17

Frenando un impulso a fare dietro-front, Norman voltò l’angolo di Morton, gonfiò il petto e si fece forza per guardare il collegio. Ciò che lo colpì maggiormente fu il suo aspetto di normalità. Ovviamente, non si aspettava una manifestazione tangibile di malignità, un segno esteriore di intima nevrosi, o di qualunque altro vizio contro il quale Norman stava combattendo. Ma questo anormale stato di buona salute, questa normalità da libro di testo (le piccole schiere di alunni che si dirigevano tutti insieme ai dormitori o ai bar non alcoolici dell’associazione studentesca, le file di ragazze in bianco che andavano alla lezione di tennis, l’aspetto cordiale, consueto dei larghi viali) colpiva Norman al centro stesso della sua mente, come se volesse deliberatamente convincere lui di essere pazzo.

“Non t’ingannare” dicevano i suoi pensieri “alcune di queste allegre ragazze sono già contaminate. Il tarlo c’è. Le loro rispettabili mammine hanno impresso nella loro mente qualche delicato suggerimento su come si fa a realizzare i propri desideri. Sanno già che la nevrosi è un male più complesso di quanto lo ammettano i libri di psichiatria e che i testi di economia non scalfiscono neppure la superficie della magia del denaro. E non sono certamente formule di chimica quelle che mandano a memoria quando i loro occhi assumono quell’espressione lontana, mentre sorseggiano la loro Coca-Cola o parlano dei loro corteggiatori”.

Entrò a Morton e salì rapidamente le scale.

Ma la sua capacità di meravigliarsi non era ancora esaurita, e fu in grado di capirlo, vedendo un gruppo di studenti uscire di classe in fondo al corridoio del terzo piano. Guardò l’orologio e capì che quella era la sua classe che se ne andava dopo averlo atteso dieci minuti, i dieci minuti di grazia concessi a un professore ritardatario. Era giusto, commentò. Lui era Norman Saylor, professore, vincolato ai suoi corsi, alle sue riunioni di comitato, ai suoi vari incarichi. Si nascose in fretta dietro l’angolo del corridoio per non farsi notare.

Dopo avere atteso pochi minuti davanti alla porta, entrò nel suo studio. Nulla pareva essere stato toccato, ma si mosse con prudenza e si guardò attentamente in giro per scoprire eventuali oggetti non del tutto consueti. Non aprì alcun cassetto prima di averlo ispezionato con cura.

Una sola lettera, fra quelle che si erano accumulate sul suo tavolo, era importante. Proveniva dall’ufficio di Pollard, e gli intimava di presentarsi a una riunione dei consiglieri, verso la fine della settimana. Sorrise con triste soddisfazione a questo indizio che la sua carriera stava rapidamente declinando.

Tolse alcuni documenti dai raccoglitori, ne riempì fino all’orlo la sua cartella e fece un pacco del resto.

Dopo aver lanciato un ultimo sguardo intorno a sé, durante il quale notò che il drago di Estrey non era stato rimesso al suo posto, qualunque esso fosse, sul tetto del collegio, cominciò a scendere le scale.

Appena fuori, incontrò la signora Gunnison.

Fu intensamente conscio di avere le braccia imbarazzate dai pacchi, e per un attimo non riuscì nemmeno a vedere chiaramente la donna.

«Per fortuna che l’ho incontrata» cominciò subito «Harold ha tentato con ogni mezzo di mettersi in contatto con lei. Dov’è stato?»

Improvvisamente Norman si accorse di quanto vi era di vecchio, di aggressivo, di sciatto in quella donna. Con un senso di frustrazione mista a sollievo si rese conto che la guerra in cui si era impegnato era una faccenda strettamente clandestina e che in superficie i rapporti erano quelli di prima. Le disse che Tansy e lui avevano trascorso il fine settimana con degli amici in campagna, che Tansy aveva avuto un’intossicazione da cibo e che il messaggio da lui inviato a Hempnell doveva essersi smarrito. Quella bugia, preparata in anticipo, aveva il vantaggio di giustificare l’aspetto di Tansy, se fosse capitato ad alcuno di vederla, e gli poteva fornire un alibi per assentarsi dai corsi col pretesto di una ricaduta.

Non si aspettava di essere creduto della signora Gunnison; comunque la sua spiegazione doveva apparire coerente.

Lei accettò senza commenti e pronunciò alcune parole di conforto. Poi proseguì subito: «Si metta in contatto con Harold, la prego. Credo si tratti di quella riunione dei consiglieri alla quale lei è stato convocato. Sa che Harold pensa un gran bene di lei… Arrivederci».

La guardò sconcertato mentre se ne andava. Strano a dirsi, ma all’ultimo momento gli pareva di aver sorpreso una sfumatura di cordialità nei suoi modi, come se per un attimo qualcosa che non era la signora Gunnison gli fosse venuto incontro, espresso da quegli occhi.

Ma doveva mettersi al lavoro. Uscito dal collegio, accelerò il passo e imboccò una stradina laterale dove aveva parcheggiato la macchina. Guardando appena la figura immobile seduta sul sedile anteriore, entrò in macchina e si diresse dai Sawtelle.

La loro casa era più grande delle loro necessità, e il prato rasato, sulla facciata, le conferiva un aspetto protocollare; ma vi si vedevano molte macchie gialle, e i fiori allineati come soldatini apparivano trascurati.

«Aspettami qui» le disse. «Non uscire dalla macchina per nessun motivo.»

Con sua grande sorpresa, Hervey gli venne incontro sulla soglia. Aveva gli occhi cerchiati, lo sguardo preoccupato come sempre, e la sua agitazione era più visibile del solito.

«Son contento che tu sia venuto» gli disse facendolo entrare. «Non so più dove dar la testa, con tutte le responsabilità del reparto concentrate sulle mie spalle. Classi da licenziare, istruttori interinari da trovare, e il programma del prossimo anno scolastico da decidere entro domani. Vieni, andiamo nel mio studio.» Spinse Norman attraverso un enorme soggiorno arredato con mobili costosi ma freddi, fino al suo stanzino, una vera tana, trasandato, coperto di libri su tutte le pareti e con un solo, minuscolo finestrino.

«Mi viene quasi da impazzire. Non ho più osato mettere fuori il naso da quando Evelyn è stata aggredita, sabato notte.»

«Che cosa?»

«Non lo sapevi?» si fermò e guardò Norman sorpreso. Anche in quello stanzino Hervey tentava di camminare in su e in giù, sebbene non vi fosse spazio sufficiente. «Ma come? Era sui giornali. Mi meravigliavo che tu non fossi venuto o avessi telefonato. Non ho fatto altro che cercarti in casa e in studio. Ma nessuno sapeva dov’eri. Evelyn è a letto da domenica e strilla come un’ossessa se parlo di uscire di casa. In questo momento, per fortuna, dorme.»

Norman ripeté rapidamente la storia già predisposta. Voleva sentire cos’era successo a Evelyn domenica notte. Mentre raccontava con eccessiva naturalezza e noncuranza la sua bugia sull’intossicazione di Tansy, la sua mente correva a Bayport e alla chiamata telefonica fatta a Evelyn Sawtelle nella stessa notte. Solo che in quella occasione, gli era parso che Evelyn aggredisse, e non certo fosse aggredita. Ed era venuto ora per chiedergliene conto. Però…

«Sono proprio sfortunato» esclamò Sawtelle tragicamente, quando Norman ebbe terminato. «Tutto il mio reparto si sgretola nella prima settimana del mio incarico. Non dico che sia colpa tua, naturalmente. E il giovane Stackpoole è a letto con l’influenza!»

«Ce la faremo, vedrai» disse Norman. «Ora siedi e raccontami di Evelyn.»

A malavoglia Sawtelle sgomberò un angolo della scrivania per potersi sedere. Brontolò quando lo sguardo gli cadde su alcune carte presumibilmente urgenti.

«È successo alle quattro circa, all’alba di domenica» disse gingillandosi nervosamente con le carte. «Fui svegliato da un urlo atroce. Il letto di Evelyn era vuoto. Il corridoio era buio. Ma udii a pianterreno qualcosa di simile a una lotta: tonfi, percosse.»

Improvvisamente Hervey alzò il capo: «Cos’è stato? Mi è parso di sentire dei passi nell’atrio?» Prima che Norman potesse intervenire, Hervey continuò il suo discorso. «Sono i miei poveri nervi. Mi giocano certi tiri, da quel giorno… Ti dicevo, presi in mano qualcosa, un vaso, credo, e scesi al pianterreno. In quel momento il rumore cessò. Accesi le luci e andai in tutte le stanze. Nella cameretta da cucire, trovai Evelyn distesa al suolo, svenuta, con alcuni brutti lividi che cominciavano a mostrarsi intorno al collo e alla bocca. In terra, davanti a lei, c’era il telefono. Lo teniamo in quella stanza perché Evelyn lo usa di continuo. Mi parve di impazzire. Chiamai un dottore e la polizia. Quando Evelyn rinvenì, fu in grado di dirci cos’era successo, sebbene fosse molto scossa. Le era sembrato di sentire squillare il telefono. Era scesa nel buio senza svegliarmi. Mentre alzava il microfono, un uomo nascosto in un angolo era balzato su di lei e l’aveva aggredita. Lei si era difesa con tutte le sue forze… impazzisco a pensarci!… ma era più robusto di lei, e quasi la strozzò facendola svenire.»

Nella sua agitazione Sawtelle aveva gualcito il foglio di carta che aveva in mano. Se ne accorse e subito si mise a stenderlo e a stirarlo.

«Per fortuna ero sceso in quel momento! Penso che sia stato quello a farlo scappare. Il dottore mi disse che tranne i lividi, Evelyn non presentava altre lesioni. Ma anche il dottore era allarmato alla vista di quei lividi. Ha detto che non ne aveva mai visto di simili.

“La polizia suppone che il ladro, dopo essersi introdotto in casa, abbia chiamato il centralino locale e chiesto di richiamarlo col pretesto che questo numero non funzionava bene; lo squillo del telefono avrebbe quindi attratto qualcuno al piano di sotto. Non si capisce come abbia fatto a entrare, perché la porta e le finestre erano perfettamente chiuse. Forse mi ero dimenticato di chiudere la porta d’ingresso, prima di andare a letto. Una imperdonabile dimenticanza.

“La polizia ritiene trattarsi di un ladro o di un maniaco sessuale: ma io credo sia stato anche pazzo, perché sul pavimento vi era un piatto d’argento e inoltre due delle nostre forchette d’argento si sono intrecciate in modo molto strano, e altre cose inconsuete sono accadute. Oltretutto deve aver suonato il grammofono, perché il piatto del disco girava ancora, e sul pavimento vi era uno dei dischi di recitazione di Evelyn rotto in mille pezzi.»

Norman spalancò tanto d’occhi e guardò il suo capo reparto sociologia; ma dietro quello sguardo innocente si faceva strada la conferma effettiva di aver sentito la raganella nel telefono, a Bayport (e che altro poteva essere quel disco in frantumi?), e che Evelyn Sawtelle si serviva della magia né più né meno di come aveva fatto Tansy; altrimenti come avrebbe potuto avere tutto sottomano? Ma i suoi pensieri si precipitavano su ciò che Sawtelle aveva detto delle lesioni di sua moglie, di quei lividi che parevano identici a quelli che Tansy si era fatta col telefono… o che le aveva fatto il telefono. Gli stessi lividi, gli stessi strumenti, suggerivano un mondo oscuro in cui la magia nera veniva ostacolata, si ritorceva sul mittente, nel quale l’intenzione di terrorizzare con una pretesa magia nera colpiva di ritorno la mente colpevole e psicopatica che l’aveva ideata.

«È tutta colpa mia» ripeteva Sawtelle, dolente, tirandosi la cravatta. Norman ricordò che Sawtelle si sentiva colpevole ogni volta che qualcosa colpiva o soltanto sconvolgeva Evelyn. «Mi sarei dovuto svegliare. Dovevo andare io al telefono. Quando penso a quella fragile creatura, che scendeva a tastoni per la scala senza sapere di aver davanti a sé… Ah!… E il mio nuovo incarico! Ti dico io che mi sento impazzire. La povera Evelyn è in uno stato così pietoso, da quando è successo, che tu non lo crederesti neanche vedendola.» E tirò il nodo della cravatta così nervosamente che si strozzò quasi e dovette allentarlo subito.

«Se ti dico che non ha chiuso occhio!» continuò, quando gli tornò il fiato. «Se la signora Gunnison non fosse stata così gentile da stare un paio d’ore con Evelyn, ieri mattina, non so cos’avrei fatto. Anche lei presente, Evelyn aveva ancora tanta paura che non mi lasciava fare un passo. Dio mio! Evelyn!!!»

Norman non poté identificare l’urlo inumano, e dubitò che Sawtelle lo potesse, tranne che quell’urlo proveniva dal primo piano della casa. Gridando: «Lo sapevo io di avere udito dei passi… È tornato!» Sawtelle corse come un fulmine fuori dallo studio. Norman lo seguì, ma con ben diversa paura addosso, paura che gli fu confermata da un rapido sguardo fuori dalla finestra: la sua macchina era vuota.

Sorpassò Sawtelle per le scale e fu il primo a raggiungere la porta della camera da letto. Si fermò di botto e Sawtelle gli cadde quasi addosso.

Non era successo nulla di ciò che Norman temeva. Avviluppata e ben stretta nella trapunta rosa, Evelyn Sawtelle si era spinta in fondo al letto, contro la parete: i denti le battevano, il suo viso era di un pallore gessoso.

In piedi, vicina al letto c’era Tansy. Per un attimo Norman si senti invadere da una grande speranza. Poi vide lo sguardo di sua moglie e la sua speranza svanì in un doloroso baleno. Aveva alzato il velo. Con quel trucco pesante, guance scarlatte, labbra colore di vermiglio, pareva una statua indecentemente dipinta, grottesca sino all’inverosimile, sullo sfondo rosa delle tende di seta. Ma una statua famelica.

Sawtelle spinse da parte Norman gridando: «Cos’è successo? Cos’è successo?» Vide Tansy. «Non sapevo lei fosse quì. Quando è entrata?» Poi: «È lei che l’ha spaventata?»

La statua parlò e il suo tono tranquillo lo zittì.

«Oh, no, non l’ho spaventata io. Non è vero, Evelyn?»

Evelyn Sawtelle guardava Tansy con gli occhi sbarrati per il terrore, e la sua mascella continuava a tremare. Ma quando parlò fu solo per dire: «No, Tansy non mi ha… spaventata… stavamo chiacchierando e… poi mi è parso di sentire… un rumore…»

«Solo un rumore, cara?» disse Sawtelle.

«Sì, come un rumore di passi, molto attutiti, nel corridoio…»

Non riusciva a staccare gli occhi da Tansy che fece un cenno di assenso quand’ebbe terminato.

Norman accompagnò Sawtelle nella sua futile quanto melodrammatica perlustrazione del primo piano. Quando tornarono, Evelyn era sola.

«Tansy è tornata in macchina» disse a Norman con voce flebile «Sono sicura che quei passi li devo avere immaginati.»

Ma i suoi occhi erano sempre pieni di paura quando Norman la lasciò, e non parve conscia della presenza di suo marito sebbene questi si desse da fare a stendere la trapunta e a sprimacciare i guanciali.

Tansy era seduta in macchina, guardando fisso davanti a sé. Norman vide che il suo corpo era sempre dominato da quella sua unica emozione. Doveva pur farle una domanda.

«No, non ha la mia anima» fu la risposta. «L’ho interrogata a lungo. Per esserne assolutamente certa ho fatto la prova definitiva: l’ho abbracciata. Ed è in quel momento che ha urlato. Ha molta paura dei morti.»

«Cosa ti ha detto?»

«Mi ha detto che qualcuno è venuto a portarle via la mia anima. Qualcuno che non si fidava di lei, qualcuno che desiderava la mia anima, per tenerla in ostaggio e anche per altri motivi, la signora Gunnison.»

Le dita di Norman aggrappate al volante sbiancarono. Pensava a quello strano sguardo implorante che aveva visto balenare prima negli occhi della signora Gunnison.

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