Capitolo 2

Alzai le braccia al cielo. «Insomma, che diavolo volete?»

«Vogliamo il tuo amichetto Ranger, e sappiamo che lo stai cercando» disse Mitchell.

«Non sto cercando Ranger. Vinnie ha dato l’incarico a Joyce Barnhardt.»

«Non so chi sia Joyce Barnhardt» disse Mitchell. «Io conosco te e ti dico che stai cercando Ranger. E quando lo troverai devi dircelo. Se non lo prendi come un dovere… serio, lo rimpiangerai.»

«Do-ve-re» disse Habib. «Mi piace. Ben detto. Penzo che me ne ricorderò.»

«“Penso”» disse Mitchell. «Si pronuncia “penso”.»

«Penzo.»

«Penso!»

«È quello che ho detto. Penzo.»

«Questo beduino è appena arrivato» disse Mitchell rivolto a me. «Prima lavorava per il nostro capo con altre mansioni, in Pakistan, ma è arrivato con l’ultimo carico di merce e non abbiamo più potuto liberarcene. Deve imparare ancora molte cose.»

«Non sono un beduino» gridò Habib. «Ti pare che sia vestito come un beduino? Sono in America, adesso, e non mi metto più certe cose. E non è carino che tu mi dica questo.»

«Beduino» disse Mitchell.

Habib strinse gli occhi. «Lurido bastardo americano.»

«Panzone.»

«Figlio di un cammelliere.»

«Fottiti» disse Mitchell.

«Ti cascassero le palle» rispose Habib.

Probabilmente non c’è alcun bisogno che io mi preoccupi di questi due tizi, pensai: si ammazzeranno l’un l’altro prima di sera. «Devo salutarvi, adesso» dissi. «Sto andando a casa dei miei per pranzo.»

«Non devi passartela bene» rispose Mitchell «se ti tocca scroccare il pranzo dai tuoi. Potremmo aiutarti in questo, sai? Tu ci dai quello che vogliamo, e noi potremmo essere veramente generosi.»

«Anche se volessi trovare Ranger, cosa che non voglio, non potrei. Ranger è come il fumo.»

«Sì, ma ho sentito dire che tu hai delle doti particolari, se capisci cosa intendo. E poi sei una cacciatrice di latitanti… li riporti indietro vivi o morti. Non te ne sfugge mai uno.»

Aprii la portiera della Honda e scivolai rapidamente al volante. «Dite ad Alexander Ramos che deve cercarsi qualcun altro per trovare Ranger.»

Mitchell aveva la faccia di uno che sta per strozzarsi con un boccone. «Noi non lavoriamo per quello stronzetto. E scusa l’espressione.»

Questo mi fece drizzare sul sedile. «Allora per chi lavorate?»

«Te l’ho già detto. Non possiamo divulgare questa informazione.»

Cristo.


Quando arrivai, mia nonna era sulla soglia di casa. Viveva con i miei genitori da quando mio nonno era andato a giocare al lotto direttamente dal buon Dio. Aveva i capelli grigio acciaio tagliati corti e arricciati con la permanente. Mangiava come un bue e aveva la pelle di un pollo bollito. Le sopracciglia erano sottili come lame di rasoio. Quel giorno indossava un paio di scarpe da tennis bianche e una tuta sintetica color magenta, e si stava facendo scivolare la parte superiore della dentiera avanti e indietro in bocca, il che voleva dire che aveva qualcosa in mente.

«Oh, che bello! Stiamo proprio apparecchiando» disse. «Tua madre ha preparato dell’insalata di pollo e involtini del negozio di Giovicchini.»

Sbirciai nel salotto. La poltrona di mio padre era vuota.

«È fuori con il taxi» disse la nonna «Whitey Blocher ha chiamato e ha detto che avevano bisogno di qualcuno per riempire un buco.»

Mio padre è un pensionato delle poste, ma fa il taxista part-time più per stare fuori di casa che per racimolare qualche spicciolo. E fare il taxista spesso è sinonimo di giocare a pinnacolo all’Elks.

Appesi la giacca nell’ingresso e presi posto al tavolo della cucina. La casa dei miei è una piccola bifamiliare: le finestre del soggiorno guardano sulla strada, quelle della sala da pranzo si affacciano sul vialetto di confine con la casa dei vicini, mentre quelle della cucina e la porta sul retro si aprono sul cortile, ben tenuto ma spoglio in questo periodo dell’anno.

Mia nonna si sedette di fronte a me. «Sto pensando di cambiare il colore dei capelli» disse. «Rose Kotman se li è tinti di rosso e sta piuttosto bene. Adesso ha anche un nuovo fidanzato.» Si servì un involtino e lo affettò con il coltello grande. «Non mi spiacerebbe avere un fidanzato.»

«Rose Kotman ha trentacinque anni» disse mia madre.

«Be’, anche io ne ho circa trentacinque» disse la nonna. «Tutti dicono sempre che non dimostro la mia età.»

Era vero: sembrava una donna di circa novant’anni. Le volevo molto bene, ma la forza di gravità non era stata gentile con lei.

«C’è un tizio, al circolo degli anziani, sul quale ho messo gli occhi» disse la nonna. «È proprio belloccio. Scommetto che se avessi i capelli rossi mi darebbe una ripassata.»

Mia madre aprì la bocca per dire qualcosa, poi ci ripensò e si allungò a prendere l’insalata di pollo.

Non avevo molta voglia di pensare ai dettagli delle ripassate di nonna, perciò cambiai discorso e arrivai dritta all’argomento che mi interessava. «Avete sentito dell’incendio giù in centro?»

La nonna spalmò un’abbondante dose di maionese sull’involtino. «Parli di quell’edificio all’angolo fra la Adams e la Terza? Questa mattina ho incontrato Esther Moyer in panetteria, e mi ha detto che c’era suo figlio Bucky al volante del camion dei pompieri con la scala. Dice che Bucky le ha raccontato che è stato un incendio veramente grandioso.»

«Nient’altro?»

«Esther ha detto che quando sono entrati nell’edificio, ieri, hanno trovato un corpo al terzo piano.»

«Sa chi era?»

«Homer Ramos. Esther ha detto che era completamente carbonizzato. Gli avevano sparato. Aveva un gran buco in testa. Ho dato un’occhiata per vedere se il cadavere sarebbe stato sistemato da Stiva, ma non c’era niente sul giornale di oggi. Dico, non sarebbe una gran cosa? Immagino che Stiva non potrebbe farci molto con quello. Potrebbe riempire il buco della pallottola con quella specie di creta da pompe funebri, come ha fatto per Moogey Bues, ma avrà il suo bel da fare con la parte carbonizzata. Certo, se vogliamo guardare il rovescio della medaglia suppongo che la famiglia Ramos risparmierà un po’ di soldi sul funerale, visto che Homer è già stato cremato. Probabilmente tutto quello che dovranno fare sarà versarlo in un’urna. Solo che immagino che la testa sia rimasta, dato che ci hanno trovato un buco. Sicché forse non riusciranno a ficcare la testa nell’urna. A meno che non la facciano a pezzi con un badile. Scommetto che basterebbero un paio di colpi ben assestati e si sbriciolerebbe a meraviglia.»

Mia madre si premette il tovagliolo sulla bocca.

«Ti senti bene?» le domandò la nonna. «Ti sta venendo un’altra di quelle caldane?» La nonna si sporse verso di me e sussurrò: «È la menopausa».

«Non è la menopausa» disse mia madre.

«Sanno chi ha sparato a Ramos?» chiesi alla nonna.

«Esther non mi ha detto niente di questo.»

Per l’una in punto mi ero rimpinzata di insalata di pollo e della torta di riso fatta da mia madre. Uscii velocemente di casa diretta alla Civic, e vidi Mitchell e Habib mezzo isolato più giù lungo la strada. Mitchell mi salutò cordialmente con un cenno quando guardai nella loro direzione. Salii in auto senza restituire il saluto e tornai dall’«uomo della Luna».

Bussai alla porta, il Luna venne ad aprire e mi guardò, confuso esattamente come prima. «Oh, già» disse alla fine. E poi fece una risata, sussultando e sbuffando.

«Vuota le tasche» gli dissi.

Lui rovesciò all’infuori le tasche dei pantaloni e una pipa per hashish cadde sul gradino d’ingresso. Lo raccolsi e lo gettai dentro casa. «Nient’altro?» domandai. «Niente acido? Niente erba?»

«No, piccola. E tu?»

Scossi la testa. Il suo cervello doveva avere l’aspetto di uno di quei grumi di corallo morto che si comprano nei negozi di animali per metterli nell’acquario.

Lui guardò oltre la mia spalla, in direzione della Civic. «Quella è la tua macchina?»

«Sì.»

Chiuse gli occhi e tese una mano. «Niente energia» disse. «Non sento nessuna energia. Quella macchina non va affatto bene per te.» Aprì gli occhi e attraversò il marciapiede a passo lento, tirandosi su i pantaloni cadenti. «Di che segno sei?»

«Bilancia.»

«Lo vedi? Lo sapevo! È un segno d’aria. E quella macchina è di terra. Non devi guidare quell’auto, piccola. Sei una forza creativa e quella macchina ti tiene troppo ancorata al suolo.»

«Vero» dissi «ma non posso permettermi altro. Sali.»

«Ho un amico che potrebbe procurarti l’auto giusta. È una specie di… commerciante.»

«Lo terrò a mente.»

Il Luna si rannicchiò sul sedile del passeggero ed estrasse gli occhiali da sole. «Sarà meglio che tu lo faccia, piccola» disse da dietro le lenti scure. «Molto meglio.»


Lo spaccio della polizia di Trenton si trova nello stesso edificio del tribunale: una tozza costruzione di mattoni, una struttura senza fronzoli, puramente funzionale; un prodotto di quella scuola di architettura cittadina del genere uno-due-tre-arrivederci-e-grazie.

Parcheggiai nell’area riservata e portai dentro il Luna. Tecnicamente non potevo essere io a riconsegnarlo alla giustizia, visto che sono un’agente di rinforzo e non un’addetta alla custodia. Perciò avviai le pratiche burocratiche e telefonai a Vinnie perché venisse a concluderle.

«Vinnie sta arrivando» dissi al Luna, facendolo sedere sulla panca vicino al tenente che si occupava del registro delle sentenze. «Ho un po’ di cosette da fare, qui. Ti lascio da solo per un paio di minuti.»

«Ehi, va bene, piccola. Non preoccuparti per me. Il Luna starà benissimo.»

«Non muoverti di qui!»

«Nessun problema.»

Andai di sopra alla sezione Crimini Violenti e trovai Brian Simon alla scrivania. Era stato promosso solo un paio di mesi prima e ora poteva anche non indossare l’uniforme, ma certo non aveva ancora fatto l’abitudine a vestirsi. Portava una giacca sportiva scozzese gialla e marrone, un completo da marina con un paio di mocassini marroni da poco prezzo, calzini rossi e una cravatta tanto larga da sembrare un tovagliolo per mangiare l’aragosta.

«Non esiste una specie di regolamento per l’abbigliamento da queste parti?» domandai. «Continua a vestirti così e ti manderemo a vivere nel Connecticut.»

«Magari potresti passare da me domattina e aiutarmi a scegliere i vestiti.»

«Gesù» risposi «sono commossa. Ma forse non è il momento giusto.»

«È giusto come qualunque altro» disse. «Qual è il problema?»

«Carol Zabo.»

«Quella è una deficiente! Mi è venuta dritta dritta addosso. E poi è scappata.»

«Era agitata.»

«Spero che tu non abbia intenzione di montarmi una di quelle scuse di circostanza, vero?»

«Per la verità è una faccenda che ha a che fare con le sue mutandine.»

Simon alzò gli occhi al cielo. «Oh, misericordia.»

«Vedi, Carol stava uscendo dai grandi magazzini Frederick’s of Hollywood, ed era sconvolta perché aveva appena preso qualche paio di mutandine sexy.»

«Sarà una storia molto imbarazzante?»

«Sei un tipo che si imbarazza facilmente?»

«Qual è il punto di tutta questa faccenda?»

«Speravo che tu potessi lasciar cadere l’accusa.»

«Neanche per idea!»

Mi sedetti sulla sedia di fronte alla scrivania. «Lo considererei un favore personale. Carol è un’amica. E questa mattina ho dovuto convincerla a non buttarsi dal ponte.»

«Per via delle mutandine?»

«Ragioni proprio come un uomo» dissi, stringendo gli occhi. «Sapevo che non avresti capito.»

«Ehi, il mio secondo nome è Mister Sensibilità. Ho letto I ponti di Madison County, due volte.»

Gli lanciai uno sguardo speranzoso, da cerbiatta. «Allora la lascerai perdere?»

«Fino a che punto dovrei farlo?»

«Non vuole finire in galera. È preoccupata per quella faccenda di andare in bagno davanti a tutti.»

Lui si chinò in avanti e batté la testa sul piano della scrivania. «Perché capitano tutte a me?»

«Sembri mia madre.»

«Farò in modo che non finisca in galera» disse. «Ma mi devi un favore.»

«Non vorrai veramente che venga a casa tua e ti aiuti a vestirti, vero? Non sono quel tipo di ragazza.»

«Continua pure a vivere con questo terrore.»

Dannazione.

Salutai Simon e tornai al piano di sotto. Vinnie era arrivato, ma non c’era traccia dell’«uomo della Luna».

«Dov’è?» volle sapere Vinnie. «Credevo avessi detto che era qui vicino alla porta di servizio.»

«C’era! Gli ho detto di aspettare sulla panca vicino al tenente che si occupa del registro delle sentenze.»

Entrambi guardammo la panca. Era vuota.

Andy Diller stava lavorando alla scrivania. «Ehi, Andy» dissi. «Sai che cosa è successo al mio trovatello?»

«Mi dispiace, non ci ho fatto caso.»

Setacciammo tutto il primo piano, ma il Luna non saltò fuori.

«Devo tornare in ufficio» disse Vinnie. «Ho del lavoro da fare.»

Parlare con il suo allibratore, giocherellare con la pistola, leggere fumetti.

Uscimmo insieme e trovammo il Luna nel parcheggio, che osservava la mia auto bruciare. C’era un gruppetto di poliziotti che si dava da fare con gli estintori ma non sembravano esserci molte speranze. Un camion dei pompieri arrivò lungo la strada, con tutti i lampeggianti accesi, e oltrepassò l’entrata protetta da una catenella, spezzandola.

«Ehi, accidenti» mi disse il Luna. «Un gran peccato per la tua macchina. È una cosa pazzesca, piccola.»

«Che cosa è successo?»

«Ero lì seduto sulla panca che ti aspettavo, e ho visto passare Reefer. Hai presente Reefer? Be’, comunque, Reefer era appena stato rilasciato dalla gattabuia e il fratello stava venendo a prenderlo, e così Reefer mi ha chiesto perché non venivo fuori un momento per salutarlo. Allora sono uscito con lui, e tu lo sai che Reefer ha sempre della buona erba, così una cosa tira l’altra e io ho pensato che potevo semplicemente rilassarmi un po’ nella tua auto, per un minuto, e farmi una fumatina. Immagino che sia partita una scintilla perché un attimo dopo il tuo sedile era in fiamme. E poi da lì si è come tutto allargato. Era uno spettacolo grandioso finché questi gentili signori non sono venuti a spegnerlo.»

Grandioso. Mmm. Mi domandai se il Luna avrebbe trovato altrettanto grandioso che io lo strozzassi.

«Mi piacerebbe molto rimanere qui e arrostire un paio di costolette» disse Vinnie «ma devo proprio tornare in ufficio.»

«Già, e io mi sto perdendo Hollywood Squares» si lamentò il Luna. «Bisogna che concludiamo le nostre faccende, piccola.»


Erano quasi le quattro quando presi gli ultimi accordi perché la macchina fosse portata via. Ero riuscita a mettere in salvo il cerchione di una ruota e questo era tutto. Mi trovavo nel parcheggio a rovistare nella mia borsa a tracolla per cercare il cellulare quando la Lincoln nera mi si avvicinò.

«Davvero una gran sfortuna con la macchina» disse Mitchell.

«Ormai ci sto facendo l’abitudine. Mi è già capitato un sacco di volte.»

«Lo abbiamo visto da lontano e abbiamo immaginato che avessi bisogno di un passaggio.»

«Per la verità ho appena chiamato un amico e mi sta venendo a prendere.»

«Questa è una menzogna grande come una casa» disse Mitchell. «Sei rimasta qui per un’ora e non hai telefonato a nessuno. Scommetto che tua madre non sarebbe contenta di sapere che dici le bugie.»

«Sempre più contenta di sapere che salgo in macchina con voi» dissi. «Le verrebbe un infarto.»

Mitchell annuì. «Hai vinto la partita.» Il finestrino di vetro scuro scivolò e si chiuse, e la Lincoln uscì dal parcheggio. Trovai il telefono e chiamai Lula in ufficio.


«Accidenti, se avessi una monetina per ogni macchina che hai distrutto potrei andare in pensione» disse Lula quando venne a prendermi.

«Non è stata colpa mia.»

«Diavolo, non è mai colpa tua. È una di quelle faccende del karma. Quando si tratta di automobili tu stai al livello dieci del misuratore di sfiga.»

«Immagino che tu non abbia notizie di Ranger?»

«Tutto quello che so è che Vinnie ha passato l’incarico a Joyce.»

«Era contenta?»

«Ha avuto un orgasmo su due piedi lì in ufficio. Connie e io abbiamo dovuto chiedere il permesso di uscire per andare a vomitare.»

Joyce Barnhardt è una specie di fungo velenoso. Quando eravamo all’asilo insieme aveva l’abitudine di sputare nella mia confezione di latte. Alla scuola superiore metteva in giro pettegolezzi sul mio conto e scattava foto di nascosto nello spogliatoio femminile. E prima ancora che l’inchiostro si fosse asciugato sul mio certificato di matrimonio, la trovai col sedere di fuori sul tavolo nuovo di zecca della mia sala da pranzo, insieme a mio marito (ora ex marito).

Dire fungo velenoso era ancora troppo poco per Joyce Barnhardt.

«E poi è successa una cosa buffa all’automobile di Joyce» disse Lula. «Mentre lei era in ufficio a parlare con Vinnie, qualcuno le ha conficcato un cacciavite nello pneumatico.»

Sollevai le sopracciglia.

«Sia fatta la volontà di Dio» disse Lula mettendo in moto la Firebird rossa e alzando il volume dello stereo così forte che avrebbe potuto farci saltare le otturazioni dei denti.

Prese la North Clinton fino a Lincoln e poi la Chambers. Quando mi fece scendere nel cortile di casa non c’era segno di Mitchell è Habib.

«Cerchi qualcuno?» volle sapere.

«Due tizi su una Lincoln nera mi stavano seguendo, oggi: speravano che avrei trovato Ranger al posto loro. Adesso però non li vedo.»

«C’è un sacco di gente che cerca Ranger.»

«Pensi che abbia ucciso Homer Ramos?»

«Ce lo vedrei anche a uccidere Ramos, ma non lo vedrei affatto a dar fuoco a un palazzo. E non ce lo vedo a essere stupido.»

«Come per esempio a farsi riprendere da una telecamera dell’impianto di sicurezza.»

«Ranger doveva sapere dove si trovavano le telecamere. Quel palazzo è di proprietà di Alexander Ramos, e Ramos non va in giro lasciando aperto il coperchio dei barattoli: ha degli uffici in quel palazzo. Lo so perché una volta ho fatto un servizio a domicilio, là, quando esercitavo la mia precedente professione.»

La precedente professione di Lula era stata la prostituzione, perciò non chiesi altri dettagli sul servizio a domicilio.

Salutai Lula e mi fiondai attraverso la doppia porta a vetri che introduceva nel piccolo atrio del palazzo dove abitavo. Il mio appartamento era al secondo piano e potevo scegliere tra le scale e l’ascensore. Quel giorno scelsi l’ascensore, sfinita com’ero dall’aver visto bruciare la mia automobile.

Entrai in casa, appesi la borsa e la giacca e diedi una sbirciatina per vedere come stava il mio criceto, Rex. Correva sulla ruota nella sua gabbia, le zampette erano una sfuocata scia rosa sullo sfondo della plastica rossa.

«Ehi, Rex» dissi. «Come vanno le cose?»

Lui si fermò un momento, con i baffi che vibravano e gli occhi brillanti, in attesa che il cibo gli piovesse dal cielo. Gli diedi un chicco di uva passa dalla scatola nel frigorifero e gli raccontai dell’auto. Lui immagazzinò il chicco d’uva dentro la guancia e ritornò a correre. Fossi stata al suo posto avrei mangiato subito il chicco d’uva e optato per un pisolino. Non riesco a capire questa faccenda di correre per il gusto di farlo: solo se mi inseguisse un serial killer che mutila le sue vittime mi metterei davvero a correre.

Controllai la segreteria telefonica: c’era un messaggio. Senza parole, solo un respiro. Speravo che fosse il respiro di Ranger. Lo riascoltai. Il respiro sembrava normale: non era un ansimare perverso, e neppure un respiro calcolato a mente fredda. Avrebbe potuto essere di un piazzista telefonico.

Avevo ancora un paio d’ore prima che il pollo arrivasse, perciò attraversai il corridoio e bussai alla porta del mio vicino.

«Che cosa c’è?» strillò il signor Wolesky per sovrastare il boato del televisore.

«Mi chiedevo se poteva prestarmi il suo giornale. Mi è capitato un brutto inghippo con l’automobile e credo che dovrei dare un’occhiata alla sezione auto usate negli annunci.»

«Ancora?»

«Non è stata colpa mia.»

Lui mi passò il giornale. «Se fossi in te darei un’occhiata piuttosto alla liquidazione di eccedenze militari. Sarebbe meglio che tu guidassi un carrarmato.»

Mi portai il giornale a casa e lessi gli annunci delle auto e le barzellette. Stavo riflettendo sul mio oroscopo quando il telefono squillò.

«Tua nonna è lì?» domandò mia madre.

«No.»

«Ha avuto un bisticcio con tuo padre e se n’è andata di sopra nella sua stanza pestando i piedi. E un attimo dopo l’ho vista uscire e salire su un taxi!»

«Forse è andata a trovare una delle sue amiche.»

«Ho già provato da Betty Szajak e Emma Getz ma non l’hanno vista.»

Suonarono alla porta e il cuore smise di battermi in petto. Guardai dallo spioncino. Era nonna Mazur.

«È qui!» sussurrai a mia madre.

«Grazie a Dio» disse lei.

«No. Non grazie a Dio. Ha una valigia!»

«Forse ha bisogno di prendersi un po’ di vacanza da tuo padre.»

«Non può venire a vivere qui!»

«Be’, certo che no… ma forse potrebbe stare da te per un giorno o due, finché le acque non si sono calmate.»

«No! No, no, no.»

Il campanello della porta suonò di nuovo.

«Sta suonando» dissi a mia madre. «Cosa devo fare?»

«Per l’amor del cielo, falla entrare.»

«Se le apro sono condannata. È come invitare un vampiro a entrare in casa. Una volta che li hai fatti accomodare è fatta, sei bell’e morto!»

«Non si tratta di un vampiro. È tua nonna.»

La nonna bussò energicamente alla porta. «Ehilà?» gridò.

Riagganciai il telefono e aprii la porta.

«Sorpresa» disse la nonna. «Sono venuta a stare da te per un po’, intanto che cerco un appartamento.»

«Ma tu vivi con mamma.»

«Non più. Tuo padre è un buono a nulla.» Trascinò dentro la valigia e appese il cappotto a un gancio del muro. «Andrò a vivere da sola. Sono stufa di guardare gli spettacoli televisivi che sceglie tuo padre, perciò starò qui finché avrò trovato qualcosa. So che non ti dispiace se mi trasferisco per un po’.»

«Ho solo una camera da letto.»

«Posso stare sul divano. Non sono schizzinosa quanto a questo. Potrei dormire anche in piedi dentro un ripostiglio se fossi costretta.»

«E non pensi alla mamma? Si sentirà sola. È abituata ad averti attorno.» Traduzione: non pensi a me? Io sono abituata a non avere attorno nessuno.

«Immagino che sia vero» disse la nonna. «Ma dovrà semplicemente rifarsi una vita. Non posso continuare a stare in quella casa, c’è troppa tensione. Non mi fraintendere, io voglio bene a tua madre, ma a volte riesce a essere una vera palla al piede, e io non ho molto tempo da perdere. Probabilmente mi resta soltanto una trentina d’anni circa prima di cominciare a rallentare il passo.»

Una trentina d’anni avrebbe portato la nonna ben oltre i cento; e avrebbe portato me a sessant’anni, se non fossi morta sul campo.

Qualcuno bussò delicatamente alla porta: Morelli era arrivato in anticipo. Aprii la porta e lui si fece avanti fino a metà dell’ingresso prima di accorgersi della nonna.

«Nonna Mazur» disse.

«Proprio così» rispose lei. «Abito qui adesso, mi sono appena trasferita.»

Gli angoli della bocca di Morelli si piegarono leggermente verso l’alto. Tonto.

«È stato un trasferimento a sorpresa?» chiese Morelli.

Gli presi di mano il sacchetto con il pollo. «La nonna ha litigato con mio padre.»

«È pollo?» s’informò la nonna. «Si sente il profumo fino a qui.»

«Ce n’è abbastanza per tutti» le disse Morelli. «Ne prendo sempre un po’ di più.»

La nonna si fece largo tra di noi e andò in cucina. «Sto morendo di fame, tutta questa faccenda del trasloco mi ha messo appetito.» Guardò dentro al sacchetto. «E quelli sono biscotti? E insalata di cavolo?» Afferrò dei piatti dalla credenza e li fece scivolare sul tavolo della sala da pranzo. «Accidenti, sarà davvero divertente. Spero che tu abbia della birra. Ho voglia di birra.»

Morelli stava ancora sorridendo.

Era un po’ di tempo, ormai, che Morelli e io avevamo una relazione a fasi alterne. Che è un modo elegante per dire che di tanto in tanto condividevamo un letto. E Morelli non avrebbe trovato affatto divertente che le nottate insieme da occasionali diventassero inesistenti.

«Questa faccenda finirà per essere un ostacolo ai nostri progetti per la serata» sussurrai a Morelli.

«Non dobbiamo far altro che cambiare indirizzo» disse lui. «Possiamo andare a casa mia dopo cena.»

«Scordatelo. Che cosa dovrei dire alla nonna? “Scusa, stanotte non dormo qui perché devo fare quella certa cosa con Joe”?»

«E che cosa ci sarebbe di male?»

«Non saprei. Mi sentirei un po’ a disagio.»

«A disagio?»

«Mi metterebbe lo stomaco in subbuglio.»

«Sciocchezze. Nonna Mazur non ci baderebbe.»

«Sì, però lo saprebbe.»

Morelli aveva l’aria contrariata. «È una di quelle faccende di donne, vero?»

La nonna era tornata in cucina a prendere i bicchieri. «Dove tieni i tovaglioli?» domandò.

«Non ne ho» risposi.

Per un istante mi guardò inespressiva, incapace di concepire una casa senza tovaglioli.

«Ce ne sono nel sacchetto con i biscotti» disse Morelli.

La nonna sbirciò nel sacchetto e si illuminò. «Non è fantastico?» disse. «Ha portato persino i tovaglioli.»

Morelli si dondolò sui calcagni rivolgendomi uno sguardo come a dire che ero una donna fortunata. «Sempre pronto, per ogni evenienza» disse Morelli.

Alzai gli occhi al cielo.

«Questo è il poliziotto che fa per te» ribadì la nonna. «Sempre pronto, per ogni evenienza.»

Mi sedetti di fronte a lei e afferrai un pezzo di pollo. «I boy scout sono sempre pronti» dissi. «I poliziotti sono sempre affamati.»

«Adesso che vado a vivere da sola ho pensato che dovrei trovarmi un lavoro» disse la nonna. «E ho pensato anche che potrei cercarmi un lavoro come poliziotto. Che cosa ne dici?» domandò a Morelli. «Credi che sarei un bravo poliziotto?»

«Credo che lei sarebbe un ottimo poliziotto, ma il dipartimento ha un limite di età.»

La nonna strinse le labbra. «Che strazio. Odio questi stramaledetti limiti di età. Be’, suppongo non resti che diventare una cacciatrice di latitanti.»

Rivolsi lo sguardo a Morelli in cerca di aiuto ma lui teneva gli occhi incollati al piatto.

«Devi saper guidare per fare la cacciatrice di latitanti» dissi alla nonna. «E tu non hai la patente.»

«Avevo deciso di procurarmene una in ogni caso» disse lei. «Domani, per prima cosa, andrò a iscrivermi a una scuola di guida. Ho persino l’automobile. Tuo zio Sandor mi ha lasciato quella Buick e visto che tu non la usi più voglio provarla. L’aspetto non è niente male.»

Una balena con le ruote.

Quando il sacchetto del pollo fu vuoto, la nonna spinse indietro la sedia. «Mettiamo a posto qui» disse «e poi possiamo guardarci un film. Mi sono fermata al negozio di videocassette venendo qui.»

La nonna si addormentò a metà di Terminator, seduta sul divano dritta come un fuso, con la testa china sul petto.

«Forse è meglio che vada» disse Morelli. «Meglio che vi lasci, voi due ragazze, a sistemare le cose.»

Lo accompagnai alla porta. «C’è niente di nuovo su Ranger?»

«Niente. Nemmeno una parola.»

A volte nessuna notizia significa buone notizie. Per lo meno non era venuto a galla con l’alta marea.

Morelli mi tirò a sé e mi baciò, e io sentii il solito solletico nel solito posto. «Conosci il mio numero» disse lui. «E non mi frega proprio un accidenti di quello che pensano gli altri.»


Mi svegliai sul divano con il collo rigido e le ossa rotte. Qualcuno stava facendo rumore di piatti in cucina, e non ci voleva uno scienziato per immaginare di chi si trattasse.

«Non è una mattinata meravigliosa?» disse la nonna. «Sto preparando dei panini dolci. E il caffè è sul fuoco.»

Okay, okay, forse non era tanto male avere ospite la nonna.

Mescolò la pastella dei panini. «Ho pensato che oggi potevamo metterci in movimento presto e forse tu potresti portarmi a fare una lezione di guida.»

Grazie a Dio la mia auto non era più che un mucchietto di cenere. «In questo momento non possiedo una macchina» dissi. «C’è stato un incidente.»

«Di nuovo? Che cosa è successo questa volta? Ha preso fuoco? È stata colpita da una bomba? È finita sotto uno schiacciasassi?»

Mi versai una tazza di caffè. «È andata a fuoco. Ma non è stata colpa mia.»

«Hai una vita fantastica» disse la nonna. «Mai un momento di noia, automobili veloci, uomini veloci, pasti veloci: non mi dispiacerebbe avere una vita così.»

Per quello che riguardava i pasti veloci aveva ragione.

«Non hai ricevuto il giornale stamattina» aggiunse poi. «Sono andata a vedere nel corridoio e tutti i tuoi vicini lo hanno ricevuto ma tu no.»

«Non ricevo mai il giornale a domicilio» le spiegai. «Se voglio un giornale me lo compro.» Oppure me ne faccio prestare uno.

«La colazione non è la stessa cosa senza un giornale da leggere» commentò lei. «Io ho bisogno di leggere le barzellette e gli annunci funebri, e questa mattina volevo anche cercare un appartamento.»

«Ti farò avere il giornale» dissi, non volendo rallentare la ricerca dell’appartamento.

Avevo indosso una camicia da notte di flanella scozzese verde, che si intonava bene agli occhi azzurri iniettati di sangue. La nascosi sotto un giubbotto di jeans e infilai un paio di pantaloni da ginnastica grigi; ficcai i piedi negli stivali, lasciandoli slacciati, calai un berretto sul groviglio arruffato di capelli castani e ricci, lunghi fino alle spalle, e afferrai le chiavi della macchina.

«Torno subito» strillai dal corridoio. «Faccio solo un salto al 7-Eleven.»

Premetti il pulsante dell’ascensore. Le porte si aprirono e d’improvviso non capii più niente. Ranger stava appoggiato alla parete più interna con le braccia incrociate sul petto, gli occhi scuri e indagatori, gli angoli della bocca che accennavano un sorriso.

«Entra» disse.

Aveva abbandonato i suoi consueti abiti neri sgualciti o tute mimetiche alla GI Joe: indossava una giacca di pelle marrone, un maglione color crema, jeans sbiaditi e stivali da lavoro. I capelli, che teneva sempre tirati indietro in una coda di cavallo, erano tagliati corti. Aveva la barba di due giorni, che sembrava rendere ancora più bianchi i denti e ancora più scura la sua carnagione latino-americana. Un lupo in abiti borghesi.

«Cristo» dissi, sentendo in fondo allo stomaco un palpito di qualcosa che preferivo non ammettere. «Sembri diverso.»

«Proprio il tuo tipo di ragazzo.»

Già, infatti.

Si sporse in avanti, afferrò il bavero del mio giubbotto e mi tirò dentro all’ascensore. Premette il pulsante di chiusura delle porte e poi quello di stop.

«Dobbiamo parlare.»

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