“Per venire al dunque: era comprensibile che ci prendessimo una pausa, che ci godessimo un po’ la prosperità del dopo-Guerra Fredda. Ci siamo concessi uno dei piaceri più nobili della nostra specie: fermarci un attimo ad annusare le rose…”
Usciti dal ristorante, Mary e Ponter recuperarono Mega e trascorsero un po’ di tempo a giocare con lei. Presto però venne l’ora di dormire, e Mega tornò alla casa della sua tábant, Daklar. Fu lì che a Mary venne l’idea: andare, loro due, a casa di Ponter, approfittando dell’assenza di Adikor. Questo avrebbe anche permesso a Bandra e Harb di godersi la loro intimità. All’inizio Ponter restò stupefatto da quell’assoluta novità nelle tradizioni barast; ma quando Mary gli rammentò le proprie reticenze a fare l’amore in una casa in cui fossero presenti altre persone accettò di buon grado. Presero un cubo fino all’Anello esterno della città.
Dopo altro sesso stupendo, Mary indugiò nella doccia mentre Ponter si mise seduto facendo finta di leggere su una sorta di palmare. Ma Mary, anche a distanza, si accorse che gli occhi di lui non scorrevano lungo il testo.
La postura di Ponter era diversa da quella che avrebbe assunto un gliksin: per quanto la sua mascella fosse prominente, non se la sosteneva con una mano, come il celebre Pensatore di Rodin. Forse per lui sarebbe stata una posizione scomoda; oppure (Mary non ci aveva mai fatto caso prima d’ora) lo chignon occipitale del cranio controbilanciava perfettamente il peso del volto massiccio.
In ogni caso, era evidente che Ponter era completamente assorto nei propri pensieri.
Mary uscì dalla doccia, si asciugò e, ancora nuda, si accostò da dietro alla sedia di Ponter. — A cosa pensi?
Ponter fece una smorfia. — Niente di speciale.
Mary sorrise, massaggiandogli il braccio muscoloso. — C’è qualcosa che ti preoccupa.
— No, no, stavo solo focalizzando un argomento. Mary lo abbracciò al collo. — Che riguarda me?
— In parte.
— Ponter, abbiamo stabilito di fare il possibile perché questa relazione funzioni. E l’unico modo è comunicare.
Ponter, voltandosi, fece un’espressione che pareva significare: “Pensi che non lo sappia?”.
— Allora? — disse Mary.
— Ti ricordi di Veronica Shannon?
— Certo, la strizzacervelli della Laurenziana.
— Le sue ricerche hanno… delle implicazioni — disse Ponter. — È riuscita a identificare la configurazione neuronica nel cervello dell’Homo sapiens che è responsabile dell’istinto religioso, no?
Mary inspirò a lungo. Quell’idea la metteva a disagio, anche se la scienziata che era in lei non poteva glissare sui risultati ottenuti da Veronica. — Pare di sì — rispose.
— Be’, se adesso sappiamo che cosa generi la fede…
— Sì?
— Allora, forse possiamo curarla.
Mary ebbe un sussulto. — Curarla… — ripeté, quasi per attutire il primo impatto di quel termine. — Ponter, la fede non è una malattia!
Lui non rispose, ma anche da dietro Mary poté notare che sollevava l’enorme sopracciglio, come a dire: “Ah no?”.
Mary decise di intervenire prima che Ponter riempisse il silenzio con qualche altra frase poco gradevole. — La fede è una parte di me.
— Però è anche la causa di tanti mali del tuo mondo.
— E di tanti aspetti grandiosi, se è per questo. Ponter voltò la testa verso di lei. — Sei stata tu a chiedermi di parlare, lo intendevo tenere questi pensieri per me.
Mary non ne era troppo convinta. Se lui avesse voluto tenerli per se, li avrebbe dissimulati.
— Sarebbe possibile — continuò Ponter — risalire alla mutazione genetica che ha prodotto questo effetto nei gliksin.
La religione… una mutazione. Cristo santo. — E che ne sai che siamo stati noi a cambiare? Forse la nostra è la condizione normale, quella ancestrale. E voi siete dei mutanti.
Lui si limitò a fare spallucce. — Forse. In quel caso, non sarebbe l’unico…
La frase venne completata da Mary in tono acido: — Non sarebbe l’unico miglioramento apportato dai neanderthal dopo la separazione dai sapiens.
— Mèr… — disse Ponter, in tono dolce.
Lei si aggrappò a quella parola: — Lo vedi? Hai una facoltà di pronuncia più ristretta rispetto alla nostra. Siamo noi il modello più avanzato.
Ponter stava per protestare, poi lasciò perdere. Mary intuiva quale sarebbe stata l’obiezione di lui: i gliksin potevano rimanere soffocati mentre bevevano, i barast no.
— Scusami — disse lei. Gli si sedette sulle ginocchia, e gli afferrò le spalle. — Mi spiace tanto. Perdonami.
— Certo — disse lui.
— È solo che per me è dura da mandare giù, capisci? Come se le cose in cui credo fossero una semplice reazione biologica, senza nessun fondamento in una Realtà superiore.
— Non sono in grado di capirti. Non ho mai creduto a nulla che fosse in contrasto con l’evidenza. Però…
— Ti ascolto.
Ponter tacque. Mary si reclinò leggermente all’indietro con la schiena, così da poter ammirare la sua faccia ampia, tonda e barbuta. In quegli occhi dorati c’era tanta intelligenza, tanta dolcezza.
— Ponter, mi dispiace di aver reagito a quel modo, ma davvero non desidero che tu ti chiuda nel tuo guscio. Per favore, dimmi cosa avevi in mente.
Lui emise un sospiro così cavernoso da inquietarla. — Ricordi quando ti ho detto che ero andato da uno scultore di personalità?
— Sì… A causa della violenza che ho subito.
— Quella era la motivazione immediata. Però avevo altre… altre questioni da mettere in chiaro.
— Cioè?
Ponter si agitò sulla sedia. — Lo scultore di personalità sì chiama Jurard Selgan — disse. Un dato irrilevante, ma utile per guadagnare tempo e raccogliere le idee. — Selgan ha una sua ipotesi su…
— Su…?
— Sulla mia attrazione per te.
Mary entrò in tensione. Era già un guaio sufficiente aver procurato problemi psicologici a Ponter… ma essere l’oggetto di studio di qualcuno che non aveva mai visto né conosciuto! La sua voce era gelida come il Pleistocene.
— E quale sarebbe, la sua ipotesi?
— Come sai, la mia compagna Klast è morta di un cancro al sangue.
Mary annuì.
— Perciò, lei non è più. È rimasta priva di qualsiasi forma di esistenza.
— Come i soldati sepolti al Memoriale dei caduti in Vietnam — disse Mary, ricordando il loro viaggio a Washington.
— Esatto.
Il puzzle si stava ricomponendo. — I visitatori del monumento si consolavano all’idea che i loro cari, in qualche modo, fossero ancora vivi. E questo ti sconvolgeva.
— Ka.
— Tu eri… eri geloso di loro, del senso di consolazione che provavano. Un conforto che a te non era concesso.
— Ka — ripeté Ponter. Poi, dopo una lunga pausa, aggiunse: — Però, con Selgan non abbiamo parlato della mia visita a Washington.
— E allora di cosa?
— Lui ipotizzava… che l’attrazione che provo per te…
— Sì?
Ponter alzò gli occhi ai murales del soffitto. — Come dicevo, non ho mai creduto a cose che fossero in contrasto con l’evidenza. E neppure alle cose indimostrate. Ma, secondo Selgan, io forse ti avevo creduto quando dicevi di possedere un’anima, e che avresti continuato a esistere anche dopo la morte.
Mary era strabiliata. — E quindi?
— Quindi, secondo lui… — Sembrò incapace di proseguire. Alla fine, sollevò il braccio sinistro e disse:
— Hak?
Il Companion riprese il discorso: — Non sentirti sciocca, Mèr. Per quanto sembrasse evidente a Selgan, neppure Ponter si era accorto di questo aspetto… e nemmeno io, del resto.
— E sarebbe? — chiese Mary, con il cuore che le martellava in petto.
— È plausibile — disse Hak — che, in caso tu morissi prima di lui, Ponter potrebbe soffrire meno che alla scomparsa di Klast… non perché ti ami di meno, ma perché potrebbe consolarsi con la fede nella tua sopravvivenza in un aldilà.
Mary diede con l’intero corpo uno scossone così violento che, se Ponter non l’avesse tenuta per i fianchi, sarebbe caduta a terra. — Mio… Dio… — balbettò. Aveva le vertigini.
— Non ritengo corrette le conclusioni di Selgan — disse Ponter. — Tuttavia…
Mary annuì. — Tuttavia, sei uno scienziato. E quella è… — pausa. La fede nell’aldilà era davvero… — un’ipotesi interessante.
— Ka — disse Ponter. Ka. Parole sante.