14

“Eagle Hotel” era scritto in lettere d’oro orlate di nero sulla porta di vetro dietro la quale si vedeva interamente il piccolo atrio nudo e la sua mezza dozzina di poltrone vuote.

Norman disse ad Alec di attenderlo, e fissò una camera per la notte.

L’impiegato era un vecchietto dalla giacca blu, tutta lucida.

Norman vide sul registro che non vi erano stati ospiti di recente. Portò in camera la sua valigia e tornò immediatamente nell’atrio.

«Sono passati dieci anni da quando sono qui» disse all’impiegato. «Credo ci sia un cimitero un po’ più avanti, a monte della città, non è vero?»

Gli occhi assonnati del vecchio si spalancarono.

«Il cimitero di Bayport? Solo tre isolati su per questa strada, poi a sinistra, un isolato e mezzo… ma…» con la gola fece un rumore che pareva una domanda.

«Grazie» disse Norman.

Considerò un minuto il da farsi, poi pagò Alec, che intascò i soldi con espressione di sollievo e ripartì subito. Norman risalì la strada principale, volgendo le spalle alla baia.

Dopo il primo isolato terminava la fila dei negozi. In quella direzione Bayport si spegneva rapidamente, le case erano buie per la maggior parte, e quand’ebbe voltato a sinistra non c’erano più neanche i lampioni stradali.

Il cancello del cimitero era chiuso. Studiò il muro di cinta, davanti al quale si innalzava una siepe, cercando di fare meno rumore possibile, finché non trovò un alberello il cui ramo inferiore avrebbe sopportato il suo peso. Riuscì ad aggrapparsi al muretto, si arrampicò e con prudenza si lasciò cadere dall’altra parte.

Dietro il muro l’oscurità era densa. Udì un fruscio, come se avesse disturbato qualche piccolo animale. Più per istinto che con la vista reperì una pietra tombale, sottile, consumata, coperta di muschio alla base, e un po’ pendente da una parte. Risaliva probabilmente alla metà del secolo scorso. Scavò con le mani, e riempì di terra una busta che si tolse dalla tasca.

Tornò verso il muretto. Gli sembrò di fare molto rumore strisciando dietro la siepe. Ma la strada era vuota come prima.

Tornando verso l’albergo guardò in alto nel cielo, vide la stella polare e calcolò l’orientamento della sua stanza.

Mentre attraversava l’atrio, sentì lo sguardo dell’impiegato che lo scrutava con intensità.

La sua stanza era avvolta nell’oscurità. L’aria fredda pregna della salsedine entrava dalla finestra aperta. Chiuse a chiave la porta e la finestra, tirò le tendine e accese la luce: la luce abbagliante calava dal soffitto, svelava tutta l’austera sciattezza della stanza. L’unica nota moderna era un telefono.

Prese la busta che aveva in tasca, la soppesò nella mano, col labbro arricciato in un sorriso scettico. Rilesse il pezzo di carta che era sfuggito di mano a Tansy.


“…una piccola quantità di terra di cimitero, e avvolgi tutto in un pezzo di flanella arrotolandolo a controsole. Ordinagli di fermarmi. Digli di ricondurmi a te.”


Terra di cimitero. Come quella che aveva trovato nel tavolino di Tansy, nel suo spogliatoio. Era stato l’inizio di tutta questa avventura. E ora, anche lui se ne procurava.

Guardò l’orologio. Undici e venti.

Liberò il tavolino e lo portò al centro della stanza, tirò fuori il suo temperino e lo posò sull’orlo del tavolo, orientato a levante, come aveva fatto Tansy. Controsole significava da ovest a est. Sistemò gli ingredienti necessari sul tavolo, tagliò una striscia di flanella dall’orlo della sua vestaglia e unì insieme i quattro pezzi di carta scritti da Tansy. Il sorriso disgustato, ironico non abbandonava le sue labbra. Le quattro parti delle istruzioni, riunite, dicevano:


“Prendi quattro pezzi di corda bianca lunghi quattro pollici e un pezzo di budello di gatto, un pizzico di iridio o di platino, un pezzo di roccia magnetica, una puntina fonografica che sia servita solo a suonare la Nona Sonata di Scribian. Lega le quattro corde con un nodo a occhiello, un nodo a margherita, uno a bocca di lupo e un nodo piano. Col budello fa’ un nodo scorsoio. Aggiungi un pizzico di terra di cimitero e avvolgi il tutto in un pezzo di flanella, arrotolandolo a controsole. Ordinagli di fermarmi. Digli di ricondurmi a te.”


In complesso, la formula era più o meno simile a quella di centinaia di incantesimi praticati dai neri per i loro amuleti, e che lui aveva già veduto o di cui aveva sentito parlare. La puntina di grammofono, i nodi e un paio di altri ingredienti erano ovviamente invenzioni dei bianchi.

Tutto ricordava terribilmente un ragionamento infantile o l’atteggiamento di un adulto nevrotico che pone tutta la sua attenzione a calpestare o a evitare le crepe del marciapiede.

Fuori, un orologio suonò le undici e mezzo.

Norman si sedette e osservò l’involtino. Gli era difficile convincersi a cominciare. Sarebbe stato diverso se la cosa fosse stata fatta per gioco, o solamente per provare un brivido, o se lui fosse stato uno di quegli uomini il cui cervello è imbevuto di morbose tendenze al soprannaturale, che si divertono a giocare con la magia, perché fa tanto medioevo e perché i libri miniati sono così belli! Ma farlo con serietà d’intenti, arrendere la propria mente deliberatamente alla superstizione, questo voleva dire tentare di respingere con tutta la sua forza il mondo verso gli anni oscuri, cancellare dall’equazione il termine di scienza.

Però lui aveva visto quella cosa in piedi dietro Tansy. Certo, era stata un’allucinazione; ma quando le allucinazioni cominciano a comportarsi come le cose reali, sostenute da una serie di coincidenze convergenti, anche uno scienziato deve ammettere la possibilità di doverle trattare alla stessa stregua della realtà. E quando le allucinazioni cominciano a minacciare la vita di una persona, o dei suoi cari, in un modo fisico, diretto, allora… E soprattutto, quando si vuol dimostrare il proprio amore alla persona amata…

Afferrò il primo pezzo di spago e fece un nodo a occhiello.

Quando si trattò della bocca di lupo dovette guardare la pagina dell’enciclopedia. Dopo due tentativi falliti vi riuscì.

Ma per il nodo piano, non venne fuori nulla. Il nodo era semplice; ma, per quanto facesse, non somigliava mai alla figura dell’enciclopedia. Il sudore gli colava dalla fronte. “Fa caldo in questa stanza” pensò. “E dopo quella corsa, io sono zuppo di sudore”. La pelle, sulla punta delle dita, gli sembrava spessa un centimetro. Le estremità dello spago si misero a sfuggirgli. Ricordò come Tansy si districava con i nodi.

Undici e quarantuno. La puntina cominciò a rotolare sul piano del tavolo. Norman lasciò lo spago e posò la puntina vicino alla penna stilografica per impedirle di scivolare. Poi tornò al suo nodo. Per un attimo, credette di avere preso il budello invece dello spago, tant’era rigido e difficile da piegare. È incredibile ciò che può fare l’impazienza nervosa, pensò. Aveva la lingua secca. Deglutiva con difficoltà.

Finalmente, con gli occhi fissi sull’illustrazione, e imitandola punto per punto, riuscì ad annodare lo spago secondo il modello del nodo piano. In tutto il tempo di questa operazione, gli era parso vi fosse molto di più, fra le sue dita, di un semplice spago. Era come lottare contro una forza d’inerzia. Mentre terminava il nodo, provò un leggero brivido di freddo, simile all’inizio di uno stato febbrile, e la luce, sul suo capo, parve meno intensa. Sforzo visivo, probabilmente.

La puntina del grammofono rotolava nella direzione opposta, sempre più presto. Cercò di fermarla picchiandovi sopra con la mano, sbagliò il colpo, picchiò ancora e la fermò sull’orlo del tavolo. “Proprio come nel gioco del bicchiere indovino” disse tra sé. “Si cerca di mantenere il dito fermo sul bicchiere rovesciato, senza far pressione e rimanendo perfettamente immobili. Risultato: la tensione nervosa si accumula nei muscoli e raggiunge un punto di rottura. Il bicchiere comincia a muoversi, a scivolare, senza apparenza di volontà da parte dei giocatori, e guizza di lettera in lettera formando le parole”. Qui era lo stesso fenomeno. La tensione nervosa e muscolare gli impediva di annodare lo spago. Obbedendo a una tendenza universale, la rigidità del braccio si trasferiva allo spago, e con il gomito e il ginocchio aveva inconsciamente scrollato il tavolo.

Fra le sue dita la puntina parve vibrare, come se fosse la piccolissima parte di una grande macchina. Faceva pensare, un po’ alla lontana, all’elettroshock. Senza ragione, i torturanti e sonori accordi della Nona Sonata cominciarono a rintronare nella sua mente. Maledizione. Un sintomo ben noto di estrema nervosità, è quello del dolore lancinante nelle dita, dolore spesso molto intenso. Ma la sua gola era secca e il suo sbuffo di disprezzo rimase soffocato.

Infilò la puntina nella flanella per maggior sicurezza.

Undici e quarantasette. Afferrò il budello. Le sue dita tremavano ed erano così deboli che gli pareva di essersi arrampicato con il solo aiuto delle mani su una corda liscia di trenta metri. Il budello era in apparenza normale, eppure era scivoloso al tocco, come se l’avessero appena estratto dal ventre dell’animale e ritorto in fretta. Inoltre, per alcuni minuti era stato conscio di un odore acre, quasi metallico che aveva sostituito l’odore salso della Baia. “Allucinazioni olfattive e tattili oltre che visive e auditive” disse fra sé. Udiva sempre la Nona Sonata.

Sapeva fare un nodo «a gassa d’amante» rovesciato, e avrebbe dovuto essere facile, perché il budello non era rigido. Ma avvertì l’influenza di altre forze che lo manipolavano, o di altre menti che tentavano di dare ordini alle sue dita. Di modo che il budello cercava di annodarsi da solo in un nodo scorsoio, o in un nodo margherita, o in un doppio collo, qualsiasi nodo che non fosse un nodo gassa d’amante. Le dita gli dolevano, gli occhi erano stanchi per l’inconsueta fatica. Lavorava a controcorrente di una crescente inerzia, di una schiacciante inerzia. Ricordò che Tansy gli aveva detto, la notte della sua confessione, che vi era un effetto di reazione in ogni atto di magia come il contraccolpo di un fucile.

Undici e cinquantadue. Con grande sforzo Norman concentrò tutta la sua energia mentale e diresse la sua attenzione solamente sul nodo. Le sue dita anchilosate cominciarono a muoversi secondo uno strano ritmo, il ritmo della Nona Sonata, ma più vivo. Il nodo era fatto.

La luce diminuì notevolmente, immergendo tutta la stanza in un’oscurità fuligginosa. Cecità isterica, disse Norman fra sé. Le officine elettriche, nelle piccole città, erano sempre in equilibrio instabile. Faceva freddo, ora, così freddo che immaginò di vedere il vapore del suo fiato. Ed era tutto terribilmente silenzioso, di un silenzio totale, tant’è che Norman riusciva perfino a sentire e a udire il martellare del suo cuore il cui ritmo continuava ad aumentare con il fragore e il turbinio intollerabile della musica. In questo momento, un momento di diabolica, paralizzante lucidità, ebbe la certezza che quella era la stregoneria. Non semplice avvicinamento di strumenti ridicolmente medioevali, non un facile esercizio della mano, ma una lotta spossante, massacrante, per mantenere il controllo delle forze invocate di cui gli oggetti da lui riuniti erano solamente il simbolo. Fuori, però, oltre le pareti della stanza, oltre le pareti del suo cranio e oltre le impalpabili pareti dell’energia mentale, sentiva che quelle forze si univano, si gonfiavano nella spaventosa attesa di un suo errore, per potergli piombare addosso e schiacciarlo.

Non lo poteva credere. Non lo credeva. Eppure doveva crederlo.

L’unica incognita era questa: sarebbe stato capace di mantenere il controllo di quelle forze?

Undici e cinquantasette. Cominciò a riunire gli oggetti nel panno di flanella. La puntina balzò sulla pietra magnetica, tirandosi dietro la stoffa sulla quale era appuntata, e vi rimase appiccicata. Non avrebbe dovuto essere attratta perché era almeno a trenta centimetri di distanza dal sasso. Prese un pizzico di terra del cimitero. Fra il pollice e l’indice ogni singola particella pareva strisciare per proprio conto come un minuscolo verme. Sentiva che qualcosa mancava, non ricordava che cosa. Rilesse la formula. Una corrente d’aria fece volare le carte dal tavolo. Sentì delle forze esteriori che stavano premendo, si affrontavano, come se sapessero che Norman non vi sarebbe riuscito. Afferrò le carte, le mantenne ferme sul tavolo, chinandosi quasi a toccarle, e decifrò le parole platino e iridio. Batté la penna stilografica sul tavolo, ruppe il pennino e lo aggiunse agli altri oggetti.

Si alzò e rimase vicino al tavolo, dalla parte opposta al temperino che segnava l’orientamento, e si appoggiò all’orlo del tavolo per tentare di calmare il tremito delle mani. Batteva i denti. La stanza era diventata tutta scura, tranne una irreale luce bluastra che filtrava dalle persiane, Non era possibile che le luci stradali avessero quella tinta di vapore di mercurio.

Improvvisamente la striscia di flanella cominciò ad arricciarsi come un nastro di gelatina riscaldata, ad arrotolarsi su se stessa, da est a ovest, nella stessa direzione del sole. Norman fece un balzo in avanti — le sue dita atrofizzate gli parevano di metallo — e arrotolò il panno in direzione opposta al sole, a controsole.

Il silenzio si fece ancora più cupo. Non sentiva più neanche il battito del suo cuore. Seppe che qualcosa stava in ascolto con una terribile intensità, in attesa che egli impartisse un comando e questo qualcosa attendeva con ansietà perfino maggiore, che fosse incapace di pronunciare quel comando.

Da qualche parte un orologio suonò le ore (ma era proprio un orologio, o il suono segreto del tempo?). Nove, dieci, undici, dodici.

La lingua gli si attaccò al palato, si sentì strozzare e tossì silenziosamente. Gli parve che le pareti della stanza fossero più vicine a lui, più strette di un momento fa.

Allora con una voce roca, riuscì a dire:

«Ferma Tansy, conducila qui».

Norman sentì la stanza tremare, il pavimento gonfiarsi, alzarsi sotto i piedi come se un terremoto avesse scosso il New Jersey. L’oscurità si fece assoluta. Il tavolo, o qualche forza erompente dal tavolo parve alzarsi e colpire Norman. Si sentì spinto e cadde all’indietro su qualcosa di soffice.

Poi le forze estranee scomparirono. La tensione in ogni cosa parve allentarsi. Tornò la luce, tornarono i suoni. Norman si ritrovò sdraiato sul letto, per traverso. Sul tavolo vi era un involtino di flanella che aveva perduto ogni importanza.

Provò la sensazione di essere stato drogato, o di svegliarsi dopo una notte di bagordi. Non aveva alcuna voglia di agire. Era svuotato di ogni energia.

Esternamente, nulla era mutato. Perfino la sua mente, con un meccanico raziocinio, poteva assumersi l’ingrato compito di spiegare il suo esperimento in termini scientifici, tessendo un’elaborata tela di cui la psicosi, l’allucinazione e le improbabili coincidenze formavano la trama.

Ma, dentro di lui, qualcosa era cambiato, irreversibilmente.

Un tempo infinito sembrò trascorrere.

Udì dei passi che salivano la scala, poi attraversavano il corridoio, e uno strano suono, il pluf-pluf di qualcuno che ha le scarpe piene d’acqua. Si fermarono davanti alla porta.

Egli attraversò la stanza, girò la chiave e aprì la porta.

Un filo grigio era impigliato nella sua spilla d’argento. L’abitino grigio pareva nero, inzuppato d’acqua com’era, tranne in un punto, più chiaro, che cominciava ad asciugare ed era leggermente spolverato di sale. L’odore della Baia era ovvio e vicino. Un altro filo d’alga le si era attaccato alla caviglia, sulle calze attorcigliate.

Intorno alle scarpe macchiate si formavano due piccole pozze d’acqua. Gli occhi di Norman seguirono le orme bagnate sino al corridoio. In cima alla scala c’era il vecchio portiere, un piede ancora fermo sull’ultimo gradino. Portava una valigia di cinghiale, tutta macchiata.

«Che cosa significa tutto questo?» gridò quando il suo sguardo incontrò quello di Norman. «Lei non mi aveva detto che aspettava sua moglie! Ha tutta l’aria di essersi gettata nella Baia. Non vogliamo che succeda nulla di indegno, in questo albergo. Nulla di male…»

«Va bene, va bene» disse Norman che prolungava l’attesa prima di dover guardare in faccia sua moglie. «Mi spiace, mi ero dimenticato di dirglielo. Mi vuol dare la valigia?»

«Già l’anno scorso abbiamo avuto un suicidio…» il vecchio impiegato non si rendeva conto di pensare ad alta voce. «… nuoce al buon nome dell’albergo.» Guardò Norman, tornò in sé e fece un passo incerto nel corridoio, poi si fermò, posò in terra la valigia e corse via per le scale.

A malavoglia Norman alzò gli occhi all’altezza di quelli di Tansy.

Il viso era pallido, molto pallido, senza espressione. Le labbra erano quasi azzurre, i capelli appiccicati alle guance. Una larga ciocca di capelli le ricopriva un occhio, come una benda, e scendeva verso il collo.

Un occhio spento guardava nella sua direzione, senza riconoscerlo. Non mosse una mano per togliersi i capelli dagli occhi.

L’orlo della gonna gocciolava.

Le labbra si socchiusero. La voce uniforme pareva il mormorio dell’acqua.

«Sei arrivato troppo tardi» disse quella voce «un minuto troppo tardi.»

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