19

«Questa volta la cosa è molto grave, Norm» disse Harold Gunnison. «Fenner e Liddell vogliono proprio la tua testa.»

Norman si avvicinò con la sedia, come se quella conversazione fosse il vero motivo della sua visita allo studio di Gunnison quella mattina.

Gunnison proseguì. «Io temo che vogliano riesaminare la faccenda della Van Nice, col pretesto che non vi può essere fumo senza arrosto. Tireranno in ballo anche Theodore Jennings per usarlo contro di te, pretenderanno che il suo “esaurimento nervoso” si è aggravato per la tua ingiustificata ostilità, la tua indebita severità nei suoi confronti e così via. Naturalmente abbiamo tutti gli elementi per una strenua difesa del tuo operato. Ma il solo fatto di parlare di queste cose influirà negativamente sugli altri consiglieri. C’è poi quel tuo discorso sul sesso che terrai alle madri degli allievi, e i tuoi amici, quegli attori che hai invitato in collegio. Personalmente io non faccio alcuna obiezione, ma guarda che il momento è scelto male.»

Norman annuì, disciplinatamente. La signora Gunnison sarebbe dovuta arrivare tra poco. La cameriera gli aveva appena detto al telefono che lei era uscita per recarsi da suo marito.

«Naturalmente queste accuse non hanno alcun peso in sé.» Gunnison appariva insolitamente grave, lo sguardo preoccupato. «Ma, come ti ho detto, lasciano una traccia antipatica, possono essere un cuneo col quale scuotere la tua posizione. Il vero pericolo è rappresentato da un attacco limitato ma concentrato sul modo di condurre i tuoi corsi, sui tuoi discorsi in pubblico, e forse su alcuni aspetti della tua vita di società. Poi seguirà un discorso sulla necessità di effettuare delle restrizioni, ove siano opportune, capisci ciò che voglio dire?» Fece una pausa. «Ciò che più mi dà noia è il fatto che Pollard si sia raffreddato nei tuoi confronti. Io gli ho detto esattamente ciò che pensavo della nomina di Sawtelle, e mi ha risposto che i consiglieri glielo hanno imposto. Non è cattivo, ma ha il pallino della politica.» Gunnison si strinse nelle spalle come se fosse un fatto di dominio pubblico che la distinzione fra professori e uomini politici fosse vecchia come il mondo.

Norman si scosse. «Temo proprio di averlo insultato la settimana scorsa. Abbiamo avuto una lunga discussione e io ho perso le staffe.»

Gunnison scosse la testa. «Ciò non basta a spiegare il suo atteggiamento. Gli insulti, lui è in grado di incassarli. Se ti si mette contro è solo perché lo ritiene necessario e opportuno (che parola odiosa!) ai fini dell’opinione pubblica. Tu sai come dirige il collegio. Ogni due o tre anni bisogna che getti qualcuno in pasto alle fiere.»

Norman ascoltava appena. Pensava al corpo di Tansy, così come l’aveva lasciato, con le braccia e le gambe legate, la mascella pendente, il respiro affannoso, il fiato atroce a causa del whisky che le aveva fatto ingoiare. Era una via tortuosa, quella che egli aveva intrapreso, ma per arrivare a una soluzione non ve n’erano altre. A un certo momento, la notte precedente, si era quasi deciso a chiamare un medico e forse a farla ricoverare. Ma se lo avesse fatto avrebbe perduto per sempre ogni possibilità di ricuperare la ragione di Tansy. Quale psichiatra avrebbe creduto al complotto malefico di cui Norman conosceva l’esistenza, diretto contro l’integrità mentale di sua moglie? Per ragioni analoghe non c’era alcun amico al quale rivolgersi per un aiuto. No, l’unica strada era quella di puntare diritto alla signora Gunnison. Ma non era piacevole l’ipotesi di essere inquadrato nei titoli dei giornali come ad esempio LA MOGLIE DI UN PROFESSORE VITTIMA DI TORTURE. LEGATA E CHIUSA IN UNA DISPENSA DAL MARITO.

«È veramente molto grave, Norman» ripeteva Gunnison. «Mia moglie ne è convinta, ed è molto in gamba in queste faccende, conosce la gente.»

Sua moglie. Ubbidientemente Norman annuì.

«Per nostra sfortuna i nodi vengono al pettine in questo momento.» continuò Gunnison «mentre tu hai un sacco di guai, malattie e altro.» Norman notò che Gunnison guardava con una certa curiosità i suoi cerotti all’angolo dell’occhio e sotto una narice. Ma non gli diede alcuna spiegazione.

Gunnison era irrequieto, si voltò poi si riadagiò nella poltrona.

«Norm» disse «ho la sensazione che qualcosa non vada. Normalmente tu sei in grado di superare facilmente contrarietà di questo genere. Sei uno dei pochi uomini in gamba che abbiamo qui; ma io ho l’impressione che ci sia qualcosa di storto in tutto l’insieme.»

Era un’ovvia offerta a confidarsi e Norman sapeva che era fatta in buona fede. Per una frazione di secondo considerò l’idea di dire a Gunnison una piccolissima parte della verità. Ma equivaleva a portare i suoi guai in tribunale, e poteva immaginare, con la sua visione acuta, quasi allucinata, frutto della sua estrema stanchezza, come si sarebbero svolte le cose.

Come si poteva pensare di portare Tansy al banco dei testimoni anche nella sua condizione precedente di pazzia non furiosa?

“Lei dice, signora Saylor, che la sua anima le è stata rubata dal corpo?” “Sì” “Lei è conscia dell’assenza della sua anima?” “No. Non sono conscia di nulla” “Non conscia? Non vorrà dire che lei è inconscia?” “Certo. Io non posso né sentire né vedere” “Lei vuol dire che non mi vede né mi sente?” “Esattamente” “E allora come mai…”

Colpetto di martello da parte del giudice: “Se queste risate non cessano immediatamente, faccio sgombrare l’aula.”

Oppure la signora Gunnison era chiamata a testimoniare e lui, Norman, scoppiava in un richiamo appassionato alla giuria: “Signori, guardate quegli occhi, guardateli bene, vi supplico. C’è l’anima di mia moglie dietro quegli occhi, convincetevi, ve ne prego.”

Udì invece Gunnison che gli chiedeva: «Che hai, Norm?»

L’autentica gentilezza della voce lo commosse e lo fece tornare in sé. Stanco e improvvisamente assonnato tentava di formulare una risposta.

In quel momento entrò la signora Gunnison.

«Buon giorno» disse «sono felice che siate finalmente riusciti a parlare, voi due.» Poi con espressione protettiva guardò Norman attentamente. «Scommetto che lei non dorme da almeno due notti» disse bruscamente. «E cosa si è fatto sul viso? È stato il suo gatto a saltarle addosso?»

Gunnison rise, come faceva sempre per i modi burberi di sua moglie. «Che donna! Adora i cani e odia i gatti. Ma ha ragione sulla questione del sonno, Norman.»

La vista di quella donna e il suono della sua voce risvegliarono Norman portandolo a uno stato di gelida lucidità. Hulda Gunnison aveva l’aspetto di qualcuno che dorme regolarmente dieci ore per notte. Un costoso vestito verde faceva risaltare il rosso dei suoi capelli e le conferiva una specie di bellezza vistosa. La sottoveste pendeva e il soprabito era abbottonato storto; ma ciò suscitava in Norman l’idea di una trascuratezza privilegiata. Tipica di un personaggio potente che si ritiene superiore ai normali dettami dell’eleganza. Per una volta non aveva con sé la sua enorme borsa. Il cuore di Norman sussultò.

Non si fidava a guardarla negli occhi. Fece per alzarsi.

«Non andartene, Norm» disse Gunnison. «C’è ancora qualcosa di cui dobbiamo parlare.»

«Ma sì, perché non rimane?» disse la signora Gunnison.

«Mi dispiace» rispose Norman. «Tornerò nel pomeriggio se lei ha tempo, o domattina al più tardi.»

«Benissimo, non mancare» disse Gunnison gravemente. «C’è la riunione dei consiglieri domani pomeriggio.»

La signora Gunnison si sedette nella poltrona che Norman aveva appena lasciato.

«Mi saluti Tansy» gli disse. «La vedrò domani dai Carr, cioè se si è rimessa.» Norman annuì, poi uscì rapidamente e chiuse la porta dietro di sé.

Mentre aveva ancora la mano sulla maniglia, vide la borsa verde della signora Gunnison sul tavolo. Era dalla parte della vetrina che conteneva le gocce di Rupert e altre stranezze. Il suo cuore sussultò di nuovo.

In quell’anticamera, che serviva da segreteria, vi era una studentessa impiegata. Norman la interpellò.

«Signorina Miller» le disse, «vorrebbe essere così gentile da andarmi a prendere le pagelle di questi studenti?» E pronunciò mezza dozzina di nomi.

«Le pagelle sono nell’archivio, professor Saylor» disse un po’ dubbiosa.

«Lo so, ma dica all’incaricato che la mando io. Il professor Gunnison ed io le vogliamo riesaminare.»

Diligentemente prese nota dei nomi.

Mentre la porta si richiudeva dietro la ragazza, egli aprì il primo cassetto della scrivania, dove sapeva che vi era la chiave della vetrina.

Alcuni minuti dopo uscì la signora Gunnison.

«Credevo che lei fosse uscito» esclamò in tono asciutto. Poi con i suoi soliti modi burberi: «Aspettava che io me ne andassi per parlare da solo a solo con Harold?»

Egli non rispose, ma le guardò con insistenza la punta del naso.

Lei prese subito la borsa. «Non è il caso di farne un segreto» disse «io ne so tanto quanto lei, dei suoi guai, e forse anche di più. Per essere franchi, le cose si mettono piuttosto male.» La sua voce assumeva l’arroganza del vincitore. Ma gli sorrise.

Lui continuava a guardarle il naso.

«Ed è inutile che lei faccia finta di non essere seccato» continuò, irritata del suo silenzio «perché so benissimo che lo è e che domani Pollard chiederà le sue dimissioni.» Poi aggiunse: «Ma che cosa sta guardando?»

«Nulla» rispose, ed evitò il suo sguardo. Sbuffò, incredula, e prese dalla borsetta lo specchietto, lo guardò un momento senza capire, poi ispezionò tutto il viso in dettaglio.

Sembrò a Norman che la seconda lancetta dell’orologio si fermasse in eterno.

Molto dolcemente, ma molto rapidamente, con voce del tutto casuale che non fece neanche voltare la signora Gunnison, le disse: «Io so che avete rubato l’anima di mia moglie, e so come avete fatto. È il mio ramo e so come si procede. Per esempio se siete in una stanza con qualcun altro di cui volete rubare l’anima e quella persona si guarda allo specchio, e lo specchio si rompe mentre l’immagine del viso vi è tuttora riflessa, allora…»

Con un rapido, leggero rumore argentino, appena udibile, lo specchio in mano alla signora Gunnison si polverizzò in una piccola nube di polvere iridescente.

Improvvisamente parve a Norman che un altro peso si fosse aggiunto alla sua mente, che una oscurità intangibile premesse sui suoi pensieri…

Il grido soffocato di sorpresa, o di paura, che uscì dalle labbra della signora Gunnison si interruppe di colpo. Qualcosa che somigliava a un’espressione di ebetudine invase il suo volto, ma era dovuta al fatto che tutti i suoi muscoli si erano rilassati.

Norman fece un passo avanti e le prese il braccio. Per un secondo lei lo guardò senza capire poi barcollò e fece lentamente un passo, poi un altro mentre lui le diceva: «Venga con me, è la sua unica possibilità.»

Egli tremava, faceva fatica a credere alla sua riuscita, mentre lei lo seguiva nel corridoio. Vicino alle scale incontrarono la signorina Miller che tornava indietro con le pagelle.

«Mi spiace di averla disturbata» disse lui «perché ci siamo accorti di non averne più bisogno. Sia gentile e le riporti in archivio.»

La ragazza annuì con un sorriso educato ma un po’ ironico. Pareva pensare: «Ah, quei professori!»

Mentre Norman conduceva una signora Gunnison insolitamente docile fuori del reparto amministrativo, quella strana oscurità premeva sempre sui suoi pensieri. Era qualcosa di assolutamente diverso da tutto ciò che avesse provato sino allora.

Improvvisamente si aprì uno spiraglio in quella oscurità, come si aprono le nubi per lasciar passare uno stretto raggio di luce rossa. Solo che le nubi temporalesche erano ora all’interno del suo cervello e la luce rossa era una collera furiosa, impotente. Eppure quella sensazione non gli era completamente nuova.

A cospetto di quello spiraglio, la mente di Norman si rannicchiò. Il collegio, davanti a lui, parve tremare e oscillare, tutto colorato di un debole chiarore rossastro.

Pensò: “Se esiste la cosa che chiamano ‘sdoppiamento della personalità’, e se si produce una spaccatura fra due diverse coscienze…”

Ma questa era pazzia.

Bruscamente riaffiorò un altro ricordo, parole uscite dalle labbra di Tansy nello scompartimento del treno: “L’anima è circondata dal cervello”. E poi: “Se viene ostacolata e non riesce a rientrare nel proprio corpo, è irresistibilmente attratta da un altro, che questo possegga già un’anima o no. L’anima prigioniera è generalmente racchiusa nel cervello di chi l’ha catturata”.

In quel momento, da quello spiraglio di luce portato sull’onda di rabbia scagliata nel suo cervello, scaturì un pensiero intelligibile. Quel pensiero diceva solamente: “Sciocco, perché lo hai fatto?”. Ma quel pensiero, come quella rabbia incandescente, somigliava tanto alla signora Gunnison, ed egli accettò, sia che volesse dire per lui pazzia o no, sia che significasse stregoneria o no, l’idea che la mente della signora Gunnison si trovasse dentro il suo stesso cervello e dialogasse con la sua stessa mente.

Per un attimo guardò il viso molle di quell’enorme corpo femminile che egli stava spingendo attraverso il campus.

Per un attimo si sgomentò all’idea di toccare, con il suo cervello, una personalità denudata. Ma fu solo un attimo. Poi, che fosse pazzia o no, la sua accettazione fu totale. Attraversò il campus, parlando dentro di sé con la signora Gunnison.

La domanda fu ripetuta: «Come hai fatto?»

Prima che se ne rendesse conto i suoi pensieri avevano risposto: «È stato lo specchio fatto col vetro di Rupert, che stava nella vetrina. Il calore delle tue dita lo ha fatto andare in pezzi. Io lo avevo tenuto isolato con un fazzoletto mentre lo trasferivo dalla vetrina alla tua borsetta. Secondo una credenza primitiva, l’immagine in uno specchio è l’anima di chi si specchia, o un veicolo per quest’anima. Se lo specchio si rompe mentre l’immagine vi è riflessa, l’anima rimane per sempre chiusa fuori del corpo.» Tutto questo discorso, dato che non era rallentato dalla parola, fu formulato in un lampo.

Con la stessa fulmineità, il pensiero successivo della signora Gunnison gli giunse da quello spiraglio nel blocco di oscurità. «E dove porti ora il mio corpo?»

«A casa mia.»

«Che cosa vuoi?»

«L’anima di mia moglie.»

Seguì un lungo silenzio. La spaccatura si chiuse, poi si riaprì.

«Tu non la puoi prendere, io la tengo prigioniera, come tu tieni prigioniera la mia. Ma la mia anima te la nasconde, e la trattiene prigioniera.»

«Non la posso prendere, d’accordo. Ma tratterrò la tua finché non restituisci a mia moglie la sua anima.»

«E se mi rifiuto?»

«Tuo marito è una mente realistica. Non crederà mai a ciò che il tuo corpo gli dirà. Consulterà gli alienisti, i medici migliori, sarà molto addolorato, ma finirà per far ricoverare il corpo di sua moglie in un asilo per pazzi.»

Norman avvertì un senso di disfatta e di sottomissione, e anche un senso di panico, nella risposta non pronunciata. Ma la disfatta e la sottomissione non erano ancora apertamente accettati.

«Tu non sarai in grado di trattenere la mia anima, perché la odi. Ti fa ribrezzo. La tua mente non la sopporterà.»

Per appoggiare questa sua dichiarazione, giunse da quella spaccatura un rivoletto che si gonfiò in un baleno. Le cose che egli odiava vennero in piena luce e le dovette subire. Norman accelerò il passo, e il corpo che si trascinava dietro cominciò ad ansimare.

«C’è stata Ann» dicevano i pensieri della signora Gunnison, non proprio con le parole ma con la pienezza della memoria. «Ann venne a lavorare da me otto anni fa. Era una creatura fragile, bionda, ma in grado di lavorare duramente tutto il giorno. Era docile, molto sottomessa e in preda alla paura. Lo sai che si può governare una persona solo con la paura senza adoperare un atomo di forza? Una parola un po’ brusca, uno sguardo severo agiscono per sottinteso; non è ciò che si dice direttamente che conta. Gradatamente, acquisii su di lei tutto il potere che sulla ragazza avevano avuto il padre, i maestri, il confessore. La facevo piangere solo a guardarla in un certo modo. Le incutevo terrore piantandomi sulla porta della sua camera. Potevo obbligarla a reggere piatti bollenti mentre ci serviva a tavola, e farla attendere a mio piacere mentre continuavo a discorrere con Harold. Ho visto poi com’erano le sue dita.»

Nella stessa maniera mentale Norman apprese le storie di Clara, di Milly, di Mary e di Ermengarde. Non riusciva a scindere i suoi pensieri da quelli della signora Gunnison, non poteva chiudere lo spiraglio, sebbene fosse in suo potere allargarlo. Un po’ come accade per le meduse, e per certe piante carnivore, l’anima di lei si apriva sino a cingere quella di Norman tant’è che pareva lui il prigioniero anziché lei.

«Poi venne Trudie. Trudie mi adorava. Era una ragazzina lenta e un po’ stupida. Proveniva da una famiglia contadina. Passava delle ore ad occuparsi dei miei vestiti. La incoraggiavo in varie maniere al punto che tutto ciò che mi apparteneva le pareva sacro. In ultimo avrebbe fatto qualsiasi cosa per me, il che era molto divertente, perché arrossiva facilmente e non era mai riuscita a sbarazzarsi del suo senso di vergogna.»

Ma erano arrivati sulla soglia di casa, e il flusso dei pensieri ripugnanti cessò. Lo spiraglio si restrinse, divenne una minuscola fessura.

Spinse la signora Gunnison sino alla porta dello spogliatoio di Tansy. Indicò la povera figura legata, allungata sulla coperta che egli aveva steso sul pavimento. Giaceva nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata con gli occhi chiusi, la mascella pendente, il fiato grosso. Quella visione parve aggiungere un’ulteriore pressione sulla sua mente, ma questa proveniva dal basso ed entrava attraverso le orbite.

«Liberala da ciò che hai introdotto in lei per sortilegio» si sorprese a pronunciare.

Ci fu una pausa. Un ragno nero uscì dalla gonna di Tansy e si mise a camminare sulla coperta. Nell’attimo in cui pensò: “Eccolo, è quello!” Norman si buttò sull’insetto e lo schiacciò col piede mentre cercava di scappare sul pavimento. Egli fu conscio di un pensiero molto velato nella sua mente: “La sua anima ha cercato il corpo più vicino. E ora il mio fedele sovrano non eseguirà più alcun incarico per me. Non animerà né carne umana, né legno, né pietra. Mi dovrò cercare un altro cane.”

«Restituiscile ciò che le hai tolto.»

Questa volta la pausa fu più lunga, lo spiraglio si chiuse del tutto, la figura legata si agitò come se stesse per rotolare su se stessa. Le labbra si mossero, la mascella rilassata si strinse. Conscio solamente di quel peso oscuro sulla sua mente e di una consapevolezza dei sensi così acuta che credette di avvertire il battito del cuore nel corpo di Tansy, egli si chinò, tagliò la corda, tolse i tamponi che aveva messo ai polsi e alle caviglie perché i legacci non le facessero male.

La testa rotolava qua e là senza posa. Le labbra si muovevano, pareva che dicesse “Norman”. Le palpebre batterono ed egli si sentì come un brivido che gli attraversava il corpo. Poi in un fluire improvviso, gioioso, come un fiore che sboccia miracolosamente in un attimo, l’espressione tornò sul suo viso, le mani abbandonate si rianimarono, si posarono sulle spalle di Norman, e dagli occhi aperti, un’anima senza timore, sana, lucida lo guardò in faccia.

Un istante dopo, l’oscurità repellente che premeva sul suo cervello sparì.

Con uno sguardo sconfitto, velenoso, la signora Gunnison si voltò ed uscì. Norman udì i suoi passi allontanarsi, la porta dell’ingresso che si apriva. Poi le braccia di Norman cinsero Tansy, le loro labbra s’incontrarono.

Загрузка...