Charlie stava concludendo una settimana di soggiorno sulla Terra quando venne lanciata la John F. Kennedy. Stanco di venire intervistato, sgattaiolò via dalla sala dei media al porto degli shuttle, al Cape. La tessera bianca gli permise di recarsi sulla pista d’atterraggio, da solo.
Lo shuttle di mezzanotte veniva rifornito di carburante in fondo alla pista, e luccicava d’un color bianco-rosato nell’ultima luce del sole al tramonto. L’immagine si distorceva nel calore irradiato dalla distesa di tarmac. L’odore del catrame ammollato era associato in modo indelebile, nella sua mente, al sollievo della partenza.
Raggiunse il centro della pista e consultò l’orologio. Cinque minuti. Accese una sigaretta e la buttò via. Ricontrollò i calcoli mentali: il volo avrebbe avuto inizio in basso, a sud-ovest. Alzò la mano per escludere il sole. Come sarebbero apparse, 150 bombe al secondo? Per i mass-media si chiamavano capsule di combustibile. Coloro che le avevano scrupolosamente montate e portate in orbita e installate nei serbatoi le chiamavano bombe. Dieci volte più luminose della luna piena, avevano detto. Sull’L-5 non bisognava guardare da quella parte senza un filtro scuro.
Niente riscaldamento. Apparve all’improvviso, un punto iridiscente dello splendore impossibile, poco al di sopra dell’orizzonte. Brillò per vari minuti, poi si affievolì lievemente nella foschia, e scivolò lontano.
In gran parte degli Stati Uniti non l’avrebbero visto fino a che non fosse ritornato, un paio d’ore dopo, trasformando la notte in giorno, gareggiando con i fuochi d’artificio locali. Poi sarebbe ripassato di nuovo ogni due ore. Charlie l’avrebbe visto ancora una volta, e quindi sarebbe salito a bordo dello shuttle. E finalmente avrebbe smesso di doverlo chiamare con il nome d’un politico morto da un pezzo.