Capitolo 6

C’era un pensiero che non riuscii a togliermi di mente per tutta la durata del viaggio di ritorno. Un padre addolorato per la perdita di un figlio saluterebbe il proprio primogenito con una botta in testa?

«Ma che ne so io?» dissi a Bob. «Forse concorrono per il premio Famiglia Degenerata dell’Anno.»

E, per dire la verità, è sempre un conforto scoprire che esistono famiglie più degenerate della mia. Non che la mia lo sia poi tanto, nella media del New Jersey.

Quando arrivai ad Hamilton Township mi fermai al centro commerciale, presi il cellulare e telefonai a mia madre.

«Sono al bancone delle carni» dissi. «Voglio fare un polpettone. Di che cosa ho bisogno?»

Ci fu un momento di silenzio: immaginavo mia madre che si faceva il segno della croce domandandosi cosa mai potesse aver indotto sua figlia a voler cucinare un polpettone, sperando, senza crederci troppo, che la causa fosse un uomo.

«Un polpettone» disse infine mia madre.

«È per la nonna» spiegai. «Ne ha voglia.»

«Certo» esclamò mia madre. «Che cosa vado a pensare?»


Quando arrivai a casa le ritelefonai. «Bene, sono pronta» dissi. «Che cosa ci faccio con questa roba?»

«Mescoli tutto e lo metti in una teglia da forno; lo fai cuocere per un’ora a 180°.»

«Non mi avevi detto niente della teglia da forno mentre ero al negozio!» mi lamentai.

«Non ne hai nemmeno una?»

«Be’, certo che sì. Volevo dire solo… Non farci caso.»

«Meno male» disse mia madre.

Bob era seduto nel bel mezzo della cucina e osservava tutto.

«Non ce l’ho una teglia da forno» dissi a Bob. «Ma noi non lasceremo che una sciocchezza come questa ci fermi, vero?»

Rovesciai la carne cruda in una ciotola, insieme con gli altri ingredienti fondamentali. Aggiunsi un uovo e lo osservai scivolare sulla superficie, lo ruppi con un cucchiaio. «Ehi» dissi a Bob.

Lui scodinzolò: aveva l’aria di apprezzare i cibi grassi e succulenti.

Mescolai l’impasto con il cucchiaio ma l’uovo non voleva amalgamarsi. Respirai a fondo e ficcai dentro entrambe le mani. Dopo un paio di minuti di manipolazione, tutto era ben impastato e morbido. Gli diedi la forma di un pupazzo di neve. E poi quella di un personaggio dei cartoni animati. E poi lo appiattii come una frittata. Così assomigliava a ciò che avevo lasciato nel parcheggio del McDonald’s. Alla fine lo modellai facendone due grosse palle di carne.

Per dolce avevo comprato una torta gelato alla crema di banana, la feci scivolare dal suo vassoietto di alluminio su un piatto e usai il vassoietto per le grosse palle di carne.

«La necessità è il motore dell’inventiva» dissi a Bob.

Infilai tutto nel forno, affettai un po’ di patate e le misi a cuocere, poi aprii una lattina di crema di mais e la versai in una ciotola in modo da poterla riscaldare nel forno a microonde all’ultimo momento. Cucinare non era poi tanto male, pensai, in effetti somigliava un po’ al sesso: a volte può non sembrare una buona idea all’inizio, ma una volta cominciato…

Preparai la tavola per due e il telefono suonò proprio quando stavo per finire.

«Ehilà, bambina» disse Ranger.

«Ehilà a te. Ci sono novità. L’auto che è andata da Hannibal la notte scorsa appartiene a Terry Gilman. Avrei dovuto riconoscerla quando è scesa, ma l’ho vista solo di schiena e non mi aspettavo che fosse lei.»

«Probabilmente andava a fargli le condoglianze da parte di Vito.»

«Non mi ero resa conto che lui e Ramos fossero amici.»

«Vito e Alexander coesistono.»

«Un’altra cosa» dissi. «Questa mattina ho seguito Hannibal fino alla casa di Deal.» Quindi raccontai a Ranger del vecchio nella Town, e della botta in testa, e dell’apparizione di un uomo più giovane che pensavo fosse Ulysses Ramos.

«Come sai che era lui?»

«È solo una mia idea. Assomigliava ad Hannibal ma era più magro.»

Ci fu un momento di silenzio.

«Vuoi che continui a sorvegliare la casa qui in città?» domandai.

«Fa’ un controllo una volta ogni tanto. Voglio sapere se ci vive qualcuno.»

«Non ti sembra strano che Ramos dia una botta in testa al figlio?» domandai.

«Non so» disse Ranger. «Nella mia famiglia ci diamo continuamente botte in testa.»

Poi chiuse la comunicazione e io rimasi lì ferma in piedi per diversi minuti, domandandomi che cosa mi fosse sfuggito. Ranger non lasciava mai capire granché, ma c’era stata una breve pausa e un lieve cambiamento di tono che mi avevano fatto pensare di avergli detto qualcosa di interessante. Ripercorsi la conversazione e sembrava tutto normale: un padre e due fratelli che si riuniscono in occasione di una tragedia familiare. La reazione di Alexander al saluto di Hannibal mi era sembrata strana ma avevo l’impressione che non fosse stata quella ad attirare l’attenzione di Ranger.

La nonna entrò arrancando. «Ragazzi, ho avuto una giornata pesantissima» disse. «Sono completamente distrutta.»

«Com’è andata la lezione di guida?»

«Abbastanza bene, credo. Non ho investito nessuno. E non ho distrutto neanche la macchina. E a te, com’è andata?»

«Più o meno lo stesso.»

«Louise e io siamo andate in centro per fare una di quelle belle passeggiate rinvigorenti da cittadine anziane, ma continuavamo a deviare per entrare nei negozi. E poi, dopo pranzo, siamo andate a visitare degli appartamenti. Ne ho visti un paio che avrebbero potuto andarmi bene, ma niente di davvero entusiasmante. Domani proveremo a dare un’occhiata a qualche altro condominio.» La nonna sbirciò nella terrina delle patate. «Be’, non è magnifico? Torno a casa da una dura giornata piena di impegni e c’è la cena che mi aspetta. Proprio come se fossi un uomo.»

«C’è una torta alla crema di banana per dolce» dissi «ma ho dovuto usare il vassoio per fare il polpettone.»

La nonna diede un’occhiata alla torta nel frigorifero. «Forse dovremmo mangiarla adesso prima che si scongeli e perda la forma.»

Mi sembrò una buona idea, perciò entrambe ci servimmo un po’ di torta mentre il polpettone cuoceva.

Quando ero piccola non avevo mai pensato alla nonna come al tipo di persona che mangia prima il dolce. La sua casa era sempre pulita e ordinata. I mobili erano di legno scuro e i divani confortevoli ma ordinali. Pranzo e cena erano quelli tradizionali del Burg, pronti a mezzogiorno e alle sei in punto: cavoli ripieni e arrosto, di manzo o di pollo, qualche volta di maiale oppure di prosciutto. Mio nonno non avrebbe desiderato niente di diverso. Aveva lavorato in un’acciaieria per tutta la vita. Era un tipo deciso che troneggiava nelle stanze della casetta a schiera facendole apparire più piccole. In realtà, mia nonna non mi arriva al mento e mio nonno non era molto più alto. Ma suppongo che la statura di una persona non abbia molto a che fare con i centimetri.

Di recente mi ero chiesta come sarebbe stata mia nonna se non avesse sposato mio nonno. Forse non avrebbe cominciato così tardi a mangiare il dolce prima dei pasti.

Tolsi le palle di carne dal forno e le misi una accanto all’altra su un piatto. Messe così, vicine, sembravano i testicoli di un gigante.

«Be’, guarda un po’ queste due belle palle» dir.se la nonna. «Mi ricordano tuo nonno, riposi in pace.»

Finito di mangiare portai Bob a fare una passeggiata. I lampioni erano accesi e la luce filtrava dalle finestre sul retro del mio palazzo. Percorremmo diversi isolati in un tranquillo silenzio, ne dedussi che questo è uno degli aspetti positivi di un cane: non parla troppo e si può passeggiare in pace, pensando ai fatti propri, facendo programmi.

Il mio programma consisteva nel catturare Morris Munson, preoccuparmi per Ranger e domandarmi che cosa fare con Morelli.

Su quest’ultimo punto non avevo proprio alcuna idea. Il cuore mi diceva che ero innamorata. Il cervello non ne era tanto sicuro. Non che importasse molto, perché Morelli non voleva sposarsi. E così eccomi lì con il mio orologio biologico che continuava a ticchettare e nient’altro che indecisione intorno a me.

«Che rabbia!» dissi a Bob.

Il cane si fermò e si voltò indietro per guardarmi, con l’aria di voler dire: «Che cosa succede di tanto importante lì dietro?». Be’, che cosa poteva saperne Bob? Qualcuno gli aveva asportato i testicoli quando era ancora un cucciolo, e non gli era rimasta che un po’ di pelle in più e ricordi lontani. Bob non aveva una madre che pretendeva dei nipoti, non doveva sopportare tutta questa tensione!

Quando tornai a casa la nonna si era addormentata davanti al televisore. Scrissi un biglietto per avvisarla che dovevo uscire per un po’, lo attaccai con uno spillo al suo maglione e dissi a Bob di comportarsi bene e di non mordere i mobili. Rex, sepolto sotto una montagna di trucioli, stava schiacciando un pisolino per digerire la torta. Tutto tranquillo a casa di Stephanie Plum.

Andai dritta all’abitazione di Hannibal. Erano le otto e pareva vuota, ma a dire il vero quella casa sembrava sempre deserta. Parcheggiai due isolati più avanti, scesi dall’auto e andai a piedi fin sul retro. Nessuna finestra era illuminata. Mi arrampicai sull’albero e guardai giù nel cortile di Hannibal. Tutto buio. Scesi e tornai indietro percorrendo la pista ciclabile, pensando che l’atmosfera fosse davvero sinistra. Alberi neri e cespugli neri. Niente luna a illuminare la strada. Solo, di tanto in tanto, un fascio di luce che proveniva da una finestra.

Non mi sarebbe piaciuto affatto incontrare qualche brutto tipo lì fuori. Non Munson. Né Hannibal Ramos. Forse neppure Ranger… per quanto lui fosse un brutto tipo ma in un senso molto intrigante.

Portai l’auto all’estremità dell’isolato in cui si trovava la casa di Hannibal, dove c’era una visibilità migliore. Spinsi indietro il sedile, chiusi le portiere con la sicura e rimasi ad aspettare e a osservare.

Non ci volle molto perché cominciassi ad annoiarmi. Per passare il tempo chiamai Morelli dal cellulare. «Indovina chi è?» dissi.

«La nonna se n’è andata?»

«No. Sto lavorando e lei è a casa con Bob.»

«Bob?»

«Il cane di Brian Simon. Gli sto facendo da dog sitter mentre Simon è in ferie.»

«Simon non è in ferie. L’ho visto oggi.»

«Che cosa?»

«Non posso credere che tu ti sia bevuta la balla delle ferie» disse Morelli. «Simon ha cercato di togliersi dai piedi quel cane fin dal primo momento che l’ha avuto.»

«Perché non me l’hai detto?»

«Non sapevo che avesse intenzione di darti il cane.»

Gettai un’occhiataccia al telefono. «Stai ridendo? È una risata quella che sento?»

«No. Lo giuro.»

Ma era una risata. Il bastardo stava ridendo.

«Non c’è niente da ridere» dissi. «Che cosa me ne faccio di un cane?»

«Pensavo lo avessi sempre desiderato.»

«Be’, sì… prima o poi. Ma non ora! E poi il cane ulula, non vuole essere lasciato da solo.»

«Dove sei?» domandò Morelli.

«È un segreto.»

«Cristo, non starai di nuovo facendo la posta alla casa di Hannibal, vero?»

«Nossignore. Non sto facendo quello.»

«Ho una torta» disse. «Vuoi venire qui a mangiarne una fetta?»

«È una bugia. Non hai nessuna torta.»

«Me la posso procurare.»

«Non dico che sto facendo la posta alla casa di Hannibal, ma se fosse così pensi che servirebbe a qualcosa?»

«Per quello che so Ranger ha un gruppo di persone di cui si fida e gli sta facendo sorvegliare la famiglia Ramos. Ne ho visti alla casa di Homer a Hunterdon County, e so che c’è qualcuno appostato a Deal. E tu sei stata piazzata lì a Fenwood. Non so cosa si aspetti di scoprire, ma la mia impressione è che sappia bene dove vuole arrivare. Possiede informazioni su questo delitto che noi non abbiamo.»

«Sembra che non ci sia nessuno in casa, qui» dissi.

«Alexander è in città, perciò forse Hannibal si è trasferito nell’ala sud della villa di Deal.» Morelli lasciò passare qualche istante. «Probabilmente Ranger ti ha fatto appostare lì perché è sicuro. Ti gratifica facendoti fare qualcosa, in modo che tu non debba ficcarti in qualche incarico di sorveglianza più pericoloso. Forse dovresti lasciar perdere e venire da me.»

«Bel tentativo, ma io non sono dello stesso parere.»

«Valeva la pena tentare» disse Morelli.

Chiudemmo la comunicazione e io mi misi comoda per proseguire con l’appostamento. Probabilmente Morelli aveva ragione, Hannibal si trovava sulla costa. C’era un solo modo di scoprirlo: aspettare e osservare. A mezzanotte Hannibal non era ancora comparso; avevo i piedi gelati ed ero stufa di stare seduta in auto. Scesi e mi sgranchii le gambe: un ultimo controllo sul retro e poi sarei tornata a casa. Percorsi la pista ciclabile con lo spray urticante stretto in mano. L’atmosfera era cupa. Nemmeno una luce. Tutti erano a letto. Arrivai alla porta posteriore di Hannibal e guardai le finestre. Vetri freddi e scuri. Stavo quasi per andarmene quando udii il suono attutito dello scarico di un water. Nessun dubbio da quale casa provenisse: quella di Hannibal. Un brivido gelido mi salì lungo la spina dorsale. Qualcuno era lì al buio, nella casa di Hannibal. Rimasi immobile come una statua, a malapena respirando e ascoltando con ogni molecola del mio corpo. Non ci furono altri suoni, e nessun altro segno di vita. Non sapevo che cosa significasse tutto ciò, ma ero spaventata a morte. Mi precipitai via lungo il sentiero, attraversai il prato, raggiunsi la macchina e presi il volo.


Quando entrai in casa, Rex correva sulla sua ruota e Bob venne da me con gli occhi brillanti e la lingua penzoloni, sperando in una carezza e forse in un po’ di cibo. Salutai Rex e gli diedi un acino di uvetta. Poi ne diedi un paio a Bob facendolo scodinzolare così forte che tutta la parte posteriore del suo corpo sventolava di qua e di là.

Misi la scatola di uvetta sul ripiano della cucina e andai in bagno; quando ritornai l’uvetta era sparita. Rimaneva soltanto un angolino della scatola mangiucchiato e bagnato di saliva.

«Tu hai un disordine alimentare» dissi a Bob. «Fattelo dire da qualcuno che lo sa, mangiare smodatamente è una cosa che non si fa. Prima che tu te ne accorga sarai diventato un barile.»

La nonna aveva preparato un cuscino e una coperta per me nel soggiorno. Tolsi le scarpe allontanandole con un calcio, mi infilai sotto la coperta e in un attimo mi addormentai.

Mi svegliai stanca e disorientata. Gettai un’occhiata all’orologio. Le due. Cercai di vedere qualcosa nell’oscurità. «Ranger?»

«Che cos’è questa storia del cane?»

«Gli faccio da dog sitter. Immagino che non sia un granché come cane da guardia.»

«Mi avrebbe aperto la porta se solo avesse trovato la chiave.»

«Lo so che non è tanto difficile far saltare una serratura, ma come fai con la catenella di sicurezza?»

«È un trucco del mestiere.»

«Anche io sono del mestiere.»

Ranger mi allungò una grande busta. «Da’ un’occhiata a queste foto e dimmi chi riconosci.»

Mi misi a sedere, accesi la lampada da tavolo e aprii la busta. Riconobbi Alexander Ramos e Hannibal. C’erano anche altre foto di Ulysses e Homer Ramos e di due cugini. Tutti e quattro erano molto simili; uno qualunque di loro avrebbe potuto essere l’uomo che avevo visto sulla soglia della casa di Deal. A eccezione, naturalmente, di Homer, che era morto. C’era anche una donna, fotografata insieme a Homer Ramos. Era minuta e bionda, e sorrideva. Homer le teneva il braccio sulla spalla e le restituiva il sorriso.

«Questa chi è?» domandai.

«L’ultima fidanzata di Homer. Si chiama Cynthia Lotte. Lavora giù in città. Fa la segretaria all’accettazione per qualcuno che tu conosci.»

«Oh santo cielo! Adesso la riconosco. Lavora per il mio ex marito.»

«Già» disse Ranger. «Il mondo è piccolo.»

Raccontai a Ranger della casa non illuminata, senza alcun segno di vita, e poi dello scarico del water.

«Che cosa significa questo?» domandai a Ranger.

«Significa che c’è qualcuno in casa.»

«Hannibal?»

«Hannibal è a Deal.»

Ranger spense la lampada da tavolo e si alzò in piedi. Indossava una T-shirt nera, una giacca a vento nera di goretex e un paio di pantaloni sportivi infilati negli stivali neri, come un soldato: la tenuta perfetta per le truppe d’assalto cittadine. Avrei potuto giurare che qualunque uomo lo incontrasse in un vicolo cieco si sarebbe ritrovato senza le palle, con i suoi gioielli più preziosi spariti nel nulla. E qualunque donna si sarebbe inumidita le labbra secche e si sarebbe assicurata di avere tutti i bottoni allacciati. Lui abbassò gli occhi su di me, con le mani in tasca, il volto a malapena visibile nell’oscurità della stanza.

«Avresti voglia di andare a trovare il tuo ex e dare una controllata a Cynthia Lotte?»

«Certo. Nient’altro?»

Lui sorrise e quando rispose lo fece con una voce bassa e dolce. «Non con tua nonna che dorme nella stanza accanto.»

Accidenti.

Quando Ranger uscì misi la catena di sicurezza a posto e ritornai a gettarmi sul divano; mi rigirai a lungo facendo pensieri erotici. Nessun dubbio: ero un’immorale senza speranza. Alzai gli occhi al cielo, solo che il soffitto ci si mise di mezzo. «È per via degli ormoni» dissi a chiunque fosse in ascolto. «Non è colpa mia. Ho troppi ormoni.»

Mi alzai a bere un bicchiere di aranciata. Dopo di che tornai sul divano e mi rigirai ancora un po’; la nonna russava così forte che temevo si sarebbe succhiata la lingua fino in gola e sarebbe morta soffocata.


«Non è una mattinata meravigliosa?» disse la nonna andando in cucina. «Ho voglia di una fetta di torta!»

Guardai l’orologio. Mi trascinai giù dal divano e poi nel bagno, dove rimasi sotto la doccia per un bel po’ di tempo, irritabile e di cattivo umore. Quando uscii mi guardai allo specchio del lavandino. Avevo un grosso brufolo sul mento. Be’, perfetto. Dovevo andare a trovare il mio ex marito e avevo un brufolo sul mento. Probabilmente era la punizione divina per la lussuria mentale della notte appena trascorsa.

Pensai alla calibro .38 nel vaso dei biscotti. Strinsi il pugno e poi con l’indice e il pollice tesi mimai una pistola. Mi puntai l’indice alla tempia e dissi: «Bang».

Mi vestii con una tenuta simile a quella di Ranger. T-shirt nera, pantaloni sportivi neri, stivali neri. Un gran brufolo sulla faccia. Sembravo un’idiota. Tolsi la T-shirt, i pantaloni e gli stivali, e mi infilai una T-shirt bianca con sopra una camicia di flanella scozzese e un paio di jeans con un buchetto vicino al cavallo che mi convinsi nessuno avrebbe visto. Questa era la tenuta giusta per una con un brufolo.

Quando uscii dalla camera da letto la nonna stava leggendo un quotidiano.

«Dove hai trovato il giornale?» domandai.

«Me lo sono fatta prestare da quel signore gentile in fondo al corridoio. Solo che lui ancora non lo sa.»

La nonna imparava velocemente.

«Non ho lezione di guida fino a domani, perciò oggi io e Louise andremo a vedere alcuni condomini. Ho dato un’occhiata in giro anche per il lavoro, e mi pare che ci sia un bel po’ di roba buona. Cercano cuochi, donne delle pulizie, truccatrici e venditori di auto.»

«Se tu potessi scegliere che lavoro vorresti?»

«Facile. Vorrei fare la diva del cinema.»

«Saresti bravissima» dissi.

«Certo, vorrei essere una mattatrice. Alcune parti di me hanno cominciato a deteriorarsi, ma le gambe sono ancora niente male.»

Abbassai lo sguardo sulle gambe della nonna che spuntavano da sotto il vestito. Immagino che tutto sia relativo.

Bob stava accanto alla porta con le zampe strette, perciò gli misi il guinzaglio e uscimmo. Guarda un po’, pensai, io che vado a fare un po’ di moto la mattina presto. Probabilmente dopo due settimane con Bob sarei stata così magra da dover comprare tutti i vestiti nuovi. E l’aria fresca avrebbe fatto bene anche al mio brufolo. Diavolo, avrebbe potuto perfino guarirlo. Forse, una volta tornata a casa, il brufolo non ci sarebbe stato più.

Bob e io camminammo di buon passo. Svoltammo l’angolo e sbucammo nel parcheggio, ed ecco Habib e Mitchell che mi aspettavano in una Dodge vecchia di dieci anni completamente tappezzata con tessuto per tappeti color verde pisello. Una insegna al neon sul tetto faceva pubblicità alla Art’s Carpet’s. Al confronto la Macchina del Vento sembrava di buon gusto.

«Santo cielo» dissi. «Che cos’è questa?»

«È tutto quel che c’era disponible senza preavviso» disse Mitchell. «E se fossi in te non farei troppi commenti perché è un argomento molto delicato. Tanto per rimanere in tema, comunque, stiamo cominciando a perdere la pazienza. Non vorremmo farti del male, ma dovremo pensare a qualcosa di davvero meschino se non ci consegni il tuo ragazzo in fretta.»

«È una minaccia?»

«Be’, se la vuoi mettere così, sì» disse Mitchell. «È una minaccia.»

Habib era al volante e indossava un grosso collare imbottito per le distorsioni del collo. Annuì con cautela a titolo di conferma.

«Noi siamo dei professionisti» disse Mitchell. «Non devi farti ingannare dal nostro comportamento educato.»

«Infatti» disse Habib.

«Avete intenzione di seguirmi, oggi?» domandai.

«Questo è il programma» disse Mitchell. «Spero che farai qualcosa di interessante. Non ho voglia di passare la giornata sul corso principale a guardare scarpe da donna. Il nostro capo comincia a innervosirsi.»

«Perché il vostro capo vuole Ranger?»

«Ranger ha qualcosa che gli appartiene, e vorrebbe discuterne. Puoi dirglielo.»

Sospettavo che quella discussione avrebbe potuto concludersi con un incidente fatale. «Glielo riferirò se mi capita di sentirlo.»

«Digli che se lui restituisce quello che ha, tutto finirà bene. Il passato è passato. Nessun rancore.»

«Mmm. Bene, ora devo scappare. Ci vediamo dopo.»

«Quando torni qui nel parcheggio, ti sarei grato se mi portassi un’aspirina» disse Habib. «Questo colpo di frusta al collo mi fa soffrire.»

«Non so tu» dissi a Bob quando salimmo in ascensore «ma io mi sento un po’ strapazzata.»

Quando entrai la nonna stava leggendo le barzellette a Rex. Bob le si fece vicino per unirsi al divertimento e io portai il telefono nel soggiorno per chiamare Brian.

Simon rispose al terzo squillo. «Pronto.»

«È stato un viaggio corto» dissi.

«Chi è?»

«Sono Stephanie.»

«Come hai avuto il mio numero? Non è nell’elenco.»

«Ma è sulla medaglietta del tuo cane.»

«Oh.»

«Visto che adesso sei a casa, suppongo che passerai a riprendere Bob.»

«Sono un po’ impegnato oggi…»

«Fa niente. Te lo porto io. Dove abiti?»

Ci fu un momento di silenzio. «Okay, la faccenda è questa» disse Simon. «In realtà non rivoglio indietro Bob.»

«Ma è il tuo cane!»

«Non più. Il possesso è quasi tutto, legalmente parlando. Tu hai il cibo. Tu hai la paletta per i bisogni. Tu hai il cane. Ascolta, è un cane simpatico, ma io non ho tempo da dedicargli e mi fa starnutire. Credo di essere allergico.»

«Io penso che tu sia un bastardo.»

Simon sospirò. «Non sei la prima donna che me lo dice.»

«Non posso davvero tenerlo qui. Ulula quando lo lascio da solo.»

«Come se non lo sapessi. E se lo lasci da solo mangia tutti i mobili.»

«Cosa? Che diavolo vuol dire che mangia tutti i mobili?»

«Non badarci. Non intendevo dire questo. In realtà non è che mangi proprio i mobili. Voglio dire, rosicchiare non è proprio mangiare. E non è nemmeno che lui rosicchi. Oh, merda» disse Simon. «Buona fortuna.» E riagganciò. Ricomposi il numero, ma non rispose.

Riportai il telefono in cucina e diedi a Bob la sua ciotola di croccantini per colazione. Mi versai una tazza di caffè e mangiai un po’ di torta. Ce n’era rimasta solo una fetta per cui la diedi a Bob. «Tu non mangi i mobili, vero?» domandai.

La nonna era sprofondata davanti al televisore, a guardare le previsioni del tempo. «Non preoccuparti per la cena, stasera» disse. «Possiamo mangiare gli avanzi del polpettone.»

Le feci segno di sì col pollice alzato ma lei era troppo concentrata sul tempo a Cleveland e non mi vide.

«Be’, allora adesso vado» dissi.

La nonna annuì.

Lei aveva un’aria ben riposata. E io mi sentivo uno straccio. Non stavo dormendo abbastanza, pagavo il prezzo della visita notturna e del russare. Mi trascinai fuori di casa e lungo il corridoio. Gli occhi mi si chiudevano mentre aspettavo l’ascensore.

«Sono esausta» dissi a Bob. «Ho assolutamente bisogno di dormire di più.»

Andai in auto a casa dei miei ed entrai in compagnia di Bob. Mia madre era in cucina, e canticchiava a bocca chiusa preparando una torta di mele.

«Questo deve essere Bob» disse. «Tua nonna mi ha detto che hai un cane.»

Bob corse da mia madre.

«No!» strillai. «Non ti azzardare!»

Bob si fermò a mezzo metro da mia madre e si voltò per guardarmi.

«Lo sai di che cosa sto parlando» dissi a Bob.

«Che cane beneducato» disse mia madre.

Rubai un boccone di mela dalla torta. «La nonna ti ha detto anche che lei russa? E che si alza alle prime luci dell’alba? E che guarda le previsioni del tempo per ore?» Mi versai una tazza di caffè. «Aiuto» dissi al caffè.

«Probabilmente beve un paio di bicchierini prima di andare a dormire» disse mia madre. «Russa sempre dopo averne buttati giù un paio.»

«Non può essere. Non tengo alcolici in casa.»

«Guarda nell’armadio. È dove li tiene di solito. Butto via bottiglie da dentro l’armadio in continuazione.»

«Intendi dire che se le compra e le nasconde nell’armadio?»

«Non le nasconde nell’armadio. È semplicemente il posto dove le tiene.»

«Vorresti dire che la nonna è un’alcolista?»

«No, certo che no. Si fa solo un cicchetto ogni tanto. Dice che la aiuta a dormire.»

Forse era quello il mio problema. Forse anche io avrei dovuto farmi un goccetto ogni tanto.

Il fatto è che se ne bevo troppi finisco sempre per vomitare. E una volta che comincio a bere è difficile dire quando arrivo al limite finché non è ormai troppo tardi. Ogni bicchiere sembra tirarsene dietro un altro.

Il caldo umido della cucina mi avvolgeva, si assorbiva nella camicia di flanella, e io mi sentivo come la torta, infilata nel forno, fumante. Mi contorsi per togliere la camicia, appoggiai la testa sul tavolo e mi addormentai. Sognai che era estate, e stavo arrostendomi sulla spiaggia di Point Pleasant. La spiaggia era calda sotto di me, e il sole scottava sopra di me. La mia pelle era abbronzata e fragrante come la crosta della torta di mele.

Quando mi svegliai la torta era già fuori dal forno e la casa profumava di paradiso. E mia madre mi aveva stirato la camicia.

«Ti capita mai di mangiare il dolce prima dei pasti?» domandai a mia madre.

Lei mi guardò allibita. Come se le avessi domandato se ogni mercoledì allo scoccare della mezzanotte facesse un sacrificio rituale con i gatti.

«Immagina di essere sola a casa» dissi «e che ci sia un dolcetto alla fragola nel frigorifero e un polpettone nel forno. Quale mangeresti prima?»

Mia madre ci pensò su per un minuto, gli occhi spalancati. «Non ricordo di aver mai cenato da sola. Non riesco neanche a immaginarlo.»

Abbottonai la camicia e mi infilai il giubbotto. «Devo andare, ho del lavoro da fare.»

«Perché non vieni a cena domani sera?» disse mia madre. «Potresti portare la nonna e Joseph. Farò l’arrosto di maiale e il purè di patate.»

«D’accordo, ma non so se Joe verrà.»

Aprii la porta e vidi che l’auto dei tappeti era parcheggiata dietro la Buick.

«E adesso?» domandò mia madre. «Chi sono i due uomini in quella macchina stravagante?»

«Habib e Mitchell.»

«Perché hanno parcheggiato qui?»

«Mi stanno seguendo, ma non preoccuparti. Sono gente a posto.»

«Come sarebbe a dire “non preoccuparti”? Ti pare una cosa da dire a una madre? Certo che mi preoccupo. Sembrano dei selvaggi.» Mia madre mi scostò per passare, andò fino all’auto e bussò al finestrino.

Il vetro si abbassò e Mitchell la guardò. «Come va?» domandò.

«Perché state seguendo mia figlia?»

«Sua figlia le ha detto che la stiamo seguendo? Non avrebbe dovuto. Non ci piace far preoccupare le mamme.»

«Ho una pistola in casa, e la userò se occorre» disse mia madre.

«Gesù, signora, non si scaldi tanto» disse Mitchell. «Ma che cosa avete in questa famiglia? Siete tutti così ostili. Stiamo semplicemente accompagnando la sua figliola un po’ in giro.»

«Ho preso il vostro numero di targa» disse mia madre. «Se succede qualcosa a mia figlia dirò di voi alla polizia.»

Mitchell premette il pulsante del finestrino, che si alzò e si richiuse.

«Non hai una pistola, vero?» domandai a mia madre.

«L’ho detto solo per spaventarli.»

«Mmm. Be’, grazie. Sono sicura che andrà tutto bene, adesso.»

«Tuo padre potrebbe muovere qualcuna delle sue conoscenze e farti avere un buon lavoro alla fabbrica di saponi e cosmetici» disse. «La figlia di Evelyn Nagy lavora là e ha tre settimane di ferie pagate.»

Cercai di immaginare Wonder Woman che lavora alla catena di montaggio della fabbrica di saponi e cosmetici, ma non riuscivo a mettere a fuoco l’immagine.

«Non saprei» dissi. «Non credo di avere un futuro nella Saponi Cosmetici.» Salii sulla Buick e salutai mia madre con la mano.

Lei gettò un’ultima occhiata ammonitrice a Mitchell e ritornò in casa.

«È la menopausa» dissi a Bob. «La fa diventare nervosa. Non c’è di che preoccuparsi.»

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