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“E, come voi capite bene, stasera penseremo al nostro futuro, al futuro dell’Homo sapiens. E non solo perché io posso parlare esclusivamente a nome dell’America. No, non solo per quello. Perché, su questo argomento, il nostro futuro e quello dei neanderthal non sono interdipendenti…”


Cornelius Ruskin pensava che quell’incubo si sarebbe ripetuto in eterno: il maledetto uomo delle caverne che arrivava, lo sbatteva a terra e lo mutilava. Ogni mattina si risvegliava madido di sudore.

Dopo l’orrenda scoperta, Cornelius aveva trascorso gran parte della giornata raggomitolato a letto. Il telefono aveva squillato varie volte, e di sicuro avevano chiamato anche dall’Università, ma lui non era in condizione di parlare con nessuno.

Scesa la notte, aveva chiamato la facoltà di Genetica lasciando un messaggio vocale per Qaiser Remtulla. Detestava quella donna, e ancora di più dopo quello che gli era successo, ma si sforzò di mantenere un tono distaccato: stava poco bene, sarebbe stato assente per diversi giorni.

Cornelius controllava continuamente le urine per verificare che non ci fossero tracce di sangue. Ogni mattina si tastava la sutura, e si misurava spesso la febbre; ma, esplosioni di rabbia a parte, la temperatura era normale.

Ancora non riusciva a crederci. Il dolore, anche grazie a massicce dosi di morfina, diminuiva di giorno in giorno. Ma, oltre a riempirsi di farmaci, non aveva idea di che fare. Di certo non poteva farsi visitare dal suo medico… né da nessun altro medico, se era per questo. Altrimenti sarebbe stato impossibile mantenere il segreto: prima o poi qualcuno si sarebbe sentito in dovere di parlare. E Cornelius non poteva permettersi che tutta la verità venisse a galla, come Ponter aveva giustamente sottolineato.

Alla fine trovò le energie sufficienti per trascinarsi al computer, un vecchio 386 che possedeva da prima della laurea. Andava ancora bene per scrivere o inviare e-mail, ma per navigare di solito Cornelius utilizzava i PC dell’Università. Adesso però aveva bisogno di risposte, e che per caricare le pagine quel ferrovecchio ci mettesse pure tutto il tempo che voleva.

Passati 20 minuti, Cornelius ebbe l’informazione che cercava. Nel suo secondo viaggio su questa Terra, Ponter indossava un cinturone medico munito, tra l’altro, di un termo-cauterio laser. Era quello lo strumento che gli aveva salvato la pelle dopo l’attentato all’ONU, e doveva essere lo stesso che Ponter aveva usalo per…

Cornelius sentì di nuovo i muscoli irrigidirsi.

Quel laser gli aveva inciso lo scroto, e…

Cornelius chiuse gli occhi; deglutì per impedire che i succhi gastrici gli risalissero lungo l’esofago.

Forse Ponter gli aveva afferrato i testicoli a mani nude e glieli aveva strappati. Poi, aveva suturato la ferita con il laser.

Cornelius aveva rovistato freneticamente tutta la casa in cerca delle proprie palle, nella speranza che fosse possibile reimpiantarle. Dopo due ore di lacrime e frustrazione, aveva affrontato la realtà: Ponter doveva averle gettate nel water e tirato lo sciacquone, oppure se le era portate via, svanendo nella notte. Perse per sempre.

Rabbia, rabbia, rabbia! Lui, Cornelius, aveva solo fatto la cosa giusta! Quelle due, Mary e Qaiser, lo avevano scavalcato in carriera solo perché erano donne, in nome delle “quote rosa”. Ma era lui quello con il dottorato a Oxford! Per questo, gliel’aveva fatta vedere, a quelle due! Cosa si provava a essere messe sotto, eh?

“Maledizione!” pensò, passandosi per l’ennesima volta la mano in mezzo alle gambe. Aveva il pene duro. Ma vuoto.

Maledizione.

Jock tornò al suo ufficio, al piano terra. La finestra panoramica dava a sud verso il mare, anziché a nord sul lago Ontario.

Jock aveva conseguito la laurea con una tesi sulla Teoria dei giochi, a Princeton, docente John Nash (quello del film A Beautiful Mind). Poi aveva lavoralo per trent’anni alla RAND, finanziata dall’aviazione USA, principale società di consulenza della Casa Bianca durante la Guerra Fredda; si occupava di scenari da guerra nucleare.

Al Pentagono avevano un diavolo per capéllo per com’era stata gestita la faccenda “Neanderthal I”. Ovvio, lì per lì la storia di un uomo delle caverne iper-tecnologgizato, sbucato dal nulla in una miniera dell’Ontario, sapeva tanto di balla giornalistica. Per cui, quando il governo americano, come del resto quello canadese, aveva deciso di prendere la cosa seriamente, ormai era troppo tardi: Neanderthal I era diventato un personaggio pubblico.

Per recuperare in extremis, l’ufficio Immigrazione e il ministero della Difesa avevano all’improvviso messo a disposizione un fiume di dollari, e così era nato il gruppo Synergy. E non era stato un caso se a capo era stato messo un esperto in Teoria dei giochi. Era evidente che se si fosse riaperto il varco, i neanderthal e gli umani (termine che, in privato, Jock riservava a quelli che lo erano “davvero”) avrebbero avuto interessi differenti da tutelare. Il suo compito era suggerire le mosse più vantaggiose per la propria specie.

— Jock?

Aveva l’abitudine di tenere aperta la porta dell’ufficio, indice di mentalità altrettanto aperta. Ma non al punto da non farlo sobbalzare nel vedersi di fronte un uomo di Neanderthal.

— Dimmi, Ponter.

— Lonwis Trob mi ha mostrato alcuni dispacci da New York. — Lonwis e il resto del gruppo, tra cui l’ambasciatrice Tukana Prat, risiedevano perlopiù al Palazzo di vetro. — Tu eri già al corrente dell’iniziativa “Esplorazione delle aree corrispondenti”?

Jock scosse la testa.

— Però saprai che esiste il progetto di creare un varco più ampio, e permanente. Pare che le Nazioni Unite abbiano optato per un collegamento tra il loro quartier generale e il punto corrispondente nel nostro mondo.

Jock si accigliò. Perfetto, ora le informazioni ufficiali le riceveva da un cavernicolo del piffero! D’accordo che quel giorno non aveva ancora controllato la posta elettronica; magari la comunicazione gli era già arrivata. Però Jock aveva già sentito accennare all’ipotesi New York, e dal suo punto di vista era ovvio che il centro delle operazioni dovesse trovarsi in territorio americano.

— Lonwis mi ha riferito — continuò Ponter — che si sta programmando un viaggio di delegati ONU sull’altro lato… il mio lato. Io e Adikor li accompagneremo all’isola di Donakat, la nostra versione di Manhattan. Occorre stabilire in situ se sia possibile proteggere il computer quantistico dalle radiazioni solari, cosmiche e terrestri, per evitare interferenze che interrompano il contatto.

— Va bene, e quindi?

— Be’, pensavo che potresti essere della partita. In fondo sei a capo di un’istituzione per i buoni rapporti tra i due mondi, ma il nostro non l’hai mai visto.

Jock fu preso alla sprovvista. Già trovava inquietante la presenza di quei due mezzi troll. Figuriamoci esserne circondato. — Quando?

— Dopo che i Due saranno diventati Uno.

— Finita la festa, insomma.

— Si tratta di qualcosa di più — disse Ponter — ma l’evento non è in agenda per questa volta. Allora, ci sarai?

— Ho parecchio lavoro — rispose Jock.

Ponter gli rivolse quel suo mostruoso sorriso da una spanna. — Non era il mio popolo, quello che aveva paura di dare un’occhiata al di là delle colline? Io dico che dovresti conoscere più da vicino il tuo campo d’azione.

Ponter entrò nell’ufficio di Mary. Si richiuse la porta alle spalle, poi abbracciò forte la sua donna. Lui le leccava il viso, lei lo baciava. Quando si staccarono, il tono di voce di Ponter era grave: — Dovrò tornare presto nel mio mondo, lo sai.

Mary fece del suo meglio per nascondere l’entusiasmo. Non ci riuscì.

— Perché sorridi? — chiese lui.

— Jock mi ha chiesto di venire con te.

— Sul serio? È meraviglioso! — Pausa. — Anche se…

Mary annuì. — Lo so, lo so. Ci potremo frequentare per soli quattro giorni al mese. — Maschi e femmine vivevano per gran parte del tempo separati. — Però, almeno, saremo nello stesso mondo, e io potrò rendermi utile. Jock vuole che studi la vostra Ingegneria genetica.

— Perfetto — disse Ponter. — Più scambi culturali ci saranno, meglio sarà. — Osservò il lago Ontario attraverso la finestra; era la direzione in cui dovevano muoversi. — Si torna a Sudbury.

— Mancano ancora dieci giorni al Due-Uno, vero?

Ponter fece cenno di sì. — Dopodiché dovrò tornare a sud, ma nel mio mondo, per raggiungere l’area corrispondente alla vostra sede delle Nazioni Unite. Il nuovo varco verrà aperto là.

— Ah… — disse Mary.

Ponter alzò una mano. — Ma non partirò per Donakat finché il Due-Uno non sarà terminato, e sarò di ritorno ben prima del Due-Uno successivo.

A Mary l’entusiasmo era calato. In teoria, sapeva che tra un ricongiungimento e l’altro, nel mondo neanderthal, sarebbero sempre trascorsi venticinque giorni; eppure avrebbe tanto voluto trovare una soluzione, in un universo o nell’altro, per restare sempre con Ponter.

— Se verrai anche tu — disse Ponter — potremmo viaggiare insieme fino al varco. Pensavo di dare un passaggio a Lou, ma…

— Louise? Verrà anche lei?

— Oh, no, però intende andare a Subdury dopodomani per rivedere Reuben. — La ragazza e il medico avevano intrecciato una relazione dall’epoca della quarantena. — Caspita — aggiunse Ponter — sarebbe l’occasione giusta per un altro di quei favolosi barbecue di Reuben.

Al momento, su questa versione della Terra, Mary Vaughan aveva due case: un alloggio in affitto al Bristol Harbour Village, nello Stato di New York, e un appartamento suo a Richmond Hill, a nord di Toronto. Ed era lì che in quel momento lei e Ponter si stavano dirigendo, a tre ore e mezza di macchina dalla sede della Synergy.

Lungo il tragitto Mary mise dei CD. Le seccava dover continuamente cambiare stazione radio. Si era cominciato con le Greatest Hits di Martina McBride; adesso c’era Come on over di Shania Twain. A Mary piacevano quasi tutte le canzoni di Shania, esclusa The woman in me, che le pareva un po’ moscia. Un giorno o l’altro si sarebbe masterizzata una versione personale del CD, e quel pezzo l’avrebbe eliminato.

Mentre proseguivano il viaggio, con la musica di sottofondo e lo spettacolo del sole che in quella stagione tramontava presto, Mary si perse nei suoi pensieri. Era dura riavvolgere il nastro della propria vita. Avesse ricomincialo da capo, erano poche le cose che avrebbe cancellato. Di certo lo stupro… davvero era successo solo tre mesi prima? Qualche investimento disastroso, un paio di cattiverie dette nel momento sbagliato.

E il matrimonio con Colm O’Casey?

Sapeva bene che cosa sarebbe piaciuto a Colm: che lei dichiarasse, di fronte alla Chiesa e a Dio, che il loro matrimonio era nullo fin dall’inizio. Rifiutare, negare quel momento della loro vita.

Un giorno o l’altro la Chiesa cattolica avrebbe levato il bando ai divorziati. Fino all’incontro con Ponter, in effetti, Mary non aveva avuto motivi per voler tagliare i ponti con Colm; adesso però sì. Le strade che le si paravano innanzi erano l’ipocrisia, e l’annullamento, o il divorzio, con conseguente esclusione dall’eucaristia.

Bella fregatura. Ogni peccato poteva essere lavato con una confessione, ma se si sposava la persona sbagliata non c’era alcuna possibilità di appello. “Finché morte non vi separi”… a meno di non raccontare una menzogna.

Ma il suo matrimonio con Colm non meritava un colpo di spugna. È vero, quando aveva accettato la sua proposta di matrimonio non si era sentita sicura al 100 per cento, e aveva nutrito dubbi perfino mentre percorreva la navata della chiesa. Però nei primi anni era stato bello; a rovinare l’unione era stato il progressivo divergere delle rispettive mete.

In quegli ultimi tempi si era fatto un gran parlare del Grande balzo in avanti, circa 40.000 anni prima, con l’emergere del fenomeno della coscienza umana. Be’, anche per Mary un bel giorno era arrivato il momento del Grande balzo in avanti: quando aveva capito che i suoi sogni e la sua carriera non potevano andare al rimorchio di quelli del marito. Da quel momento, i loro due universi si erano separati.

No, non avrebbe rinnegato il suo matrimonio.

Il che implicava…

Chiedere il divorzio, non l’annullamento. Per la verità nessun Codice impediva a una gliksin (termine neanderthaliano per Homo sapiens), ancora legalmente sposata, di celebrare un Legame con un barast; ma prima o poi il problema sarebbe finito in Parlamento.

Effettuato un sorpasso, Mary si voltò verso Ponter: — Amore…

— Sì?

— Ti ho detto che trascorreremo la notte a casa mia a Richmond Hill…

Lui annuì.

— E… be’, sai anche che in questo mondo io sono ancora legata a… al mio compagno.

Ponter annuì di nuovo.

— Io… vorrei incontrarlo, se possibile, prima che partiamo per Sudbury. Incontrarlo a pranzo o a cena.

— Mi interesserebbe conoscerlo — disse Ponter. — Vedere com’era il gliksin che avevi scelto…

Il CD passò a un’altra canzone. Is there life after love?

— No — disse Mary. — Voglio dire, ho bisogno di parlargli da sola.

L’unico, grande sopracciglio di Ponter gli scalò la fronte, e lui disse: — Oh.

Mary tornò a fissare la strada. — È ora che io e lui sistemiamo la faccenda.

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