12

Il sole batteva sulle persiane chiuse, formando macchie luminose e morbide. Una luce filtrata riempiva la stanza da letto come un liquido ghiacciato e ardente nello stesso tempo. Gli uccelli cinguettavano con aria d’importanza. Norman chiuse di nuovo gli occhi e si stiracchiò pigramente.

Vediamo un po’, era venuto il momento di pensare a scrivere quell’articolo per l’American Anthropologist. Gli rimaneva inoltre da rivedere qualcosa del suo Trattato di Etnologia: certamente aveva ancora tempo, davanti a sé. Ma era meglio mettersi all’opera al più presto. C’era anche da parlare seriamente con Bronstein della sua tesi di laurea. Il ragazzo aveva tante buone idee ma bisognava moderarlo un po’. Infine c’era il suo discorso di fine anno alle madri degli alunni. Tanto valeva dir loro qualcosa di utile.

Gli occhi sempre chiusi assaporavano la più piacevole delle sensazioni: aveva davanti a sé il cumulo di lavoro che un uomo è capace di svolgere con piacere e con competenza, ma al quale non ha bisogno di metter mano subito. Quella per esempio era una giornata in cui giocare a golf. Guai a lasciarla sfuggire. Avrebbe dato un’occhiata a Gunnison, per verificare se faceva progressi. E poi, lui e Tansy non avevano fatto neppure una scampagnata in tutta la primavera. Ne avrebbero parlato insieme a colazione. La prima colazione del sabato era sempre qualcosa di speciale. Probabilmente Tansy la stava preparando in quello stesso momento. Norman pensò che una doccia gli avrebbe stimolato l’appetito. Era tardi?

Aprì un occhio e guardò la sveglia. Dodici e trentacinque? Ma allora a che ora si era coricato quella notte? Che cosa aveva fatto?

Il ricordo dei giorni precedenti si dipanò come un gomitolo e così velocemente che il suo cuore cominciò a martellare. Ma c’era una notevole differenza nei suoi ricordi. Sin dal primo momento gli erano sembrati incredibili e irreali. Aveva l’impressione di leggere la storia molto particolareggiata di un’altra persona, che possedeva un sacco di strane idee sulla stregoneria, il suicidio, la persecuzione, e chissà quant’altro. Questi ricordi non collimavano con il suo attuale senso di benessere. E, cosa ancora più strana, non turbavano affatto il suo stato.

Cercò traccia nella sua mente di una paura soprannaturale, di quell’impressione di essere sorvegliato, spiato, di quell’impulso autolesionista. Non riusciva a scoprire e neanche a suggerire a se stesso la minima traccia di queste sensazioni. Qualsiasi cosa fosse stata, faceva ormai parte del passato, era estranea a ogni suo senso, tranne che alla memoria intellettuale. Spirali di pensieri ostili! Perfino quell’espressione suonava strana. Eppure tutto questo era successo. Qualcosa era successo.

Senz’accorgersene era arrivato sotto la doccia. E mentre si insaponava e l’acqua tiepida gli cadeva sulle spalle, si chiese se non era il caso di parlarne a Holtrom, del reparto psicologia, o a un buon medico psichiatra. Le convulsioni mentali che lo avevano travagliato i giorni scorsi fornivano materiale sufficiente a compilare tutto un trattato. Ma si sentiva quella mattina in uno stato di salute così perfetto che gli era antipatica perfino l’idea di un serio disturbo mentale. No, ciò che era accaduto era soltanto uno dei quegli strani inspiegabili spasmi di irrazionalità che colpiscono la gente più sana, forse proprio perché è così sana. Una specie di sfogo per la morbosità troppo a lungo repressa. Si sentiva di aver turbato Tansy con le sue faccende personali, anche se era stato il suo piccolo complesso di strega, ora felicemente domato, ad avere provocato le confidenze. Poverina, si era data tanto da fare per tirargli su il morale, la sera avanti, mentre avrebbe dovuto essere il contrario. Ebbene Norman avrebbe cercato di farselo perdonare.

Si fece la barba senza fretta e con piacere. Il rasoio si comportò benissimo.

Mentre finiva di vestirsi, un dubbio lo assalì. Una volta ancora frugò nella sua memoria, chiuse gli occhi come un uomo che ascolta un rumore impercettibile.

Nulla. Neppure la minima traccia di paura morbosa.

Fischiettando entrò in cucina.

Nemmeno un segno della colazione! Vicino all’acquaio vi erano i bicchieri sporchi, bottiglie vuote, un cassetto del freezer pieno di acqua tiepida.

«Tansy!» chiamò. «Tansy!»

La cercò per tutta la casa col vago timore che si fosse addormentata in giardino prima di andare a letto. Avevano entrambi bevuto come spugne. Si recò nel garage per assicurarsi che la macchina fosse a posto. Forse era andata all’emporio a comprare qualcosa per la colazione. Ma tornando in casa si sentì ansioso.

Guardò nuovamente nello studio e notò la boccetta dell’inchiostro rovesciata sul tavolo e accanto a questa un pezzo di carta, un angolo del quale era proprio a contatto della macchia che cominciava ad asciugare. Il messaggio di Tansy per un pelo non si era macchiato.

Era scarabocchiato in fretta. Due volte la punta del pennino aveva bucato la carta, ed era interrotto nel bel mezzo di una frase, ma era senz’altro la calligrafia di Tansy.


«Per un attimo “esso” ha smesso di spiarmi. Non immaginavo che sarebbe stato troppo forte per me. Non sono due settimane! Solo due giorni! Non tentare di seguirmi. L’unica via di scampo è quella di seguire esattamente le mie istruzioni. Prendi quattro… [parola illeggibile]… bianche, lunghe quattro pollici…»


I suoi occhi correvano alla macchia che usciva dal calamaio e terminava nell’impronta poco chiara di una mano, e involontariamente la sua immaginazione ricostruì la scena. Tansy aveva scritto con furia disperata, guardandosi continuamente alle spalle. Poi esso si era accorto di ciò che stava facendo e l’aveva percossa sulla mano. Ricordò la stretta di quella mano, enorme, ruvida, e trasalì. E poi… poi aveva riunito le sue cose in una borsa, silenziosamente, sebbene lui, Norman, non corresse il rischio di svegliarsi; era uscita di casa ed era andata per la strada. Se qualcuno l’avesse incontrata lei avrebbe parlato allegramente, avrebbe anche riso, perché quella cosa faceva buona guardia dietro di lei, spiando ogni sua mossa avventata, ogni tentativo d’evasione.

Ed era fuggita.

Gli venne voglia di correre per la strada, di chiamarla urlando il suo nome.

Ma l’inchiostro versato era secco, si era trasformato in placche nere sul bordo della carta. Dovevano essere trascorse alcune ore. Dov’era fuggita, nella notte? In un punto che era per lei il termine dell’oscura galleria? Non più “due settimane”. Soltanto “due giorni”…

In un baleno di acuta lucidità ne comprese la ragione. Se non fosse stato ubriaco la sera prima lo avrebbe indovinato.

Era una delle mosse più note nel mondo della magia: la trasferta del male, come lo stregone trasferisce la malattia dall’uomo a una pietra, o a un nemico, o a se stesso perché è più forte e in grado di combatterlo meglio. Tansy aveva attirato la maledizione su se stessa. L’altra notte avevano spartito il cibo, bevuto nello stesso bicchiere. Aveva usato mille stratagemmi perché Norman rimanesse sempre vicino a lei. Era evidente! Si spremette il cervello per riafferrare le ultime parole che gli aveva detto Tansy: “Tutto ciò che è tuo è mio”. Tutto ciò che è tuo è mio?

Lei intendeva la minaccia che pesava su di lui.

E lui aveva risposto: “Sì”.

Un momento! cosa mai stava pensando?

Alzò gli occhi sugli scaffali ove si allineavano libri perfettamente legati. Si stava nuovamente abbandonando allo stesso nauseante gioco dei giorni scorsi, mentre qualcosa di serio, di importante era in pericolo.

No, non si trattava di presenza soprannaturale, non vi era nessun esso, nessun guardiano: solo uno scherzo dei loro nervi malati, i suoi e quelli di Tansy. Era stato lui a suggerire a sua moglie tutte quelle sciocchezze, ecco cos’era veramente successo. Aveva instillato nella mente di Tansy l’espressione della sua morbosa fantasia.

In stato di ubriachezza chissà che cosa non le aveva confidato. Tutte le sue infantili montature. E ciò aveva influito sulla natura suggestionabile di lei, lei che aveva creduto alla magia, finché era maturato in lei il proposito di trasferire su se stessa la minaccia che pesava sul marito. Si era convinta che questa trasferta fosse realmente avvenuta. Quindi era fuggita, Dio sa dove.

Era tutto molto preoccupante.

Si mise a studiare di nuovo l’illeggibile messaggio. E si chiese cosa fossero mai quelle quattro cose di quattro pollici, bianche.

Il campanello dell’ingresso trillò leggermente. C’era una lettera nella cassetta postale. L’aprì con uno strappo. L’indirizzo era scritto con la matita morbida e il segno della graffite era macchiato. Ma riconosceva la calligrafia. Il messaggio era scritto con mano malferma e così irregolare che gli ci volle un po’ per decifrarlo. Cominciava a metà di una frase e finiva a metà d’un’altra.


…quattro corde bianche di quattro pollici, un pezzo di un budello di gatto, un po’ di platino o di iridio, una pietra magnetica, una puntina di grammofono che abbia suonato solo la Nona Sonata di Scriabin, quindi legare…


Erano le corde, naturalmente. E basta. Era il seguito del primo messaggio, con la sua bizzarra formula. Tansy era veramente convinta di avere un guardiano che la sorvegliava e poteva comunicare con Norman solo in quei rari momenti in cui pensava che l’attenzione di quel guardiano fosse rivolta altrove. Sapeva benissimo anche Norman di che cosa si trattava. Chi è in preda a un’ossessione, può convincere se stesso di qualsiasi assurdità.

Guardò il timbro postale. Riconobbe il nome di una città situata parecchie miglia a est di Hempnell. Non ricordava neanche un nome, sia di parenti, sia di amici, che abitassero in quella città, o qualsiasi altro particolare. Il suo primo impulso fu di tirar fuori la macchina e correre in quel luogo. Ma che cosa avrebbe fatto, una volta arrivato lì?

Guardò nuovamente la lettera. Il telefono si mise a suonare. Era Evelyn Sawtelle.

«È lei, Norman? Per piacere vorrei parlare con Tansy. Le spiace farla venire al telefono?»

«Dolente, non è in casa.»

Evelyn Sawtelle non parve sorpresa. La sua seconda domanda arrivò troppo presto. «Dov’è, posso telefonarle?» Egli stette un momento a pensare, poi disse: «E andata in campagna, a visitare alcuni amici. Se lei ha un messaggio glielo trasmetterò volentieri.»

«No, voglio parlarle… Mi dia il numero di telefono dei suoi amici.»

«Non hanno telefono» rispose seccamente.

«Ah, no? Pazienza, non è cosa molto importante.» La sua voce pareva compiaciuta, come se il malumore di Norman le avesse procurato soddisfazione.

«Chiamerò più tardi. Ora ho da fare. Hervey è così impegnato, con le sue nuove mansioni… Arrivederci.»

Norman posò il ricevitore. Perché diavolo… Una risposta gli balenò per la mente. Forse Evelyn aveva visto Tansy mentre se n’andava e aveva subodorato qualche motivo di pettegolezzo che voleva solo verificare. Tansy era forse uscita con una valigia in mano?

Diede un’occhiata nello spogliatoio di sua moglie. La piccola valigia era sparita. I cassetti erano aperti, si vedeva che aveva impacchettato tutto con premura. E il denaro? Guardò nel proprio portafoglio. Era vuoto. Mancavano i quaranta dollari.

Non poteva far molta strada con soli quaranta dollari. L’irregolarità della calligrafia nel secondo messaggio suggeriva fosse stato scritto in treno o in corriera. Consultò gli orari e vide che molti treni e molte corriere passavano dalla città presso le varie stazioni, fece inchieste prudenti; ma non ne ricavò nulla.

Avrebbe voluto compiere tutti i passi che si tentavano quando qualcuno sparisce, ma si trattenne. Che cosa avrebbe fatto? Mia moglie è sparita. Soffre di ossessioni che… E se l’avessero trovata e fatta interrogare da un dottore, esausta com’era, nello stato mentale in cui si trovava prima ancora che lui potesse raggiungerla?

No, doveva sbrigarsela da solo. Ma se non riusciva a scoprire l’indirizzo del luogo dov’era diretta, non gli rimaneva altra scelta. Bisognava recarsi alla polizia e inventare qualche bugia per mascherare i fatti. Aveva scritto: due giorni. Se lei credeva di essere destinata a morire fra due giorni, non poteva bastare quell’ipotesi a giustificare la sua denuncia?

Verso sera tornò a casa, facendo tacere la folle speranza che lei fosse tornata mentre lui era assente. Il fattorino degli espressi stava risalendo in macchina. Norman si avvicinò.

«Niente per Saylor?»

«Sissignore, è nella cassetta.»

Il messaggio era più lungo questa volta, ma altrettanto difficile a decifrare. Diceva:


Finalmente ha rivolto altrove la sua attenzione. Se io mi controllo non fa in tempo a notare i miei pensieri. Ma è stato difficile per me imbucare l’ultima lettera. Norman, devi fare ciò che ti dico. I due giorni terminano domenica a mezzanotte. Poi la Baia. Devi seguire le mie istruzioni. Prendi le quattro corde, e fa’ un nodo a occhiello, un nodo margherita, un nodo bocca di lupo e un nodo piano. Col catgut fa’ un nodo scorsoio. Poi aggiungi…


Guardò il timbro. Quella città era trecento chilometri più a est, non per ferrovia, a quanto ricordava. Il che restringeva notevolmente le possibilità d’indagine.

Una parola in quella lettera echeggiava nella mente di Norman, fino a diventare insopportabile. Baia. Baia. Baia.

Gli venne in mente un pomeriggio torrido di molti anni fa, poco tempo prima che si sposassero. Erano seduti sull’orlo di un piccolo pontile, molto vecchio e in cattivo stato. Norman ricordava l’odore di salsedine, le assi grigie, pericolanti di quel pontile.

«È strano» gli aveva detto Tansy, contemplando l’acqua verdastra. «Io ho sempre pensato che la mia esistenza sarebbe finita qui. La cosa non mi fa paura, tant’è che sono sempre tornata qui a fare i bagni. Ma anche quand’ero bambina guardavo la baia, talvolta verde, talvolta azzurra, oppure grigia, o agitata, o splendente sotto la luna, o avvolta nella nebbia, e pensavo: “Tansy, la Baia finirà per inghiottirti. Ma ci vorranno anni e anni”. Buffo, no?

Lui aveva riso e l’aveva stretta a sé, e l’acqua verde aveva continuato a lambire la base delle palafitte coperte di alghe. Norman era andato quella volta per conoscere la famiglia di lei, quando il padre di Tansy era ancora vivo, nella sua casa di Bayport, sulla costa meridionale della baia di New York.

La galleria oscura terminava per lei nella Baia, la sera successiva a mezzanotte.

Fece alcune telefonate, prima alle corriere e poi alle ferrovie e agli aerei. Era impossibile trovare un posto in aereo, ma alcuni treni notturni potevano portarlo a New York con un’ora di anticipo sull’arrivo della corriera sulla quale Tansy probabilmente viaggiava, secondo i suo calcoli dedotti dai luoghi e dall’ora segnati sui timbri postali. Aveva tutto il tempo di fare la valigia e incassare un assegno mentre andava in stazione.

Spiegò le tre lettere sul tavolo, la prima, scritta con l’inchiostro, e le due altre a matita. Lesse ancora una volta la bizzarra e incompleta formula magica.

Aggrottò la fronte. Se vi fosse una sola possibilità su un milione, uno scienziato potrebbe trascurarla. O il comandante di un esercito accerchiato rinuncerebbe a uno stratagemma solo perché questo non è citato nei libri? Tutto il problema pareva inintelligibile. Ieri, avrebbe forse significato qualcosa per lui, emotivamente. Oggi gli sembrava tutta una sciocchezza. Domani invece, avrebbe forse rappresentato l’ultima, l’unica possibilità di una soluzione, possibilità da non lasciarsi sfuggire a nessun costo.

Ma come poteva, lui, venire a patti con la stregoneria?

“Norman, tu devi fare ciò che ti dico” Le parole erano chiare.

Dopo tutto, quell’accozzaglia di oggetti sarebbe forse occorsa per tranquillizzare Tansy se l’avesse trovata in uno stato di confusione mentale.

Andò in cucina e prese un gomitolo di spago bianco. Rovistò nell’armadio per trovare la sua vecchia racchetta e tagliò le due corde centrali. Potevano andare per il budello.

Il camino non era stato ripulito da quando avevano bruciato tutte le cianfrusaglie nascoste nel comò di Tansy. Frugò sui bordi con l’attizzatoio finché trovò un sasso annerito che attirava gli spilli.

Rintracciò il disco di Scriabin, la Nona Sonata, e mise in moto il grammofono con una puntina nuova. Guardò l’orologio e si mise a passeggiare in su e in giù per la stanza con impazienza. Gradatamente la musica s’impadronì di lui. Non era una musica facile. C’era in essa qualcosa di seducente e di esasperante allo stesso tempo, con la sussurrata melodia, quell’accompagnamento dondolante, quelle vibrazioni nel tremolo, e gli elaborati ornamenti che si rincorrevano da un’estremità all’altra della tastiera. Irritava i nervi.

Gli tornarono alla memoria i vari commenti che aveva sentito a proposito di quella sonata. Tansy non gli aveva forse detto che Scriabin aveva chiamato quella sonata una Messa nera e che odiava suonarla? Scriabin, che aveva ideato un organo dei colori, e aveva tentato di tradurre il misticismo in musica, ed era morto di un’inconsueta infezione al labbro: Scriabin, un russo dal viso infantile con un paio di baffi ricurvi, enormi. Gli apprezzamenti critici che Tansy gli aveva riferito galleggiavano qua e là nella sua memoria. “La velenosa Nona Sonata… la più perfida musica che sia mai stata composta…” Ridicolo! Come faceva la musica a essere qualcosa di diverso di un’astratta combinazione di suoni?

Eppure, ascoltandola, si era portati a pensarla diversamente.

Il movimento era sempre più rapido. Il delizioso tema del secondo tempo si guastò, si distorse in qualcosa di rauco e di dissonante (la marcia dei dannati), che s’interruppe bruscamente al momento in cui aveva raggiunto un grado di acutezza intollerabile. Poi veniva una ripetizione del primo tema mormorato, che finiva su una nota morbida ma irritante nella parte bassa della tastiera.

Tolse la puntina, la chiuse accuratamente in una busta e le unì al resto degli oggetti. Soltanto allora si chiese perché, se lui riuniva tutte quelle cose solo per tranquillizzare sua moglie, si era dato la pena di suonare la Nona Sonata con quella puntina. Una puntina nuova sarebbe servita ugualmente allo scopo. Scrollò le spalle. Ripensandoci, strappò dal dizionario enciclopedico la pagina che portava l’elenco illustrato dei nodi.

Lo squillo del telefono lo fermò mentre stava per uscire.

«Professor Saylor, le spiace chiamare Tansy al telefono?» La voce della signora Carr era molto affabile.

Norman ripeté ciò che aveva detto alla signora Sawtelle.

«Sono felice che sia andata in campagna a riposare» disse la signora Carr. «Dovevo dirle professor Saylor, che Tansy non mi sembra tanto in forma ultimamente e mi preoccupa un po’. È sicuro che stia bene?»

Proprio in quel momento, e senza nessun avvertimento di sorta, un’altra voce si mise di mezzo.

«Cosa vi prende di controllare i miei movimenti? cosa credete che sia? una bambina? Io so quello che faccio!»

«Zitta!» disse la signora Carr duramente. Poi con la sua voce più soave: «Credo vi sia un’interferenza. Arrivederci professor Saylor.»

La linea divenne silenziosa. Norman aggrottò la fronte. Quella seconda voce somigliava stranamente a quella di Evelyn Sawtelle.

Prese la sua valigia e uscì di casa.

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