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Seduto sull’orlo della vecchia sedia di cuoio, chino sul caminetto, Norman giocherellava con i resti del fuoco, picchiando con la punta dell’attizzatoio su un tizzone incandescente finché questo si ruppe con un tintinnio dividendosi in molte piccole braci dalle quali si alzarono fiamme azzurre, quasi invisibili.

Vicino a lui, sul pavimento, Totem osservava le fiamme, con la testina piegata fra le zampe.

Norman si sentì stanco. Avrebbe dovuto seguire Tansy a letto da un pezzo, ma gli occorreva del tempo per sbrogliare i suoi pensieri. Una bella mania, questa sua necessità professionale di assimilare ogni situazione nuova, sottolinearne mentalmente ogni aspetto, sviscerarlo in questa o in quella maniera finché non fosse tutto consumato. All’opposto, Tansy aveva girato l’interruttore sui suoi pensieri ed era sprofondata nel sonno. Era proprio il suo modo di fare. O era forse l’effetto della fisiologia femminile, più armoniosa, più ipertiroidea?

Lei comunque aveva agito nel modo più pratico, più ragionevole. E anche questa era una sua caratteristica. Sempre leale, sempre disposta alla fine a dar retta alla logica (nelle stesse circostanze avrebbe osato lui, Norman, tenere un discorso ragionevole a una donna diversa da Tansy?), e sempre… come dire… ah, sì, empirica. Salvo a imboccare quella strana via…

Era tutta colpa di Hempnell. Quel collegio era proprio un focolaio di nevrosi e la moglie di un professore vi si trovava esposta più di chiunque. Avrebbe dovuto rendersi conto, in tutti quegli anni, dello sforzo al quale Tansy era sottoposta, e porvi rimedio. In quello, era stata un’attrice consumata. Norman dimenticava sempre con quanta serietà le donne considerassero il minimo intrigo universitario. Non potevano evadere, come i loro mariti, nel mondo misurato, freddo della matematica, della microbiologia e delle altre materie.

Norman sorrise. L’allusione che Tansy aveva lasciato cadere alla fine della discussione era piuttosto sconcertante. Cioè, che Evelyn Sawtelle, e la moglie del vecchio Harold Gunnison, come pure la vecchia signora Carr praticassero anch’esse la magia, ma quella nera, malefica, mortale. Ci voleva poco a crederlo, conoscendole. Era uno spunto che uno scrittore satirico avrebbe potuto sfruttare con successo. Bastava alzare di un tono il racconto, descrivere la maggior parte delle donne come tante streghe, sicure del loro fascino, intente a farsi una guerra spietata, a base di incantesimi mortali e di talismani, mentre i loro mariti, con gli occhi fissi sulla realtà, si immergevano incoscientemente nel loro lavoro. Vediamo un po’, Barrie aveva scritto un libro del genere, dal titolo Ciò che ogni donna sa, per dimostrare che gli uomini non si rendono mai conto del ruolo preminente svolto dalle loro mogli in ogni loro successo. Essendo ciechi a quel punto è evidente che potevano ancor meno sospettare che le mogli usassero la magia per conseguire lo scopo.

Il sorriso di Norman si mutò in smorfia. Ricordava che non si trattava di un’allusione distratta, ma che Tansy aveva davvero creduto, perlomeno in parte, a quelle affermazioni. Si inumidì le labbra, irritato. Indubbiamente, ore spiacevoli come queste ve ne sarebbero state ancora. Di tanto in tanto, un ricordo l’avrebbe fatto trasalire. Dopo tutto quello che era successo quella notte, era inevitabile.

Il peggio però era passato.

Si chinò ad accarezzare Totem che non voltò il capo, intenta com’era a guardare la brace nel camino.

«È ora di andare a letto, gattona. Dev’essere quasi mezzanotte. No… l’una e un quarto!»

Mentre riponeva l’orologio nel taschino, le sue dita sfiorarono il medaglione appeso all’altra estremità della catena.

Soppesò nel palmo della mano il cuoricino d’oro, regalo di Tansy. Era o no un po’ più pesante del normale?

Aprì il medaglione con l’unghia del pollice. Ma non v’era modo, perlomeno un modo visibile di arrivare nello spazio sottostante la fotografia. Dopo un attimo di riflessione sfilò accuratamente la piccola fotografia con la punta di una matita.

Dietro la fotografia c’era un minuscolo involto racchiuso in una flanella sottilissima.

Era proprio il modo di comportarsi delle donne, pensò con maligna rapidità. Fanno finta di arrendersi completamente e invece ti nascondono ancora qualcosa.

Ma forse lo aveva dimenticato.

Con rabbia gettò l’involtino nel fuoco. La fotografia danzò sulle fiamme, ricadde sul letto di brace e divampò prima che fosse possibile recuperarla. In un baleno vide il volto di Tansy arricciarsi e carbonizzarsi.

Per l’involtino ci volle più tempo. Una vampata gialla tagliò la superficie mentre la flanella crepitava. Poi si levò una fiammata alta.

In quell’attimo Norman fu percorso da un brivido, sebbene sentisse tuttora il caldo riverbero della brace. La camera gli parve oscurarsi, nelle sue orecchie avvertì una specie di rombo, come un rumore di motori, molto lontani, sotterranei. Gli parve di trovarsi di colpo nudo e disarmato di fronte a qualcosa di minacciosamente estraneo.

Totem si era voltata e osservava intensamente le ombre dell’angolo più buio. Emise un sibilo, e con un balzo di fianco fuggì dalla stanza.

Norman si accorse di tremare. Reazione nervosa, pensò. Avrebbe potuto coglierlo anche prima.

Il fuoco nel camino morì lentamente, e poi non rimase altro rumore che lo scoppiettio della brace.

Improvviso come un’esplosione squillò il telefono.

«Professor Saylor? Lei non si aspettava di sentire la mia voce, non è vero? Il motivo per cui l’ho chiamata è che ho sempre ritenuto opportuno far sapere a tutti, non importa a chi, la mia situazione. Ed è molto più di quanto si possa dire di molta gente.»

Norman allontanò il ricevitore dall’orecchio. Dal senso delle parole, sebbene confuse, pareva si trattasse dell’inizio di un discorso. Ma il tono con il quale erano pronunciate lo smentiva. Ci voleva almeno mezz’ora di esaltata declamazione per raggiungere quel tono così lamentosamente acuto, quella intonazione (ma sì, era la parola giusta) di pazzia furiosa.

«Ciò che le voglio dire, Saylor, è questo. Non sono disposto ad accettare supinamente ciò che mi è stato fatto, non mi lascerò buttar fuori da Hempnell. Mi appellerò per far cambiare i voti. E lei sa perché.»

Norman riconobbe la voce. In un baleno gli apparve l’immagine di un viso molto stretto, molto pallido, labbra e occhi sporgenti, sormontato da una folta zazzera rossa. Interruppe l’interlocutore.

«Senti, Jennings, se eri certo di essere stato trattato ingiustamente, perché non hai presentato le tue lagnanze due mesi fa, al momento della classifica?»

«Perché? Ma perché lei mi aveva messo delle fette di salame sugli occhi. Il caro professor Saylor, di così larghe vedute! Solo più tardi mi sono reso conto che lei non si era occupato di me come avrebbe dovuto, che mi aveva disprezzato e ignorato alle conferenze e nei colloqui con gli studenti, Lei si è ben guardato dal dirmi che potevo essere bocciato finché non è stato troppo tardi. E le sue domande, i suoi test pieni di tranelli… Riguardavano sempre le lezioni che io avevo saltato. E l’antipatia che lei non riusciva a nascondere per la politica di mio padre, e perché non ero quel tipo di studente brillante come Bronstein. Soltanto allora io…»

«Jennings, sii ragionevole. Hai trascurato due corsi, oltre il mio, nell’ultimo trimestre.»

«Sì, ma perché lei aveva sparso la voce in giro, influenzato gli altri contro di me, dipingendomi come lei mi vedeva. Ha fatto in modo che ognuno…»

«E pretendi di accorgertene solo adesso?»

«Certamente, La cosa mi è apparsa in un baleno, mentre ero qui a pensare. Lei è stato furbo. Io la seguivo come un cagnolino, lei faceva di me quel che voleva, tanta era la soggezione che io provavo per lei. Ma appena mi è venuto il primo sospetto, ho visto chiaramente il suo piano. Tutto si concatenava, tutto faceva capo a lei.»

«Anche il fatto che ti abbiano buttato fuori da due collegi universitari prima di approdare a Hempnell?»

«Sapevo che lei era prevenuto contro di me sin dall’inizio.»

«Jennings» disse Norman con fare stanco «io ti ho ascoltato fin che ho potuto. Se hai delle lagnanze da esporre, esponile al decano Gunnison.»

«Vuol dire che lei non farà nulla?»

«Proprio così.»

«È la sua ultima parola?»

«È la mia ultima parola.»

«Benissimo, Saylor. Tutto ciò che posso dirle è questo: stia in guardia, stia in guardia, Saylor, stia in guardia!»

Si udì lo scatto in chiusura dell’apparecchio all’altro capo del filo. Norman pose il ricevitore con garbo sulla forcella.

Maledizione ai genitori di Theodore Jennings: non perché fossero dei vanitosi ipercritici, dei reazionari dal cervello imbottito, ma perché avevano quella crudele ambizione di voler spingere negli studi universitari un ragazzo emotivo, egoista, verboso, forse un po’ subnormale, dalla mente ristretta: tale quale quella dei suoi genitori, sebbene molto meno furbo. Maledizione anche al preside Pollard così supino alla loro influenza politica, alla loro ricchezza, da lasciare il ragazzo entrare a Hempnell pur sapendo che non avrebbe mai potuto superare gli esami di laurea.

Norman pose il parafuoco di fronte al camino, spense le luci del soggiorno e s’incamminò verso la stanza da letto nel chiarore giallo che proveniva dalla luce dell’ingresso.

Il telefono trillò nuovamente. Norman lo contemplò con curiosità prima di alzare il ricevitore.

«Pronto?»

Non vi fu risposta. Aspettò un attimo e ripeté: «Pronto? Pronto?»

Nessuna risposta. Stava per riattaccare quando gli parve di udire una specie di sospiro agitato, irregolare, come soffocato.

«Chi parla?» disse vivamente «Qui parla il professor Saylor… parlate, vi prego…»

Udì ancora quel respiro e nient’altro.

Allora dal piccolo, nero, misterioso telefono uscì una sola parola, pronunciata lentamente, con difficoltà, da una voce profonda eppure strozzata, come in un momento di inimmaginabile intimità.

«Tesoro…»

Norman inghiottì la saliva. Non gli riusciva di riconoscere quella voce. Prima ancora di poter pensare a formulare una risposta, la voce aveva ripreso, più rapidamente ma senza cambiar tono.

«Oh, Norman, come sono felice di aver finalmente trovato il coraggio di parlarti, anche se tu non ci sei arrivato. Io sono qui, pronta ad accoglierti. Caro, sono pronta. Vieni da me.»

«Ma davvero?» Norman cercava di temporeggiare, sorpreso. Gli sembrò di afferrare qualcosa di noto in quella voce, non nel tono, ma nel fraseggio e nel ritmo.

«Vieni da me, amor mio, vieni. Portami in qualche luogo segreto dove saremo soltanto noi due, noi due soli. Sarò la tua amante, la tua schiava, la tua cosa. Farai di me ciò che vorrai.»

Norman sentì l’improvviso impulso di scoppiare a ridere, ma il suo cuore era turbato. Se fosse stata reale, sarebbe forse stata una cosa carina; ma in tutta questa faccenda c’era qualcosa di comico. Che si trattasse di uno scherzo?

«Sono qui, sdraiata, mentre ti parlo, e sono nuda, tesoro. Vicino al letto c’è solo una lampadina dal paralume rosa. Oh, caro; portami via, in qualche isola tropicale e ci ameremo di un amore pazzo, un amore da farti male, da farmi male, e poi faremo il bagno al chiaro di luna, e dei petali di fiori cadranno in mare tutt’intorno a noi…»

Sì, era uno scherzo, Non poteva non esserlo, si disse quasi con divertito rimpianto. Di colpo gli venne in mente la sola persona in grado di sostenere uno scherzo del genere,

«Vieni, Norman, vieni da me, portami nell’oscurità…» continuava quella voce.

«Benissimo, arrivo» rispose velocemente. «E dopo che ci saremo amati appassionatamente, accenderemo la luce ed io ti dirò: Mona Utell, non ti vergogni di te stessa?»

«Mona?» urlò in tono altissimo la voce. «Mona?»

«Sicuro, Mona!» la rassicurò ridendo. «Sei l’unica attrice che io conosca; o meglio, l’unica donna che a mio vedere possa imitare così perfettamente una sdolcinata esaltazione. E se ti avesse risposto Tansy? Cosa avresti fatto? Una imitazione di Humphrey Bogart? Come te la passi a New York? Come procede il tuo ricevimento? Cosa stai bevendo?»

«Bevendo? Norman? Ma allora non mi hai riconosciuta?»

«Eccome! Sei Mona Utell.» Ma già gli sorgeva un dubbio. Gli scherzi lungamente architettati non erano il forte di Mona. E quella voce strana, con quell’eco di esasperata familiarità diventava sempre più acuta.

«Parli seriamente, non mi hai riconosciuta?»

«No, credo di no» disse alzando un po’ il tono per adeguarlo a quello con cui gli era stata rivolta la domanda.

«No davvero?»

Norman sentì che quelle due parole premevano il grilletto di una esplosione emotiva, ma non si fermò e continuò a dire “no, no” in maniera impaziente. All’altro capo del telefono la voce emise uno strillo acutissimo. Totem, che stava svignandosela, voltò la testa udendo quel rumore.

«Sporcaccione! Lurido sporcaccione. Dopo tutto ciò che mi hai fatto. Dopo che hai deliberatamente eccitato i miei sensi! Dopo che mi hai spogliata con gli occhi centinaia di volte…»

«Prego?»

«Te la do io… sdolcinata esaltazione! Tu sporco maestrino da due soldi. Torna alla tua Mona, torna da quella tua sciocca moglie… e andate tutti e tre all’inferno!»

Ancora una volta Norman si trovò con un ricevitore muto in mano. Lo pose sul sostegno con un sorriso stanco. Ah! La vita austera di un professore di un collegio universitario! Cercò di immaginare quale donna potesse nutrire una segreta passione per lui: ma non approdò a nulla. L’idea che fosse Mona Utell sul momento gli era parsa verosimile. Era di certo capace di chiamarlo sin da New York per fargli uno scherzo. Uno scherzo, ecco ciò che le occorreva per rianimare un ricevimento dopo-teatro.

Ma non era il tipo da concludere uno scherzo in quella maniera. Mona voleva sempre finire in una gran risata e con lei il suo interlocutore. Forse qualcun altro aveva ideato quella burla.

O forse esisteva realmente qualcuno che… Si scrollò nelle spalle! Che asineria! Ora lo avrebbe raccontato a Tansy e lei si sarebbe divertita un mondo. Si diresse verso la camera da letto.

Solo a quel momento ricordò ciò che era successo in precedenza durante quella serata. Le due chiamate telefoniche glielo avevano fatto dimenticare.

Era arrivato alla porta della stanza da letto. Si volse lentamente indietro e guardò il telefono. La casa era molto silenziosa.

Notò che in certo senso quelle due chiamate telefoniche erano arrivate proprio in quel particolare momento e costituivano una sgradevole coincidenza.

Ma uno scienziato doveva considerare con sano disprezzo le coincidenze.

Udì il respiro calmo, regolare di Tansy.

Spense la luce nell’atrio e se ne andò a letto.

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