15

Per la terza volta tornavano sulla stessa domanda. Norman aveva la sensazione agghiacciante di seguire un robot che gira costantemente nello stesso cerchio, calpestando gli stessi fili d’erba, mentre pone ogni volta i piedi nelle stesse orme.

Pur convinto che neanche questa volta avrebbe fatto un passo avanti, egli ripeté la domanda. «Ma come fai a non avere alcuna consapevolezza e allo stesso tempo sapere che non ce l’hai? Se la tua mente è vuota non puoi contemporaneamente essere conscia di questo vuoto.»

Le lancette dell’orologio segnavano quasi le tre del mattino. Il freddo e il disagio del punto più basso della notte avevano invaso la misera stanza dell’albergo. Tansy sedeva ritta, irrigidita sulla poltrona. Indossava la vestaglia di Norman e le sue pantofole foderate di pelo. Aveva una coperta sulle ginocchia e un asciugamano annodato a turbante sulla testa. Questo travestimento avrebbe dovuto darle un’apparenza infantile e forse anche ingenuamente attraente, invece no.

Sotto quell’asciugamano annodato sul capo non vi era nulla, come se il cranio fosse stato scoperchiato e il cervello rimosso. Una coppa vuota insomma. Era l’impressione che faceva a Norman ogni volta che commetteva l’errore di guardare Tansy negli occhi.

Le labbra pallide si schiusero. «Non so nulla. Parlo soltanto. Mi hanno portato via l’anima. Ma la voce è una funzione del mio corpo.»

Non si poteva nemmeno dire che il tono di voce fosse quello di chi spiega una cosa con pazienza. Era troppo neutra e uniforme. Le parole pronunciate chiaramente, e uniformemente staccate fra loro, parevano tutte uguali. Erano come il rumore di una macchina.

Non era intenzione di Norman soffocare di domande quella pietosa, rigida figura, ma sentiva di dovere, a ogni costo, risvegliare una scintilla di emozione in quella maschera impassibile. Doveva scoprire un punto intelligibile di partenza affinché la mente stessa di Norman potesse cominciare a lavorare efficacemente.

«Ma senti, Tansy, se tu puoi parlare di questa tua situazione vuoi dire che sei cosciente. Sei qui, con me, in questa stanza…»

Scosse meccanicamente la testa incappucciata; la stessa mossa di certe bambole.

«Qui con te non c’è nient’altro che un corpo. Io non è qui…»

Nella sua mente Norman aveva già fatto la correzione: io non sono… prima di rendersi conto che non era un errore di verbo. Trasalì.

«Vuoi dire» le chiese «che non vedi e non senti nulla? che tutto è oscurità, per te?»

Di nuovo la mossa meccanica del capo, che tradiva una convinzione più forte di qualsiasi infiammata protesta.

«Il mio corpo vede e sente perfettamente. Non ha subito alcuna offesa e funziona in ogni sua parte. Ma dentro non c’è nulla. Neppure l’oscurità.»

La mente di Norman, stanca ma sempre in agguato, balzò sulla teoria della psicologia del comportamento, e sulla sua asserzione fondamentale, cioè che le reazioni umane si possono spiegare tutte e in modo convincente, senza doversi neanche una volta riferire alla consapevolezza dell’individuo. Non occorre neanche assumere che la consapevolezza esista. Davanti a sé Norman aveva la prova perfetta di questa tesi. Forse non tanto perfetta, perché il comportamento di questo corpo mancava di tutti quei piccoli manierismi la cui somma costituisce la personalità umana. Il modo con cui Tansy strizzava gli occhi quando rifletteva su un problema difficile, quella piega a lui ben nota agli angoli della bocca quando si sentiva lusingata o divertita. Quelli erano spariti. Anche in quel modo di scuotere la testa tre volte, suo gesto tipico, quell’arricciare il naso alla maniera dei conigli, tutto era diventato ormai il NO di un robot.

Gli organi dei sensi rispondevano ancora allo stimolo esterno. Inviavano al cervello degli impulsi che lo attraversavano generando altri impulsi che agivano sui muscoli e sulle ghiandole, compreso gli organi motori della parola. Ma nient’altro. Neanche uno di quei fremiti intangibili che noi chiamiamo coscienza e che corrono per tutta la rete della corteccia cerebrale. Ciò che impartiva stile, lo stile di Tansy, a ogni movimento, a ogni espressione del suo corpo, era sparito. Rimaneva soltanto un organismo fisiologico, senza traccia o indicazione di personalità. Nemmeno un’anima di pazzo o di idiota (sicuro! perché non usare quel vecchio termine, ora che aveva un ovvio, specifico significato?) affiorava in quegli occhi verdi e grigi le cui palpebre battevano con la regolarità di una macchina, ma solo per inumidire la cornea.

Provò una sensazione di malinconico sollievo perché era riuscito a descrivere le condizioni di Tansy in termini ben definiti. Ma la descrizione stessa gli ricordava un articolo di cronaca nel quale si diceva che un vecchio si era tenuto per anni, in camera, la salma di una giovane donna che egli aveva amato e che era morta di un male incurabile. Era riuscito a preservare il corpo in uno stato di straordinaria freschezza per mezzo di cera o altri ingredienti e ogni sera le parlava, ed era persuaso che un giorno sarebbe tornata in vita, fino al momento in cui la cosa fu scoperta, e la salma debitamente seppellita.

Fece improvvisamente una smorfia. “Maledizione” disse fra sé. Perché lasciar vagare la sua mente intorno a queste fantasticherie, quando era evidente che Tansy soffriva di una inconsueta malattia nervosa, di strane auto-convinzioni?

Evidente?

Fantasticherie.

«Tansy» le chiese «quando la tua anima si è allontanata, come mai non sei morta?»

«Generalmente l’anima rimane a galla sino all’ultimo momento, senza potersi liberare, e svanisce, o muore, quando muore il corpo» rispose la voce; le parole erano pronunciate a intervalli regolari, come se seguissero il tempo di un metronomo. «Ma Colui-che-cammina-dietro mi strappava la mia. C’era il peso di un’acqua verde sul mio viso. Sapevo che era mezzanotte. Sapevo che tu non ce l’avevi fatta. In quel momento di disperazione Colui-che-cammina-dietro è stato in grado di portarmi via l’anima. Allo stesso momento, le braccia del tuo Agente si strinsero su di me, riportandomi alla superficie, verso l’aria. La mia anima, che era ancora vicina, seppe cos’era accaduto, ma era già troppo discosta per tornare in me. La doppia angoscia è l’ultima cosa che ha impresso sul mio cervello. Il tuo Agente e Colui-che-cammina-dietro conclusero che ognuno aveva ottenuto ciò che era stato mandato a prendere, e così fra loro non vi fu litigio.»

L’immagine che queste parole avevano suscitato nella mente di Norman era così atrocemente vivida che gli sembrò impossibile fossero state pronunciate da una semplice macchina fisiologica. Eppure solo una macchina fisiologica avrebbe potuto raccontare questa storia con una sobrietà d’espressione così totale.

«Dimmi se c’è qualcosa che ti possa toccare» le disse a voce forte, improvvisamente, il cuore stretto da un’intollerabile angoscia vedendo la vacuità del suo sguardo. «Non c’è nessuna cosa che tu desideri, che ti strugga?»

«Sì, una.» Questa volta il cenno meccanico del capo non significava dissenso ma assenso. Per la prima volta vi fu un cenno di vita in lei, un movente. La punta pallida della lingua leccò avidamente il labbro smunto. «Voglio la mia anima.»

Rimase senza fiato. Ora che aveva potuto risvegliare in lei un sentimento, ecco che questo sentimento egli lo odiava. Vi era in esso qualcosa di animalesco, simile al contorcimento di un verme sensibile alla luce che cerca avidamente il sole.

«Voglio la mia anima» ripeté la voce meccanicamente, e Norman si sentiva lacerare il cuore più di quanto lo avrebbe fatto un’implorazione o una supplica. «All’ultimo momento, sebbene non potesse tornare in me, la mia anima ha impresso quella aspirazione nel mio cervello. Sapeva che cosa le sarebbe toccato. Sapeva che vi sono molte cose che si possono fare a un’anima. Aveva tanta paura.»

Norman pronunciò a denti stretti «Dove credi che sia ora la tua anima?»

«L’ha presa lei, quella donna dagli occhietti spenti.»

La guardò. Qualcosa cominciò a martellare dentro di lui. Sentiva che l’ira lo stava invadendo e per il momento non gliene importava niente che si trattasse di pazzia furiosa o no.

«Evelyn Sawtelle?» le chiese con voce fioca.

«Sì, ma non è prudente parlare di lei chiamandola per nome.»

La mano di Norman balzò sul telefono. Doveva fare qualcosa di definito, se no perdeva il controllo di se stesso.

Riuscì, dopo alcuni minuti, a svegliare il portiere di notte e farsi dare il centralino locale.

«Sì, signore» disse la voce cantilenante. «Hempnell 1284. Vuole fare una chiamata personale a Evelyn Sawtelle? E-V-E-L-Y-N S-A-W-T-E-L-L-E? Riagganci. Prego. Può attendere? Ci vorrà molto tempo per la comunicazione.»

«Voglio la mia anima, voglio andare da quella donna. Voglio andare a Hemptell…» Ora che egli aveva provocato quel cieco desiderio nella creatura che gli stava di fronte, esso non si fermava più. Ricordava un grammofono fermo sullo stesso solco, o un giocattolo meccanico spinto con un buffetto su un nuovo circuito.

«Sì, cara, andremo a Hempnell.» Non riusciva ancora a controllare il suo respiro. «La riprenderemo.»

«Ma dobbiamo partire al più presto per Hempnell. I miei vestiti sono rovinati dall’acqua. Devo farli lavare e stirare dalla cameriera.»

Lentamente, con movimenti uniformi, si mise in piedi dirigendosi al telefono.

«Ma Tansy» obiettò lui «sono le tre del mattino. Non puoi far salire la cameriera ora.»

«I miei vestiti devono essere lavati e stirati. Devo andare a Hempnell subito.»

Le parole potevano sembrare quelle di una donna ostinata, sciocca ed egoista, ma il loro tono era più neutro di quello di una sonnambula.

Continuava ad andare verso il telefono. Sebbene egli non se l’aspettasse, si dovette scansare per lasciarla passare, schiacciandosi contro il letto.

«Ma anche se ci fosse una cameriera» le disse «non ti risponderebbe a quest’ora di notte.»

Il viso esangue si voltò verso di lui senza mostrare interesse.

«La cameriera è una donna. Verrà appena sentirà la mia voce.»

Chiamò il portiere di notte. «C’è una cameriera in questo albergo? La mandi in camera mia… Allora le telefoni… Non posso aspettare sino al mattino… ne ho bisogno subito. Grazie.»

Ci fu un lungo intervallo di attesa, poi Norman udì nel microfono il campanello dell’altro telefono. Immaginò la voce insonnolita che finalmente si accingeva a rispondere.

«È lei la cameriera? Venga subito, camera 37.» E indovinò pure la risposta indignata. Poi: «Non sente la mia voce? Non capisce in quali condizioni mi trovo?… Sì, venga immediatamente.» E ripose il telefono sul supporto.

«Tansy.» Cominciò lui… I suoi occhi si posavano su di lei, e si trovò ancora una volta a dover far domande, sebbene non ne avesse l’intenzione. «Sei in grado di udire le mie domande e di rispondere?»

«Posso rispondere alle domande. Sono tre ore che rispondo alle tue domande.»

Ma allora, intervenne la logica, se Tansy può ricordare ciò che è successo in queste tre ore, sicuramente… Eppure cos’è la memoria se non un solco tracciato nel sistema nervoso? Per spiegare che cos’è la memoria non c’è bisogno di fare intervenire la coscienza. Smettila di picchiare la testa contro il muro, pazzo che non sei altro, intervenne l’altra parte di se stesso. L’hai guardata negli occhi, non è vero? E allora sbrigatela.

«Tansy» chiese «quando dichiari che Evelyn Sawtelle ti ha portato via l’anima, che cosa intendi dire?»

«Soltanto quello.»

«Non intendi dire che lei, la signora Carr e pure la signora Gunnison hanno una specie di potere psicologico su di te, che ti trattengono in una specie di schiavitù emotiva?»

«No.»

«Ma la tua anima…»

«È la mia anima.»

«Tansy…» gli era odioso tornare su quell’argomento, ma sentiva di doverlo fare. «Credi che Evelyn Sawtelle sia una strega, che si dedichi alla magia, come facevi tu?»

«Sì.»

«E anche la signora Carr e la signora Gunnison?»

«Anche loro.»

«Vuoi dire… Tu credi che stiano facendo le stesse cose che facevi tu per i loro mariti, tentare di proteggerli, farli progredire nella carriera?»

«Vanno anche oltre.»

«Che intendi dire?»

«Usando tanto la magia nera quanto quella bianca. A loro non importa se fanno soffrire, se torturano o se uccidono.»

«Perché sono diverse, perché sono così?»

«Le streghe sono come tutti gli altri individui. Ci sono i puritani, ci sono quelli che hanno il culto di se stessi, quelli che ingannano se stessi, quelli che credono che il fine giustifichi i mezzi.»

«Credi che tutte e tre siano in lega contro di te?»

«Sì.»

«Perché?»

«Perché mi odiano.»

«Per quale motivo?»

«In parte a causa tua e a causa del danno che una tua promozione infliggerebbe ai loro mariti e quindi anche a loro. Ma soprattutto mi odiano perché intuiscono che nel mio intimo sono di una classe diversa dalla loro. Avvertono che sebbene in superficie io mi conformi alla regola, in realtà io non ho il culto della rispettabilità. Le streghe, vedi, hanno tendenza ad adorare gli stessi idoli della gente. Temono me perché non mi inchino davanti a Hempnell, sebbene la signora Carr, credo, abbia anche un altro motivo per odiarmi.»

«Tansy» continuò e si fermò un attimo. «Tansy, per quale motivo credi che quelle tre donne siano delle streghe?»

«Perché è così.»

Vi fu un lungo silenzio nella stanza, mentre i pensieri di Norman giravano intorno all’argomento della paranoia. E poi: «Ma, Tansy, non vedi ciò che questa asserzione può implicare? Che tutte le donne sono delle streghe.»

«Sì.»

«Ma come puoi…»

«Zitto…» fu detto in un soffio, come un’uscita di vapore da un radiatore; ma mise a tacere Norman. «Eccola.»

«Chi?»

«La cameriera. Nasconditi e ti farò vedere qualcosa.»

«Nascondermi?»

«Sì» Tansy gli si fece incontro e lui automaticamente indietreggiò. La sua mano toccò una porta.

«L’armadio?» chiese, e s’inumidì le labbra.

«Sì, nasconditi lì dentro e ti farò una dimostrazione.» Norman udì un rumore di passi nel corridoio. Esitò, aggrottò la fronte, poi fece ciò che sua moglie gli chiedeva.

«Lascerò la porta semiaperta» disse. «Ecco, così.»

L’assenso meccanico del robot fu l’unica risposta. Udì che bussavano alla porta, poi i passi di Tansy e il rumore di una porta che si apre.

«Ha chiesto di me, signora?» Contrariamente alle previsioni di Norman, la voce era quella di una giovane. Pareva che deglutisse parlando.

«Sì, vorrei far lavare e stirare alcune cose mie. Sono cadute nell’acqua di mare. Le ho posate sull’orlo della vasca da bagno. Vada a prenderle.»

La figura della cameriera s’inquadrò nello spiraglio. Era carina, ma fra pochi anni sarebbe stata troppo grassa. Si era infilata un vestito, ma calzava delle pantofole e i suoi capelli erano disfatti, ribelli.

«Faccia attenzione all’abito, è di lana» disse Tansy e la sua voce era altrettanto neutra di quando si rivolgeva a Norman. «Voglio che siano pronte fra un’ora.»

Norman si aspettava un’obiezione da parte della ragazza.

«Benissimo signora» Uscì rapidamente dal bagno, con gli abiti umidi ammucchiati su un braccio, come se l’unico suo scopo fosse di allontanarsi prima che Tansy le rivolgesse la parola un’altra volta.

«Un momento, cara. Voglio farle una domanda.» La voce ora era più forte. Era l’unica differenza, ma ebbe l’effetto di un comando.

La ragazza esitò, poi si voltò di malavoglia e Norman poté vederne il viso. Non vedeva Tansy perché la porta dell’armadio gliela nascondeva ma vedeva la paura affiorare sul viso assonnato della ragazza.

«Si, signora?» riuscì a dire.

Seguì un notevole intervallo di tempo. Intuiva dal modo in cui la ragazza si raggomitolava e stringeva gli abiti contro il corpo, che Tansy aveva alzato gli occhi e la guardava.

Finalmente disse: «Lei conosce la Maniera Facile di Fare le Cose? Il modo di Ottenere e Conservare?»

Norman avrebbe giurato che la ragazza era trasalita alla seconda domanda. Ma scosse la testa rapidamente mormorando.

«No, signora, io non so di che cosa stia parlando.»

«Vuol dire che lei non ha mai imparato ad attuare un desiderio. Non ha mai fatto sortilegi, magie, fatture? Non conosce l’Arte

Questa volta il no fu appena udibile. La ragazza tentava di guardare altrove e non ci riusciva. «Lei mente.»

La ragazza si contorceva, le mani si contraevano sulle braccia. Pareva così terrorizzata che Norman ebbe quasi voglia di uscire dal suo nascondiglio e dire a sua moglie di smetterla. Ma la curiosità lo pietrificava.

La resistenza della ragazza cedette. «La prego, signora, non sono cose di cui si possa parlare.»

«A me lo può dire. Quali procedimenti usa?»

La perplessità della ragazza di fronte a quella parola nuova parve sincera.

«Non so niente di tutto questo, signora. Non faccio molto. Ma all’epoca in cui il mio fidanzato era sotto le armi, ho fatto diverse cose per impedire che fosse ucciso o ferito e l’ho stregato affinché stesse lontano dalle altre donne. Posso anche curare con le erbe. Francamente signora, faccio ben poco, e non mi riesce sempre. E ci sono tante cose che io non riesco ad ottenere in quella maniera.»

Le parole ora le sfuggivano di bocca.

«Benissimo. Dove ha imparato le magie?»

«Alcune dalla mia mamma, quand’ero bambina, altre dalla signora Neidel. Conosceva dei sortilegi contro i proiettili, le erano stati tramandati da sua nonna che aveva parenti in una qualche guerra europea, molti anni fa. Ma la maggior parte delle donne non dice nulla. Alcuni sortilegi me li invento io, li provo in un modo poi nell’altro, finché riescono. Ma non mi farà la spia, signora?»

«No. Mi guardi: cosa mi è successo?»

«Francamente, signora, io non lo so. Non mi obblighi a dirlo, la prego.»

La paura e la riluttanza della ragazza erano così sincere che Norman provò una certa collera verso Tansy.

Poi ricordò che quella cosa era sua moglie ed era incapace sia di gentilezza sia di crudeltà.

«Voglio che lei me lo dica.»

«Non so come dirglielo, signora, ma lei è… lei è morta.»

Improvvisamente si buttò ai piedi di Tansy. «La prego, oh, la prego! Non mi prenda la mia anima, la prego!»

«Io non le prenderò l’anima, sarebbe lei a fare un buon affare in questo caso. Ora può andare.»

«Oh, grazie, grazie!» La ragazza riprese a uno a uno gli abiti sparsi. «Glieli preparerò al più presto» E scappò via.

Solo al momento di muoversi, Norman si accorse che i suoi muscoli si erano intorpiditi per quei pochi minuti di osservazione clandestina. La figura impaludata negli asciugamani sedeva nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata qualche minuto prima, le mani giunte, gli occhi ancora fissi sul punto dov’era stata la cameriera.

«Se tu sapevi tutto questo» Norman le disse con semplicità, con la mente ancora agitata da ciò che aveva udito «perché hai abbandonato senza discussione le pratiche magiche quando te l’ho chiesto io la settimana scorsa?»

«Ogni donna ha due personalità.» Pareva una sibilla che pronunciava l’oracolo. «Una è razionale, come quella di un uomo. E l’altra… sa. Gli uomini sono creature artificialmente isolate, sono isole in un mare di magia, protetti dal loro raziocinio e dalle pratiche delle loro donne. Il loro isolamento infonde loro una maggiore energia di pensiero e di azione. Ma le donne hanno la conoscenza. Le donne potrebbero, apertamente, governare il mondo; ma del mondo non sanno che cosa farsene, né vogliono accettarne la responsabilità. Gli uomini possono imparare a superarle nell’arte della stregoneria. Anche oggi vi sono al mondo degli stregoni, ma pochi. La settimana scorsa ho intuito molte cose che non ho voluto dirti. Ma il mio lato razionale è ben ancorato nella mia personalità, e comunque volevo esserti vicina in tutto. Come molte altre donne io non ero sicura. E quando ho distrutto tutti gli amuleti e tutti i sortilegi, sono rimasta momentaneamente insensibile alla magia. Alla stessa stregua di chi è assuefatto a forti dosi di stupefacenti. Le piccole dosi non mi facevano nulla. Dominava in me il raziocinio. Per alcuni giorni ho goduto di una falsa sensazione di sicurezza. E durante il mio viaggio a Bayport ho appreso molto, in parte da ciò che Colui-che-cammina-dietro si è lasciato sfuggire.» Si fermò e aggiunse con un’infantile espressione di furbizia. «E adesso torniamo a Hempnell?»

Il telefono squillò. Era il portiere, tutto agitato, incoerente, che balbettava delle frasi incomprensibili in cui si capivano soltanto le parole “polizia” e “buttarvi fuori”. Per calmarlo Norman gli propose di scendere subito.

Il vecchio lo aspettava ai piedi della scala.

«Senta, signora» cominciò alzando un dito minaccioso. «Io voglio sapere cosa sta succedendo. Sissy è scesa ora dalla sua stanza, bianca come un panno lavato. Non mi ha voluto dir niente, ma tremava come una foglia. Sissy è mia nipote, le ho fatto avere io quel posto di cameriera, e sono responsabile di ciò che le può accadere. So cosa sono gli alberghi. Vi ho lavorato tutta la vita. E so che razza di gente ospitano. Talvolta le donne collaborano con gli uomini, e so che cosa tentano di fare alle ragazze. Io non ho niente contro di lei, signore ma è strana la maniera in cui sua moglie è arrivata qui. Quando mi ha detto di chiamare Sissy io ho pensato che stesse male, o qualcosa del genere. Ma se sta male perché non chiama un medico? E che cosa fanno loro due, svegli alle quattro del mattino? La signora Thompson, che ha la stanza accanto, mi ha chiamato per dire che in camera sua non si faceva altro che parlare, non ad alta voce, ma in maniera che a lei faceva paura. Ho il diritto di sapere che cosa sta succedendo.» Norman assunse il suo tono più distinto di professore e calmò a una a una le apprensioni del vecchio portiere, finché gli sembrarono inconsistenti. Tutto con molta dignità. Dopo un ultimo borbottio, il vecchio si lasciò convincere. Mentre Norman risaliva le scale, lui tornò ciabattando al suo centralino.

Arrivato al secondo piano, Norman udì lo squillo del telefono. Mentre percorrevano il corridoio lo squillo cessò. Norman aprì la porta. Tansy era in piedi vicino al letto, parlava al telefono. La macchia scura del telefono, che le attraversava il viso dall’orecchio alla bocca, intensificava il pallore delle guance e delle labbra, e il biancore degli asciugamani.

«Qui parla Tansy Saylor» diceva con una voce priva di modulazioni. «Voglio la mia anima.» Un silenzio «Non mi senti, Evelyn? Sono Tansy Saylor. Voglio la mia anima.»

Norman aveva completamente dimenticato la prenotazione telefonica, fatta in un attimo di disperata collera. Non sapeva più ora, cos’era che aveva pensato di dirle.

Un gemito prolungato uscì dal telefono. Tansy continuava lo stesso a parlare.

«Qui parla Tansy Saylor. Voglio la mia anima.»

Norman fece un passo avanti. Il gemito era diventato un urlo. Ma insieme a quello, si sentiva un intermittente ansare. Tentò di afferrare il telefono, ma in quel momento Tansy si voltò di colpo e qualcosa accadde allo stesso microfono.

Quando un oggetto inanimato si comporta come se avesse una vita propria, si pensa naturalmente alla possibilità di un’illusione ottica o altro. Vi è un modo, ad esempio, di maneggiare una matita che dà illusione di piegarla avanti e indietro come se fosse di gomma. E Tansy aveva la mano sul telefono, e l’agitava così rapidamente che diventava difficile essere certo di qualsiasi cosa. Comunque a Norman parve che il telefono diventasse improvvisamente pieghevole e si contorcesse come una serpe, penetrasse nella guancia di Tansy e nel collo, proprio sotto l’orecchio come una doppia zampa nera. Insieme all’urlo gli parve di udire un rumore attutito di risucchio…

La sua reazione fu immediata, involontaria e sbalorditiva. Cadde ginocchioni e strappò dal muro il cavo del telefono. Dal filo rotto uscivano scintille viola. L’estremità libera del cavo scattò all’indietro come una frusta, e parve ondulare un po’, poi si arrotolò intorno al braccio di Norman. Gli parve che per un attimo il cavo lo stringesse con forza, poi la stretta si allentò. Staccò il filo dal braccio con un terrore panico e si rimise in piedi.

Il telefono era caduto a terra. Aveva l’aspetto solito di un telefono. Gli diede un leggero calcio, udì un pluff e il telefono scivolò di pochi centimetri sul pavimento. Si chinò, esitò un attimo e lo toccò con riluttanza. Era duro e rigido come tutti i telefoni.

Guardò Tansy. Era in piedi nella stessa posizione di prima. Non c’era un atomo di paura nella sua espressione. Con l’indifferenza di una macchina aveva alzato una mano e si massaggiava lentamente la guancia e il collo. All’angolo del labbro apparivano alcune gocce di sangue.

Naturalmente poteva aver sbattuto il telefono sui denti ed essersi ferita il labbro.

Ma lui aveva visto…

Forse aveva scosso il telefono nella mano così rapidamente che gli era sembrato flessibile e piegato.

Ma non era un’apparenza… Ciò che aveva veduto era stato l’impossibile. Ma tante cose impossibili erano accadute.

Ed era stata proprio Evelyn Sawtelle all’altro capo del filo. Lui aveva sentito il rumore ampliato della raganella nel microfono. Nulla di sovrannaturale in questo. Se il disco della raganella fosse stato suonato a tutto volume nel telefono, lo si sarebbe sentito in quella maniera. Egli non si poteva ingannare su quel rumore. Era un fatto, e lui doveva attenersi ai fatti.

Gli forniva la scusa emotiva che gli occorreva. Ira. Egli era sbalordito dall’impeto d’odio che lo aveva pervaso al pensiero di quella donna dagli occhi spenti. Per un attimo si sentì nei panni dell’Iniquisitore davanti a una testimonianza irrefutabile di stregoneria. Visioni di tortura, la ruota, lo stivaletto, gli vennero in mente. Poi le reminiscenze medioevali svanirono e rimase l’ira che si andava trasformando in un deciso sentimento di odio.

Qualunque cosa fosse capitata a Tansy, sapeva che Evelyn Sawtelle, Hulda Gunnison e Flora Carr ne erano autrici. Aveva fin troppe certezze del loro agire. Quello era un fatto al quale doveva attenersi. Che avessero perseguitato la mente di Tansy per mezzo di una diabolica, subdola azione di suggestione o con l’aiuto di indefinibili, innominabili mezzi, non aveva importanza. Erano, tutt’e tre, responsabili del suo stato.

E non c’era alcun modo di accusarle, sia legalmente, sia per mezzo della psichiatria. Ciò che era accaduto nei pochi giorni precedenti, era qualcosa che lui solo, fra tutti gli uomini, era in grado di credere e comprendere. Egli stesso doveva combattere quelle tre arpie usando contro di loro le stesse armi, quelle innominabili stesse armi.

Doveva agire comunque come se credesse nelle virtù di questi innominabili mezzi.

Tansy smise di sfregarsi la guancia. La sua lingua sfiorò il labbro nel punto dove il sangue si stava asciugando.

«Andiamo a Hempnell, adesso?»

«Sì.»

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