Capitolo 9

«Aspetta un minuto» disse Lula «sarà nudo. Forse non vogliamo vederlo così. Ho visto un sacco di uomini brutti nella mia vita. Non sono tanto ansiosa di vederne un altro.»

«Non mi interessa il fatto che sia nudo» dissi. «Mi interessa invece che non possa avere un coltello in tasca o una fiamma ossidrica a portata di mano.»

«Giusto.»

«D’accordo, ora ricomincio a contare. Preparati. Uno, due, tre!»

Spalancai la porta del bagno ed entrambe saltammo dentro. Munson scostò la tenda della doccia. «Che diavolo succede?»

«Sei in arresto» disse Lula. «E gradiremmo molto che ti mettessi un asciugamano addosso visto che non ho proprio voglia di guardare le tue parti intime tristi e raggrinzite.»

Aveva i capelli pieni di shampoo e una grande fasciatura al piede, protetta da un sacchetto di plastica legato stretto alla caviglia con un elastico.

«Io sono pazzo!» strillò. «Sono un maledetto pazzo e voi non mi avrete mai vivo!»

«Certo, come vuoi» disse Lula porgendogli un asciugamano. «Adesso vuoi chiudere l’acqua per favore?»

Munson prese l’asciugamano e lo gettò in faccia a Lula.

«Ehi!» disse Lula «fermo lì. Gettami di nuovo in faccia l’asciugamano e ti riempio il naso di spray urticante.»

Munson lo gettò di nuovo. «Cicciottella, cicciottella» cantilenò.

Lula dimenticò lo spray urticante e gli si gettò al collo. Munson allungò una mano e rivolse il getto della doccia contro di lei, poi saltò fuori dal box. Cercai di afferrarlo, ma era bagnato e scivoloso di sapone, e Lula stava agitando le braccia per cercare di sfuggire al getto d’acqua.

«Spruzzagli lo spray!» strillai a Lula. «Fulminalo con la corrente elettrica! Sparagli! Fa’ qualcosa!»

Munson si fece strada spintonandoci. Attraversò la casa di corsa e uscì dalla porta sul retro. Io gli stavo alle calcagna e Lula era a poco più di tre metri dietro di me. Il piede doveva fargli un male cane, ma lui corse via veloce, attraversando due cortili e poi svoltando nel vicolo. Io feci un salto e lo afferrai da dietro. Entrambi cademmo a terra e ci rotolammo allacciati, bestemmiando e graffiandoci. Munson stava cercando di liberarsi e io di trattenerlo e mettergli le manette. Sarebbe stato più semplice se avesse avuto dei vestiti a cui aggrapparsi. Così com’era non avevo nessuna voglia di aggrapparmi a lui.

«Colpiscilo dove fa male» gridava Lula. «Colpiscilo dove fa male!»

E così feci. A volte si arriva a un punto in cui non si ha più voglia di perdere tempo. Feci un passo indietro e rifilai a Munson una ginocchiata nei testicoli.

Munson gridò e si mise in posizione fetale.

Lula e io gli togliemmo le mani dalle misere parti basse e le ammanettammo dietro la schiena.

«Avrei voluto filmarti mentre lottavi con questo tipo» disse Lula. «Mi ha fatto venire in mente la barzelletta del nano nel campo di nudisti che continua a ficcare il naso negli affari degli altri.»

Mitchell e Habib erano scesi dall’auto e stavano a pochi metri da noi con l’aria sofferente.

«Ho sentito male persino io quaggiù» disse Mitchell. «Se riceviamo l’ordine di sistemarti per le feste io mi metterò un sospensorio protettivo.»

Lula corse di nuovo in casa per prendere una coperta e chiudere a chiave. E Habib, Mitchell e io trascinammo Munson fino alla Buick. Quando Lula tornò avvolgemmo Munson nella coperta e lo spingemmo sul sedile posteriore, poi lo accompagnai al posto di polizia di North Clinton. Entrammo dall’accesso posteriore, al quale si arrivava in auto.

«Proprio come da McDonald’s» disse Lula. «Solo che veniamo a lasciare qualcosa, invece di prenderlo.»

Suonai il campanello e dissi chi ero. Un attimo dopo Carl Costanza aprì la porta posteriore e sbirciò la Buick. «Che cosa c’è adesso?» chiese.

«Ho una persona sul sedile posteriore. Morris Munson. Un uccel di bosco.»

Carl guardò bene dal finestrino dell’auto e sorrise. «È nudo.»

Sospirai. «Non avrai intenzione di crearmi problemi per questo, vero?»

«Ehi, Juniak» strillò Costanza «vieni a dare un’occhiata a questo tizio nudo. Prova un po’ a immaginare a chi appartiene!»

«Va bene» disse Lula a Munson «fine dei giochi. Adesso puoi uscire.»

«No» rispose Munson «non scendo.»

«Scenderai eccome» disse Lula.

Juniak e altri due poliziotti raggiunsero Costanza sulla porta. Sorridevano tutti come piedipiatti rimbambiti.

«A volte penso che questo sia davvero un lavoro infame» disse uno dei poliziotti. «Ma poi ci sono occasioni in cui si vedono cose come queste e all’improvviso sembra che ne valga la pena. Perché quel tizio nudo ha un sacchetto di plastica al piede?»

«Gli ho sparato» dissi.

Costanza e Juniak si scambiarono un’occhiata. «Non voglio sapere niente» disse Costanza. «Non ho sentito niente.»

Lula rivolse a Munson la sua tipica occhiata da cane inferocito. «Se non tiri fuori quel tuo mucchietto d’ossa dall’auto, vengo a prenderti.»

«Fottiti» disse Munson. «Va’ a farti fottere, culona.»

I poliziotti trattennero il respiro e fecero un passo indietro.

«E va bene» disse Lula. «Adesso mi hai veramente stancato. Tanto hai fatto che hai rovinato le mie buone intenzioni. Ora vengo lì e ti stano come un topo, tu e quel tuo uccello che sembra una matita.»

Si precipitò fuori dell’auto e spalancò la portiera posteriore.

E Munson saltò giù immediatamente.

Gli avvolsi attorno la coperta ed entrammo tutti nella stazione di polizia, tranne Lula che aveva una fobia per quel genere di ambiente. Lei fece retromarcia nel vialetto, trovò un posto nel cortile e parcheggiò.

Ammanettai Munson alla panca vicino al tenente che si occupava del registro delle sentenze, presentai la documentazione e ottenni la ricevuta per la consegna del latitante. La prossima cosa da fare che avevo nella lista era andare a trovare Brian Simon.

Stavo salendo al terzo piano quando Costanza mi trattenne. «Se cerchi Simon, lascia perdere. Se l’è data a gambe non appena ha saputo che eri qui.» Mi squadrò da capo a piedi. «Non voglio offenderti o niente del genere, ma hai un aspetto orribile.»

Ero completamente coperta di polvere, i jeans si erano strappati sul ginocchio, i capelli erano alle prese con una giornata veramente pessima, e poi c’era il brufolo.

«Sembra che tu non dorma da giorni» disse Costanza.

«In effetti è così.»

«Dovrei fare due chiacchiere con Morelli.»

«Non si tratta di Morelli. Si tratta di mia nonna. Si è trasferita da me e russa.» Per non parlare del fatto che nella mia vita c’era anche il Luna. E un bel numero di pazzi. E Ranger.

«Dunque fammi capire bene. Tu vivi con tua nonna e il cane di Simon?»

«Già.»

Costanza sorrise. «Ehi, Juniak» strillò «aspetta di sentire questa.» Si voltò di nuovo verso di me. «Non mi stupisce che Morelli sia tanto di cattivo umore.»

«Di’ a Simon che l’ho cercato.»

«Contaci» disse Costanza.

Dalla stazione di polizia andammo in ufficio e io entrai con Lula per vantarmi un po’ della mia bravura come cacciatrice di latitanti. Lula e io avevamo catturato il nostro uomo. Era stata una grande cattura, anche. Un maniaco omicida. Be’, insomma, forse non era stata un’operazione ineccepibile ma, santo cielo, l’avevamo preso.

Sbattei sulla scrivania di Connie la ricevuta per la consegna del latitante. «Siamo brave o no?» dissi.

Vinnie uscì dal suo ufficio. «Per caso ho sentito parlare di una nuova cattura?»

«Morris Munson» disse Connie. «Firmato, sigillato e consegnato.»

Vinnie si dondolò sui calcagni, le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni, il sorriso che andava da un orecchio all’altro. «Fantastico.»

«Non ci ha nemmeno dato fuoco questa volta» disse Lula. «Siamo state brave. Lo abbiamo sbattuto in galera.»

Connie si rivolse a Lula. «Lo sapete che siete tutte bagnate?»

«Già. Be’, abbiamo dovuto stanare il maledetto fuori della doccia.»

Le sopracciglia di Vinnie schizzarono fino in cima alla fronte. «Vorreste dire che lo avete arrestato nudo?»

«Non sarebbe stato tanto male se non fosse corso fuori di casa e giù in strada» disse Lula.

Vinnie scosse la testa, il sorriso ancora più ampio. «Io adoro questo lavoro.»

Connie mi consegnò quello che mi spettava; io diedi a Lula la sua parte e tornai a casa per cambiarmi. La nonna c’era ancora, si stava preparando per la lezione di guida: aveva indossato la tuta viola con le scarpe da ginnastica e una maglietta a maniche lunghe con una scritta sul petto che diceva CIUCCIAMI IL CALZINO. «Oggi ho incontrato un uomo nell’ascensore» disse. «E l’ho invitato a cenare con noi stasera.»

«Come si chiama?»

«Myron Landowsky. È un po’ attempato, ma immagino che da qualche parte dovrò pur cominciare.» Prese la borsetta dal ripiano, se la ficcò sotto il braccio e fece una carezza sulla testa a Bob. «Bob è stato un bravo bambino oggi, a parte il fatto che ha mangiato il rotolo di carta igienica del bagno. Ah, già, speravo che tu e Joseph poteste venire con la macchina. Myron non guida quando è buio, per via della vista debole.»

«Non c’è problema.»

Mi preparai un sandwich con un uovo fritto per pranzo, mi cambiai i jeans, spazzolai i capelli raccogliendoli in una coda bassa e coprii il brufolo con una tonnellata di correttore. Misi un po’ di mascara sulle ciglia e mi guardai allo specchio. Stephanie, Stephanie, Stephanie, dissi. Che cosa stai facendo?

Mi stavo preparando per tornare alla spiaggia, ecco che cosa stavo facendo. Mi affliggeva il fatto di aver probabilmente sprecato l’opportunità di parlare con Alexander Ramos. Il giorno prima ero rimasta seduta al tavolo di fronte a lui come una perfetta imbranata. Stavamo sorvegliando la famiglia Ramos e quando io, inaspettatamente, ero riuscita a entrare nel pollaio non avevo fatto al gallo neanche una domanda. Ero sicura che il consiglio di Ranger fosse saggio, che avrei dovuto stare lontana da Alexander Ramos, ma mi sembrava stupido non tornare e provare a trarre qualche vantaggio dalla situazione.

Afferrai la giacca e misi il guinzaglio a Bob. Feci una sosta in cucina per salutare Rex e per rimettere la pistola nel vaso dei biscotti. Mi pareva non fosse una buona idea averla addosso mentre facevo da autista ad Alexander Ramos. Sarebbe stato difficile spiegare la presenza della pistola se Ramos o qualcuno dei suoi baby sitter mi avesse perquisita.

Quando scesi trovai l’auto di Joyce Barnhardt parcheggiata nel cortile del mio palazzo. «Che bella faccia! Sembri una pizza» disse.

A quanto pare il correttore non era del tutto efficace. «Hai bisogno di qualcosa?»

«Sai di che cosa ho bisogno.»

Joyce non era l’unica idiota che si aggirava nel parcheggio. Mitchell e Habib erano fermi sul lato opposto. Andai verso di loro e Mitchell abbassò il finestrino del lato guidatore.

«Avete visto la donna con cui stavo parlando?» domandai. «Quella è Joyce Barnhardt. È lei l’agente di rinforzo che Vinnie ha assoldato per trovare Ranger. Se volete arrivare a lui dovete pedinare Joyce.»

Entrambi guardarono Joyce.

«Se una donna si vestisse in quel modo al mio Paese, la lapideremmo a morte» disse Habib.

«Belle poppe, però» disse Mitchell. «Sono vere?»

«Per quel che ne so, sì.»

«Quante possibilità credi che abbia di scovare Ranger?»

«Nessuna.»

«Quante possibilità pensi di avere tu?»

«Nessuna.»

«Abbiamo ordine di sorvegliare te» disse Mitchell. «Ed è quello che faremo.»

«Peccato» commentò Habib. «Mi piace davvero guardare quella puttanella di Joyce Barnhardt.»

«Avete intenzione di seguirmi tutto il pomeriggio?»

Il rossore salì dal collo di Mitchell fino alle guance. «Abbiamo qualche altra cosa da fare.»

Sorrisi. «Devi riportare l’auto a casa?»

«Al diavolo l’auto» disse Mitchell. «Mio figlio ha una partita di calcio.»

Tornai alla Buick e feci salire Bob sul sedile posteriore. Almeno non dovevo preoccuparmi di essere seguita, grazie alla partita di calcio. Guardai nello specchietto retrovisore solo per assicurarmene: niente Habib e Mitchell. Majoyce mi stava pedinando. Accostai al marciapiede, mi fermai e Joyce si fermò pochi metri dietro di me. Scesi dall’auto e andai da lei.

«Piantala» dissi.

«È un Paese libero.»

«Hai intenzione di seguirmi tutto il giorno?»

«Probabilmente.»

«E se ti chiedessi gentilmente di non farlo?»

«Siamo realisti.»

Guardai la sua auto, una piccola fuoristrada nera nuova fiammante. Poi guardai la mia: la grossa Buick blu. Tornai al volante. «Tieniti forte» dissi a Bob. E partii in retromarcia.

Crash.

Ingranai la prima e mi feci avanti di qualche metro. Scesi e ispezionai i danni. Il paraurti della fuoristrada era accartocciato e Joyce stava lottando con l’airbag che si era gonfiato. Il posteriore della Buick era intatto. Neanche un graffio. Tornai al volante e me ne andai. Non è saggio mettersi a discutere con una donna che ha un brufolo.


A Deal il cielo era coperto, e una foschia arrivava dall’oceano. Cielo grigio, mare grigio, marciapiedi grigi, un’enorme villa rosa che apparteneva ad Alexander Ramos. Passai davanti alla villa, feci inversione di marcia, ripassai nuovamente, svoltai e parcheggiai all’angolo. Mi domandavo se Ranger fosse lì in osservazione. Avevo l’impressione di sì. Non c’erano furgoni o camioncini in sosta lungo la strada. Questo voleva dire che doveva trovarsi in una casa, e che la casa doveva essere vuota. Facile indovinare che si trattasse di una delle ville disabitate lungo la spiaggia. Molto più improbabile che fosse una di quelle sulla strada. Non ce n’era nessuna con le finestre chiuse.

Guardai l’orologio. Stessa ora, stesso posto. Ramos non c’era. Dopo dieci minuti squillò il telefono.

«Ehilà» disse Ranger.

«Ehilà a te.»

«Non sei molto brava a seguire le istruzioni.»

«Vuoi dire quelle di non accettare il lavoro di contrabbandiere di sigarette? Era troppo allettante per lasciarselo scappare.»

«Starai attenta, vero?»

«Certo.»

«Il nostro uomo ha difficoltà a uscire di casa. Rimani lì.»

«Come lo sai? Dove ti trovi?»

«Sta’ pronta. Lo spettacolo sta per cominciare» disse Ranger. E chiuse la comunicazione.

Alexander Ramos oltrepassò il cancello e attraversò la strada di corsa verso la mia auto. Spalancò la portiera e si gettò dentro. «Vai!» gridò. «Vai!»

Allontanandomi dal marciapiede vidi due uomini in giacca e cravatta che uscivano dal cancello e si precipitavano verso di noi. Pigiai a fondo l’acceleratore e ce ne andammo a gran velocità.

Ramos non aveva per nulla un bell’aspetto. Era pallido, sudava e ansimava. «Cristo» disse «non credevo che ce l’avrei fatta. Quella casa è un manicomio. Per fortuna ho guardato dalla finestra al momento giusto e ho visto la tua auto. Stavo impazzendo là dentro.»

«Vuole andare al negozio?»

«No. È il primo posto in cui mi cercherebbero. Non posso neppure andare da Sal.»

Cominciavo ad avere una pessima sensazione. Per esempio, che quello fosse uno di quei giorni in cui Alexander non aveva preso la medicina.

«Portami ad Asbury Park» disse. «Conosco un locale lì.»

«Perché quegli uomini la inseguivano?»

«Nessuno mi inseguiva.»

«Ma io li ho visti.»

«Non hai visto niente.»

Dieci minuti dopo puntò l’indice e disse: «Là. Fermati in quel bar».

Entrammo tutti e tre nel bar, ci sedemmo a un tavolo e procedemmo allo stesso rituale della volta precedente. Il barista portò una bottiglia di ouzo al tavolo senza che gli fosse chiesto nulla. Ramos ne ingollò due bicchierini e poi si accese una sigaretta.

«La conoscono tutti» dissi.

Lui si guardò in giro, osservando i fatiscenti séparé lungo una delle pareti e il bancone di mogano scuro che occupava tutta la lunghezza di un’altra. Dietro al bancone c’era la solita collezione di bottiglie e dietro a queste il solito grande specchio da bar. All’estremità opposta della stanza, uno degli sgabelli era occupato da un uomo che osservava il fondo del proprio bicchiere.

«Per alcuni anni sono venuto qui» mi disse Ramos. «Vengo quando ho bisogno di stare lontano da quei pazzi.»

«Quei pazzi?»

«La mia famiglia. Ho allevato tre figli incapaci che spendono i soldi più rapidamente di quanto io riesca a guadagnarli.»

«Lei è Alexander Ramos, vero? Ho visto una sua fotografia sul “Newsweek” non molto tempo fa. Mi dispiace per Homer. Ho letto dell’incendio sui giornali.»

Lui si versò un altro bicchierino. «Un pazzo di meno con cui avere a che fare.»

Mi sentii impallidire. Era un’affermazione agghiacciante per un padre.

Lui tirò una lunga boccata dalla sigaretta, chiuse gli occhi e assaporò quel momento. «Loro credono che il vecchio non sappia ciò che sta succedendo. Ebbene, si sbagliano: il vecchio sa tutto. Non ho messo in piedi i miei affari con la stupidità. E non l’ho fatto neppure con la gentilezza, perciò è meglio che stiano attenti a dove ficcano il naso.»

Mi voltai a dare un’occhiata alla porta. «È sicuro che qui possiamo stare tranquilli?»

«Quando sei con Alexander Ramos, sei sempre al sicuro. Nessuno tocca Alexander Ramos.»

Già, giusto. Ecco perché ci stavamo nascondendo in un bar di Asbury Park. Sembrava di stare a Stranilandia.

«Ma non amo essere disturbato quando fumo» disse. «Non voglio avere sotto gli occhi tutte quelle sanguisughe.»

«Perché non se ne libera? Dica loro di lasciare la casa.»

Lui mi osservò attraverso un velo di fumo. «Che impressione farebbe? Sono la mia famiglia.» Lasciò cadere la sigaretta a terra e la calpestò. «C’è solo un modo per liberarsi dalla famiglia.»

Oh, santo cielo.

«Abbiamo finito, qui» disse. «Devo tornare prima che mio figlio mi faccia fuori.»

«Hannibal?»

«Il signor Sotutto. Non avrei mai dovuto mandarlo al college.»

Si alzò e gettò una manciata di soldi sul tavolo. «E tu? Sei andata al college?»

«Sì.»

«E adesso che cosa fai?»

Temevo che se gli avessi detto di essere una cacciatrice di latitanti mi avrebbe sparato. «Un po’ di questo e un po’ di quello» dissi.

«Tutta quella buona istruzione e non hai un lavoro?»

«Parla come mia madre.»

«Probabilmente stai facendo venire il crepacuore a tua madre.»

Questo mi fece sorridere. Era un pazzo furioso, ma in qualche modo mi piaceva. Mi ricordava mio zio Punky.

«Lei sa chi è stato a uccidere Homer?»

«Homer si è ucciso da solo.»

«Ho letto sui giornali che non hanno trovato l’arma, perciò hanno escluso il suicidio.»

«C’è più di un modo di uccidersi. Mio figlio era stupido e avido.»

«Oh… non l’ha ucciso lei, vero?»

«Ero in Grecia quando gli hanno sparato.»

Ci guardammo negli occhi. Sapevamo entrambi che questo non rispondeva alla domanda. Ramos avrebbe potuto ordinare l’esecuzione del figlio.

Lo riaccompagnai a Deal e parcheggiai in una strada laterale, a un isolato dalla villa rosa.

«Ogni volta che vuoi guadagnarti venti verdoni devi soltanto farti vedere giù all’angolo» disse Ramos.

Sorrisi. Non avevo accettato denaro da lui e probabilmente non sarei tornata.

«D’accordo» dissi «mi tenga d’occhio.»

Me ne andai non appena scese dall’auto. Non volevo rischiare che i tizi in giacca e cravatta mi vedessero. Dieci minuti dopo il telefono squillò.

«Un incontro breve» disse Ranger.

«Beve, fuma, torna a casa.»

«Hai saputo niente?»

«Penso che sia pazzo.»

«È l’opinione generale.»

A volte Ranger aveva modi confidenziali e diretti, altre volte sembrava un agente di cambio. Ricardo Carlos Manoso, l’Uomo del Mistero.

«Pensi che Ramos abbia ucciso il figlio?»

«Ne sarebbe capace.»

«Ha detto che Homer è stato assassinato perché era avido e stupido. Tu conoscevi Homer: era davvero così?»

«Homer era il più debole dei suoi tre figli. Aveva sempre scelto la strada più facile. Ma questa a volte può diventare un problema.»

«In che senso?»

«Homer era il tipo che perdeva centomila dollari al gioco e poi cercava la strada più semplice per trovare il denaro, come assaltare un camion e derubarlo, o commerciare droga. Così facendo pestava i piedi alla mafia o si scontrava con la polizia e Hannibal doveva pagare la cauzione per tirarlo fuori.»

Il che mi indusse a domandarmi che cosa stesse facendo Ranger con Homer Ramos la notte in cui era stato ucciso. Ma sarebbe stato fiato sprecato chiederglielo.

«A più tardi, bambina» disse Ranger. E chiuse la comunicazione.


Tornai a casa in tempo per portare a spasso Bob e farmi una doccia.

Persi un’altra mezz’ora per sistemarmi i capelli in modo che avessero un’aria volutamente trascurata, come se non avessi avuto voglia di sforzarmi troppo, ma fossi così naturalmente bella da avere comunque un aspetto fantastico. Pareva un sacrilegio andare in giro con un’acconciatura tanto sexy e un brufolo tanto grosso e brutto, perciò lo spremetti finché scoppiò. Dopo di che quello che mi rimase sul mento fu un grosso buco sanguinante. Maledizione. Ci appiccicai un pezzetto di carta igienica per fermare il sangue mentre mi truccavo. Indossai un paio di pantaloni neri elasticizzati e un maglione rosso a girocollo. Mi tolsi la carta igienica dal mento e feci un passo indietro per dare un’occhiata generale. Le borse sotto gli occhi si erano notevolmente ridotte e sul mento si stava già cominciando a formare una crosticina. Non proprio una modella da copertina, ma con la luce bassa avrei avuto un aspetto accettabile.

Sentii la porta d’ingresso aprirsi e richiudersi, e la nonna passò oltre il bagno per andare in camera da letto, provocando un piccolo spostamento d’aria.

«Ragazzi, guidare è fantastico» disse. «Non so perché sono andata in giro tutti questi anni senza patente. Nel pomeriggio ho fatto una lezione di guida e poi è venuta a prendermi Melvina, mi ha portata sul corso principale e mi ha lasciata fare qualche giro al volante. Sono stata molto brava, anche. A parte quando ho frenato troppo bruscamente, una volta, e Melvina si è fatta male alla schiena.»

Il campanello suonò e, aprendo la porta, mi trovai davanti Myron Landowsky che ansimava nel corridoio. Landowsky mi aveva sempre fatto pensare a una tartaruga, con quella testa calva piena di macchie color fegato che sporgeva dalle spalle curve e la cintura dei pantaloni tirata su fin quasi alle ascelle.

«Ti dico una cosa: se non si decidono a sistemare quell’ascensore, io trasloco» disse. «Sono ventidue anni che abito qui, ma me ne andrò se devo. La vecchia Besder sale con quel suo treppiede da passeggio e poi, prima di uscire, preme il pulsante di arresto. Gliel’ho visto fare un milione di volte. Le ci vogliono quindici minuti solo per uscire dall’ascensore, e poi lei se ne va e l’ascensore rimane bloccato. E nel frattempo noi, al terzo piano, che cosa dovremmo fare? Ho dovuto venire fin qui a piedi.»

«Desidera un bicchier d’acqua?»

«Ha qualche liquore?»

«No.»

«Fa niente, allora.» Si guardò attorno. «Sono venuto a prendere tua nonna. Andiamo fuori a cena.»

«Si sta preparando. Ci vorrà solo un minuto.»

Bussarono alla porta e Morelli entrò. Mi guardò e poi guardò Myron.

«È un appuntamento a quattro» spiegai. «Questo è un amico della nonna, Myron Landowsky.»

«Vuole scusarci, per favore?» disse Morelli, trascinandomi nel corridoio.

«In ogni caso devo sedermi» rispose Landowsky. «Sono dovuto venire fin qui a piedi.»

Morelli chiuse la porta, mi spinse contro il muro e mi baciò. Quando ebbe finito mi guardai per controllare di essere ancora vestita.

«Accidenti» dissi.

Mi sfiorò l’orecchio con le labbra. «Se non fai uscire quei vecchi dal tuo appartamento morirò per autocombustione.»

Sapevo esattamente come si sentiva: l’avevo sperimentato quella mattina mentre facevo la doccia, ma questo non era di grande aiuto.

La nonna aprì la porta ed entrò. «Per un attimo ho creduto che ve ne foste andati senza di noi.»


Prendemmo la Buick perché nel furgone di Morelli non c’era abbastanza posto pef tutti. Joe era al volante, Bob era seduto vicino a lui e io vicino al finestrino. La nonna e Myron erano nel sedile posteriore, a discutere di antiacidi.

«Ci sono novità sull’assassinio Ramos?» domandai a Morelli.

«Niente di nuovo. Barnes è ancora convinto che sia stato Ranger.»

«Nessun altro sospetto?»

«Abbastanza da riempire lo stadio di Shea. Ma non ci sono prove contro nessuno.»

«Che cosa mi dici della famiglia?»

Morelli mi guardò negli occhi. «E che cosa ti devo dire?»

«Sono sospettati?»

«Come chiunque altro che lo sia già in almeno tre Stati.»

Quando parcheggiammo, mia madre era sulla soglia di casa. Sembrava strano vederla lì, in piedi, da sola. Negli ultimi due anni c’era sempre stata la nonna accanto a lei. Una madre e una figlia i cui ruoli si erano ribaltati: la nonna che si sottraeva allegramente alle responsabilità familiari, mia madre che mestamente se ne faceva carico, cercando disperata di trovare una collocazione per un’anziana donna che improvvisamente era diventata uno strano ibrido tra madre tollerante e figlia ribelle. E mio padre, in soggiorno, che non voleva avere alcuna parte in tutto ciò.

«Non è fantastico?» disse la nonna. «Sembra tutto diverso da questo lato della porta.»

Bob si precipitò giù dall’auto e puntò mia madre, guidato dal profumo di arrosto di maiale che arrivava a zaffate dalla cucina.

Myron si muoveva più lentamente. «Gran macchina, la tua» disse. «Una vera bellezza. Non fanno più auto come queste, sono tutte catorci, oggigiorno, catorci di plastica. Fatti da un manipolo di stranieri.»

Mio padre raggiunse l’ingresso. Questo era il suo genere di discorsi: era un americano di seconda generazione e adorava parlar male degli stranieri, parenti esclusi. Si ritrasse quando vide che a parlare era stato l’Uomo Tartaruga.

«Questo qui è Myron» disse la nonna a titolo di presentazione. «È il mio accompagnatore, stasera.»

«Bella casa» disse Myron. «I rivestimenti di alluminio sono molto resistenti. Questo è un rivestimento di alluminio, vero?»

Bob correva in giro come un pazzo, eccitato dall’odore del cibo. Si fermò nell’ingresso e diede una bella annusata al sedere di mio padre.

«Fa’ uscire questo cane di qui» disse lui. «Da dove salta fuori?»

«Questo qui è Bob» spiegò mia nonna. «Sta soltanto salutando. Ho visto in televisone un programma che parlava di cani e diceva che annusare il sedere è per loro come stringersi la mano. So tutto dei cani, adesso. E siamo molto fortunati che Bob abbia avuto i testicoli asportati in tempo, prima che prendesse l’abitudine di montare le gambe alla gente. Dicono che sia davvero difficile togliere quest’abitudine a un cane.»

«Una volta, da bambino, avevo un coniglio che montava le gambe della gente» disse Myron. «Ragazzi, una volta che ti aveva afferrato la gamba, neanche il diavolo lo avrebbe allontanato. E non si preoccupava affatto di chi montava: una volta prese il gatto tenendolo per il collo e quasi lo uccise.»

Sentii che Morelli era scosso da una risata silenziosa alle mie spalle.

«Sto morendo di fame» disse la nonna. «Mangiamo.»

Ci sedemmo tutti a tavola, a parte Bob che consumava il suo pasto in cucina. Mio padre si servì un paio di fette di maiale e passò il vassoio a Morelli, poi cominciammo a far girare la ciotola di purè di patate. E i fagiolini, la salsa di mele, il vasetto dei sottaceti, il cestino dei panini e le barbabietole in agrodolce.

«Niente barbabietole per me» disse Myron. «Mi fanno venire la diarrea. Non so com’è: si diventa vecchi e tutto ti fa venire la diarrea.»

Bella prospettiva.

«Sei fortunato» replicò la nonna. «Sei fortunato a non aver bisogno del Metamucil. Adesso che il Commerciante si è ritirato dagli affari i prezzi delle medicine saliranno alle stelle e anche altra roba sarà introvabile. Ho comprato l’auto appena in tempo.»

Mia madre e mio padre alzarono gli occhi dal piatto.

«Hai comprato un’auto?» disse mia madre. «Nessuno me lo aveva detto.»

«Ed è anche un gioiello» rispose la nonna. «È una Corvette rossa.»

Mia madre si fece il segno della croce. «Santo cielo» disse.

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