TV la domenica pomeriggio e accendere il riscaldamento quando aveva freddo. Aveva però totalmente fallito nell’addestrarlo a un’esistenza da non-persona sui tetti e nelle fogne di Londra, a un’esistenza al freddo, all’umido e al buio.
Il baluginio di una luce. Passi che si avvicinano. Se, pensò, si fosse trattato di un branco di assassini, cannibali o mostri, non sarebbe nemmeno stato in grado di provare a battersi. Che lo finissero pure, ne aveva avuto abbastanza. Abbassò gli occhi nell’oscurità e li fissò nel punto in cui avrebbero dovuto trovarsi i suoi piedi. I passi si avvicinarono ulteriormente.
«Richard?» Era la voce di Porta.
Sobbalzò. Poi la ignorò deliberatamente. Se non fosse per te, pensò…
«Richard?»
Non alzò gli occhi. «Cosa?» rispose.
«Senti,» disse lei «tu non ti troveresti in questo guaio se non fosse per me. E non credo che sarai più al sicuro restando con noi, però… Be’…» Si strinse nelle spalle. Un respiro profondo. «Mi dispiace. Vieni?»
«Dato che al momento non ho altri impegni,» disse con una studiata noncuranza che rasentava l’isterismo, «perché no?»
Lei lo abbracciò stretto.
«E cercheremo di farti tornare indietro» disse. «Promesso. Una volta trovato quello che sto cercando.»
Cominciarono a percorrere il tunnel. Richard poteva vedere Hunter e il Marchese che li aspettavano all’entrata. Il Marchese aveva l’aria di uno che è stato costretto a inghiottire della polpa di limone. «E cosa stai cercando?» chiese Richard, il cui morale aveva ripreso leggermente quota.
«È una lunga storia» rispose la ragazza con tono solenne. «Al momento stiamo cercando un angelo di nome Islington.»
Richard scoppiò a ridere. Non riusciva a frenarsi. C’era indubbiamente un po’ di isterismo, ma anche la stanchezza di chi è in qualche modo riuscito a credere a svariate decine di cose incredibili, senza neppure avere prima fatto una colazione decente. La sua risata echeggiò nei tunnel.
«Un angelo?» disse ridacchiando confuso. «Che si chiama Islington come il quartiere?»
«Abbiamo molta strada da fare» disse Porta.
E Richard scosse il capo, sentendosi spremuto, svuotato e defraudato.
«Un angelo» bisbigliò ai tunnel e al buio. «Un angelo!»
Il Gran Salone era tutto ricoperto di candele. C’erano candele accanto ai piloni di ferro che sostenevano il soffitto. Candele in attesa vicino alla cascatella che scendeva da un muro e nel piccolo stagno scavato nella roccia sottostante. Candele raggnippate ai lati del muro di roccia. Candele ammassate sul pavimento. C’erano candele nei candelabri che facevano ala alla grande porta tra due neri piloni di ferro. La porta era realizzata con liscia silice nera inserita in una base d’argento che si era scurita con il passare dei secoli diventando quasi nera anch’essa.
Le candele erano spente, ma al suo passaggio guizzanti fiammelle prendevano vita. Nessuna mano le aveva toccate, nessun fuoco aveva sfiorato i loro stoppini. Il suo abito era semplice e bianco; o più che bianco. Un colore, o un’assenza di colore, cosi luminoso da far trasalire. Aveva i piedi nudi sul freddo pavimento di roccia del Gran Salone. Il viso era pallido, saggio e gentile; e, forse, un po’ malinconico.
Era molto bello.
E in un attimo, tutte le candele del Salone erano accese.
Si arrestò presso lo stagno nella roccia; si inginocchiò vicino all’acqua, mise le mani a coppa, le tuffò nel liquido cristallino e bevve. L’acqua era molto fredda, ma anche molto pura. Terminato di bere chiuse gli occhi per un istante, quasi stesse benedicendo.
Quindi si alzò e se ne andò per dove era venuto, attraversando il Salone; e quando passava le candele si spegnevano, come avevano fatto per decine di migliaia di anni.
Non aveva ali, eppure era senza alcun dubbio un angelo. Islington lasciò il Gran Salone, anche l’ultima candela si spense e tornò il buio.