7

Dappertutto regnavano le ombre, e la terra sotto i passi di Norman era molle ed incerta. Lo spaventoso boato rintronava da ore e ore, lo scuoteva fino al midollo. Eppure quel rumore non riusciva a soffocare l’altra voce, monotona, antipatica, senza inflessioni, la voce che, dentro di lui, gli ordinava di far qualcosa… non sapeva che cosa, ma sentiva che questa cosa gli avrebbe fatto del male. Era una voce che egli distingueva chiaramente; pareva quella di una persona che gli sussurrava nel cervello. Tentò di sfuggire a quella imposizione, di deviare dalla direzione che essa gli ordinava di prendere, ma le robuste mani lo afferrarono subito per riportarlo al punto di prima.

Le ombre erano prodotte da vaste nubi che si rincorrevano e che assumevano di volta in volta la forma di facce gigantesche che lo osservavano cupamente, facce dagli occhi come pozzi oscuri, dalle labbra imbronciate e cattive, dai capelli come masse enormi, fluttuanti dietro di loro.

Non doveva ubbidire agli ordini di quella voce. Eppure sì, lo doveva. Lottò strenuamente. Il rombo si gonfiò sino a diventare un frastuono, un pandemonio tale da scuotere la terra. Le nubi si mutarono in un torrente nero che investiva ogni cosa.

Poi di colpo la camera da letto si sovrappose a quella immagine e con un ultimo strappo egli si svegliò.

Si fregò gli occhi appesantiti dal sonno e tentò di ricordare che cosa la voce gli avesse ordinato di fare. Ne sentiva l’eco nell’orecchio. Un’alba grigia filtrava delle persiane. La pendola indicava un quarto alle otto.

Tansy era ancora raggomitolata su se stessa, con un braccio fuori dalle coperte. Un sorriso all’angolo della bocca le arricciava il naso. Norman scese cautamente dal letto. Il suo piede scalzo si posò su una puntina staccata, di quelle che servono a fissare la moquette sul pavimento. Trattenne un grugnito di rabbia e si allontanò zoppicando.

Per la prima volta da molti mesi si tagliò radendosi. Due volte la lama nuova scivolò di fianco, troppo tagliente, e portò via piccoli ma nitidi brandelli di pelle. Guardò nello specchio con irritazione, il suo viso bianco di sapone, macchiato di rosso e spinse con molta lentezza la lama lungo il mento, ma la pressione era troppa, e si tagliò per la terza volta.

Al momento in cui andò in cucina, l’acqua che aveva messo sul fuoco bolliva già. Mentre la versava nella caffettiera, il manico allentato della casseruola si staccò del tutto e le sue caviglie furono irrorate di acqua bollente. Totem fece un salto per scansarla, poi tornò alla sua ciotola di latte. Norman imprecò, poi sorrise. Che cos’aveva detto a Tansy a proposito della malignità delle cose? Come per dimostrare questa teoria con un ultimo ridicolo esempio, si morse la lingua mentre mangiava un biscotto col caffè. Malignità delle cose inanimate… o piuttosto malignità causata dal sistema nervoso umano? Era vagamente conscio di una emozione potentemente conturbata, ma non identificabile (residuo del suo incubo?), come una figura disgustosa intravista mentre nuota sotto il pelo di un’acqua piena di alghe.

Era una sensazione affine a quella di una sorda irritazione, poiché, mentre si affrettava a raggiungere Morton Hall, si trovò intimamente in guerra con l’ordine stabilito delle cose, e in particolare le istituzioni educative. La vecchia esasperazione giovanile per le ipocrisie e i compromessi della società civilizzata, si accumulava come fanno le acque burrascose, che poi superavano la barriera che un realismo maturo aveva opposto alla loro esuberanza. Che vita era mai questa per un uomo? Educare le menti immature di ragazzi già cresciuti, ritenendosi fortunati di trovare almeno uno studente un po’ promettente in tutto l’anno scolastico. Giocare a bridge con una manica di vecchi barbosi. Offrire ricevimenti a degli agitati incompetenti come Hervey Sawtelle. Inchinarsi alle mille e una regola e tradizioni di un collegio di seconda categoria. E per che cosa?

Lunghe nubi sfilacciate correvano sul suo capo, promettendo la pioggia. Gli ricordavano il suo sogno. Ebbe voglia di urlare una sfida infantile a quelle nubi.

Un camion gli passò accanto silenziosamente, riportandogli alla memoria il disegno che Evelyn Satwelle aveva scarabocchiato sul blocchetto del bridge. Lo seguì con lo sguardo. Quando tornò a voltarsi, vide la signora Carr.

«Lei si è tagliato» disse con affettuosa sollecitudine, scrutandolo attentamente attraverso le lenti.

«Eh, sì!…»

«Poverino…»

Norman non aggiunse nulla. Camminarono insieme sino al cancello che divideva Estery da Morton. Riuscì, da quel punto, a distinguere il muso del drago di cemento posto sulla grondaia di Estery.

«Volevo dirle, ieri sera, quanto ero avvilita, caro Saylor, per la faccenda di Margaret Van Nice. Naturalmente non era il momento adatto. Mi è tanto spiaciuto che avesse tirato in ballo lei. Che disgustosa accusa! Immagino cosa deve aver provato!»

Parve equivocare sulla smorfia con la quale Norman commentò la frase, perché proseguì d’un fiato: «Naturalmente non ho creduto neanche un minuto che lei avesse commesso la minima scorrettezza, ma pensavo che qualcosa dovesse giustificare la storia della ragazza. La raccontava con tale abbondanza di particolari…» La signora Carr studiava con interesse il viso di Norman. I suoi occhi, dietro gli occhiali, parevano quelli di un gufo. «Oggigiorno, professor Saylor, alcune delle ragazze che vengono ad Hempnell sono davvero terribili. Io non riesco a capire dove vadano a prendere quelle odiose idee.»

«Ci tiene proprio a saperlo?»

La signora Carr lo guardò vacuamente. Un gufo alla luce del giorno…

«Le vanno a prendere» le disse chiaramente «in una società che cerca con ogni mezzo di stimolare e nello stesso tempo inibire uno dei loro impulsi vitali. Insomma, le prendono, quelle idee, da un branco di adulti sporcaccioni…»

«Professor Saylor, in verità!»

«C’è un certo numero di ragazze, qui a Hempnell che starebbero meglio di salute se avessero delle relazioni amorose vere, anziché immaginarie. Logicamente, alcune di esse hanno già provveduto a ristabilire il giusto equilibrio.»

Ebbe la soddisfazione di vederla soffocare per l’indignazione, mentre le voltava le spalle per dirigersi a Morton.

Il cuore di Norman batteva con una piacevole rapidità. Le sue labbra erano strette. Quando arrivò nel suo studio chiese al telefono un numero interno.

«Thompson? Qui parla Saylor. Ho un paio di notizie per te.»

«Bene, bene, sentiamo» Thompson rispose incuriosito, col tono di uno che si appresta, matita in mano, a prender nota.

«Primo: il tema del mio discorso, quello che farò alle madri degli alunni non convittori la settimana prossima: “Rapporti pre-matrimoniali e studenti universitari”. Secondo: i miei amici attori, gli Utell, fanno una tournée nella nostra città, proprio allo stesso momento. E li inviterò quali ospiti del collegio.»

«Ma…» la matita già pronta gli era certamente caduta dalle mani come un attizzatoio incandescente.

«Tutto qui, Thompson. Forse un’altra volta avrò qualcosa di più interessante. Arrivederci.»

Avvertì un dolore pungente alla mano. Aveva giocherellato con un coltello di ossidiana e si era tagliato il dito. Il sangue macchiava il limpido vetro vulcanico nel punto dove una volta, pensò Norman, si era macchiato del sangue del sacrificio, o delle ferite rituali. Cercò nel cassetto un cerotto adesivo. Il cassetto dove credeva di averlo riposto era chiuso a chiave. Lo aprì e vi trovò la piccola rivoltella che aveva tolto di mano a Theodore Jennings. Il campanello delle lezioni trillò. Richiuse il cassetto a chiave, strappò il suo fazzoletto e ne legò una striscia rapidamente intorno alla ferita aperta.

Mentre si affrettava per il corridoio lo raggiunse Bronstein.

«Facciamo tutti il tifo per lei, questa mattina, dottor Saylor» gli mormorò con simpatia.

«Cosa intendi dire?»

Bronstein ebbe un’espressione risaputa. «Una ragazza che lavora nell’ufficio del preside ci ha detto che stavano per decidere l’assegnazione della cattedra di sociologia. Spero con tutto il cuore che quei vecchi falchi dimostrino un po’ di buon senso, una volta tanto.»

La dignità accademica raggelò la risposta di Norman. «Comunque sia, io sarò soddisfatto della loro decisione.»

Bronstein accusò la nota di rimprovero. «Naturalmente.»

Si pentì subito della sua durezza. Perché redarguire uno studente che mostrava poca reverenza verso i consiglieri del collegio quali rappresentanti della divinità? Perché nascondere la sua disistima per una buona metà dei suoi colleghi? La rabbia che pensava di aver eliminato dai suoi pensieri tornò a farsi sentire con raddoppiata violenza. Un impulso improvviso, irresistibile gli fece respingere gli appunti già preparati e attaccò un discorso su ciò che pensava del mondo in generale e di Hempnell in particolare. Tanto valeva che lo sapessero da giovani!

Un quarto d’ora dopo prese coscienza di sé con un sussulto mentre finiva di pronunciare una frase di questo genere: “…di vecchie donne dalle idee sordide, nelle quali l’avidità di prestigio sociale ha raggiunto l’ampiezza di una perversione”. Non gli riuscì di ricordare neppure metà di ciò che aveva detto prima. Scrutò il viso degli alunni. Parevano interessati, curiosi; ma smarriti, quasi tutti. Alcuni di essi addirittura scandalizzati. Gracine Pollard lo fulminava con lo sguardo. Ah, già! ricordava di aver fatto un’analisi precisa ma crudele delle ambizioni politiche di un certo preside di collegio universitario, che non poteva essere altri che Randolph Pollard. A un certo punto aveva riattaccato con il suo tema dei rapporti pre-matrimoniali, ed era stato un po’ troppo esplicito sull’argomento per non dire peggio, E poi era… Be’ era esploso, ecco tutto. Come una di quelle gocce di vetro.

Terminò con cinque o sei argomentazioni generiche, un po’ incerte. Sapeva che non erano del tutto adeguate, perché lo sguardo degli alunni si fece ancor più sconcertato.

La sua classe gli sembrava lontana, un brivido lo percorreva tutto, cominciando dalla nuca e irradiandosi in tutto il corpo, a causa di alcune parole che erano come stampate nella sua mente.

Queste parole erano: “Un colpetto dell’unghia ha spezzato il filamento psichico”.

Scosse la testa come per rimescolare le lettere di questa frase, e le parole svanirono.

Aveva davanti a sé ancora trenta minuti di lezione, ma aveva voglia di andarsene. Annunciò un tema a sorpresa, scrisse due domande sulla lavagna e uscì di classe. Nel suo studio notò che il dito ferito sanguinava ancora attraverso la benda. Ricordò di aver lasciato tracce di sangue sul gesso.

E del sangue sul coltellino di ossidiana. Trattenendo l’impulso di sfiorarlo col dito, si sedette e rimase a contemplare il ripiano del tavolo.

Tutto faceva capo all’aberrazione di Tansy nel campo della magia, pensò. La cosa lo aveva scosso più di quanto osasse ammettere. Aveva cercato di togliersela dalla mente troppo in fretta, e Transy pareva anch’essa averlo dimenticato troppo presto. Nessuno si poteva scrollare di dosso un’ossessione con quella facilità. Norman avrebbe dovuto riparlarne con lei, distruggerla con lei, farla venir fuori altrimenti avrebbe fatto suppurazione.

Cosa stava mai pensando? Tansy era apparsa così felice, così sollevata in questi ultimi tre giorni, che questa linea di condotta non poteva certamente essere quella giusta.

Ma come aveva fatto Tansy a superare una crisi così grave con tanta facilità? Non era normale. Ricordò il suo sorriso mentre dormiva. Tuttavia non era Tansy che si comportava in modo strano, era lui, Norman. Come se un sortilegio…

Che cretinata! Si lasciava irritare da quel branco di vecchie incartapecorite, quelle tre arpie…

Il suo sguardo fu attratto dalla finestra, ma il telefono si mise a squillare.

«Professor Saylor? Le parlo per incarico del dottor Pollard. Può venire nell’ufficio del dottor Pollard questo pomeriggio? Alle quattro? Grazie.»

Si appoggiò allo schienale con un sorriso. “Perlomeno” pensò “la cattedra l’ho avuta.”

Man mano che le ore passavano, il cielo si faceva più scuro, le nuvole sfilacciate si rincorrevano sempre più basse. Gli studenti si affrettavano lungo i viali. Ma il temporale rimase nell’aria senza scoppiare sin quasi alle quattro.

Larghe gocce di pioggia si schiacciavano sui gradini polverosi quando Norman si rifugiò sotto il portico dell’edificio amministrativo. Il tuono spaccò a un tratto il silenzio con un crepitío violento, come se migliaia di lamiere metalliche venissero scosse al disopra delle nubi. Si voltò a guardare. I lampi davano ai tetti e alle guglie gotiche un rilievo intenso. Poi di nuovo il crepitío seguito dal tuono. Ricordò di aver lasciato una finestra aperta nel suo studio. Tanto non c’era nulla che l’acqua potesse danneggiare.

Il vento s’infilava sotto il portico con un boato stridente, pulsante. La voce non musicale che gli aveva parlato nell’orecchio aveva la stessa qualità sonora di quel rombo.

«Non è un delizioso temporale?»

Per la prima volta, Evelyn Sawtell sorrideva. L’effetto di quel sorriso sui suoi lineamenti era grottesco. Pareva un cavallo che avesse di colpo scoperto come si fa a sorridere ghignando.

«Ha saputo la notizia, naturalmente?» continuò. «Di Hervey?»

Hervey apparì improvvisamente al suo fianco. Sorrideva anche lui, ma in modo imbarazzato. Mormorò qualcosa che si perdette nel rumore del temporale, e stese automaticamente la mano, come se fosse stato sulla soglia di casa a ricevere gli ospiti.

Lo sguardo di Evelyn non abbandonava il volto di Norman. «Non è meraviglioso?» gli disse. «Naturalmente era scontato, tuttavia…»

Norman intuì l’accaduto. Si sforzò di prendere la mano profferta proprio al momento in cui l’altro stava per ritirarla nervosamente.

«Complimenti, vecchio mio» disse semplicemente.

«Sono molto fiera di Hervey» annunciò Evelyn con fare possessivo, come se fosse un ragazzino che ha ottenuto il premio di buona condotta. I suoi occhi seguirono la mano di Norman. «Si è tagliato?» Il ghigno parve un’aggiunta definitiva ai suoi lineamenti. Il vento ululava rabbiosamente. «Vieni, Hervey» disse, e si buttò nel temporale come se nulla fosse.

Hervey sgranò gli occhi dalla sorpresa. Mormorò qualcosa come una scusa a Norman, gli strinse la mano ancora a lungo, poi ubbidientemente corse a raggiungere sua moglie.

Norman li seguì con lo sguardo. C’era qualcosa di ripugnante nel modo con cui Evelyn Sawtelle sfidava le cateratte del cielo, inzuppandosi insieme al marito, per nessun altro scopo che quello di soddisfare la propria ostinazione. Evelyn vedeva che Hervey cercava di farle premura, ma lei resisteva. Un lampo divampò minacciosamente, senza provocare nessuna reazione apparente nella sua figura goffa, angolosa. Una volta ancora Norman fu conscio di un’emozione estranea, esplosiva dentro di sé, nel suo intimo.

E così quel suo cagnolino di marito, pensò Norman, sarà lui ad avere l’ultima parola nella politica educativa del ramo di sociologia. Ma allora perché Pollard mi ha fatto chiamare? Per porgermi le sue condoglianze?

Un’ora dopo usciva dall’ufficio di Pollard sbattendo la porta, irato oltre ogni dire, chiedendosi perché non gli avesse buttato in faccia le sue dimissioni. Essere interrogato come un bambino sulle sue azioni, dietro evidente istigazione di gente pettegola come Thompson, la signora Carr e Gracine Pollard! Dover ascoltare un sacco di asinerie sul suo atteggiamento, sullo spirito di Hempnell con insinuazioni appena velate relative al suo “codice morale”… Ma insomma!

Perlomeno aveva dato più di quanto avesse ricevuto. Perlomeno aveva spinto alla confusione quella voce pomposa e soave e fatto alzare più di una volta quei due ciuffetti bianchi che gli facevano da sopracciglia.

Era obbligato a passare davanti all’ufficio del decano. La signora Gunnison era in piedi accanto alla porta, come un enorme lumacone bavoso, dalla pelle ruvida, si disse Norman. E notò anche le calze storte, la borsetta traboccante che pareva il cucchiaio di una ruspa, l’eterna macchina fotografica appesa alla spalla. La sua esasperazione si diresse tutta su di lei.

«Sì, mi sono tagliato» le disse osservando la direzione del suo sguardo. La sua voce era rauca per l’animata discussione avuta con Pollard.

Poi gli venne in mente qualcosa e non stette a masticare le parole.

«Signora Gunnison, lei ha preso il diario di mia moglie, ieri sera, per sbaglio. Me lo restituisca, la prego.»

«Lei si sbaglia» rispose la donna in tono pacato.

«L’ho vista mentre usciva dalla mia stanza da letto, l’aveva in mano.»

Gli occhi della donna si socchiusero, diventarono due strette fessure. «In quel caso perché non me l’ha detto ieri sera? Lei è stanco, Norman. Lavora troppo, lo capisco.» Indicò con un cenno del capo l’ufficio di Pollard. «Sarà stata per lei una grossa delusione…»

«Le chiedo di restituirmi il diario!»

«…E non dovrebbe trascurare quel taglio» continuò senza scomporsi. «Non mi sembra ben medicato e sanguina ancora. Le infezioni talvolta sono maligne.»

Norman voltò i tacchi e se ne andò. Ma la vide nel riflesso scuro e incerto del vetro della porta esterna. Sorrideva.

Fuori dell’edificio, Norman si guardò la mano. Era chiaro che la ferita si era riaperta quando aveva picchiato il pugno sul tavolo di Pollard. Strinse un po’ di più la benda. Il temporale si era sfogato. La luce gialla del sole cadeva da una bassa cortina di nubi, a ovest, riflettendosi con esuberanza sui tetti bagnati e le finestre più alte degli edifici. Un resto di pioggia cadeva ancora dagli alberi.

Il campus pareva vuoto, una chiara risata proveniente dal dormitorio delle ragazze penetrò come un acido leggero nel silenzio. Si scrollò di dosso la collera e lasciò i suoi sensi assorbire la bellezza di uno scenario lavato di fresco.

Si congratulò con se stesso per questa sua capacità di godersi l’attimo presente. Era uno dei segni più evidenti di maturità.

Cercò di pensare con il cervello di un pittore, di definire le tinte e le sfumature, scoprendo il rosa sbiadito o il verde nascosto nelle ombre. L’architettura gotica, in fondo, aveva qualcosa di piacevole. Anche se non era funzionale, accarezzava l’occhio portandolo da una scultura di pietra all’altra. Per esempio quell’ornamento di foglie che orlava la torre di Estrey…

Improvvisamente la luce solare gli sembrò più fredda del ghiaccio, i tetti di Hempnell erano come i tetti dell’inferno, e il riso in lontananza era come un ghigno demoniaco. Prima di rendersi conto di ciò che faceva, aveva cambiato strada e si allontanava da Morton, lasciando il viale e camminando sull’erba bagnata, sebbene fosse arrivato solamente a metà del percorso.

Non c’era alcun bisogno di tornare allo studio, pensò rabbrividendo. Troppa strada da fare per quei pochi appunti. Potevano aspettare sino a domani. E perché non tornare a casa da una strada diversa, stasera? Perché prendere sempre la via diretta che passava sotto il portico grande che divideva Estrey da Morton, sotto quei cornicioni scuri, sporgenti… Ma che cos’era che…?

Si obbligò a guardare un’altra volta la finestra aperta del suo studio. Era vuota, adesso, com’era prevedibile. Quella cosa doveva essere stata una macchia nella sua vista, e la fantasia aveva completato l’immagine, come quelle volte in cui un puntino nero sul pavimento pare animarsi, diventare un ragno.

O era forse la tenda che il vento faceva volare fuori della finestra? No, un’ombra non poteva strisciare sul cornicione sottostante la finestra, un effetto ottico non poteva muoversi con tale lentezza, o possedere una sagoma così ben definita…

E il modo con cui la cosa aveva atteso, sbirciando entro la stanza prima di lasciarsi cadere all’interno, come… come una…

(Ma erano tutte sciocchezze e non c’era minimamente bisogno di andare a ritirare quegli appunti o chiudere la finestra. Sarebbe stato come arrendersi a una momentanea paura. Il tuono echeggiò in lontananza.)

…come una grande lucertola, del colore e della densità della pietra.

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