Capitolo 1

Cinque mesi dopo…

Carol Zabo stava sul guardrail esterno del ponte sul fiume Delaware, che collega Trenton nel New Jersey con Morrisville in Pennsylvania. Reggeva nel palmo della mano destra un grosso mattone di materiale refrattario, legato alla caviglia con una corda da bucato lunga poco più di un metro. Sul lato del ponte era scritto a grandi lettere lo slogan TRENTON FA E IL MONDO PRENDE. A quanto pareva, Carol era stanca di vedersi prendere dal mondo ciò che lei faceva, qualunque cosa fosse, sicché si preparava a buttarsi nel Delaware lasciando che il mattone facesse il suo dovere.

Io mi trovavo a circa tre metri da Carol e, parlandole, cercavo di convincerla ad allontanarsi dal guardrail. Gli automobilisti ci passavano accanto, alcuni rallentavano per curiosare, imbambolati, altri si facevano strada sfrecciando a destra e sinistra tra i ficcanaso e rivolgevano a Carol gesti osceni perché disturbava il traffico.

«Ascolta, Carol» dissi «sono le otto e mezzo del mattino e comincia a nevicare. Mi si sta congelando il culo. Deciditi a buttarti perché mi scappa la pipì e ho bisogno di un caffè.»

Per la verità non credetti nemmeno per un minuto che si sarebbe buttata. Tanto per cominciare, indossava una giacca da quattrocento dollari. Non era possibile, la giacca si sarebbe rovinata. Carol veniva dal quartiere di Chambersburg, a Trenton, proprio come me, e lì la gente prima passa la giacca alla sorella e dopo si butta dal ponte.

«Ascoltami tu, Stephanie Plum» disse Carol battendo i denti. «Nessuno ti ha invitata a questa festa.»

Carol e io eravamo andate a scuola insieme. Lei faceva la capo-majorette e io roteavo il bastone. Ora lei era sposata con Lubie Zabo e voleva suicidarsi. Se fossi stata sposata con Lubie, anch’io avrei voluto suicidarmi, ma non era quello il motivo per cui Carol se ne stava sul guardrail con un mattone legato a una corda da bucato. Aveva rubato alcuni slip sexy nei grandi magazzini Frederick’s of Hollywood, sul corso principale. Non che Carol non potesse permettersi le mutandine: voleva solo mettere un po’ di pepe nella sua vita sessuale, ma era troppo imbarazzata per portarle alla cassa. Nella fretta di scappare aveva tamponato l’auto del poliziotto in borghese Brian Simon, ed era fuggita senza fermarsi. In quel momento Brian si trovava in macchina e l’aveva inseguita e sbattuta in gattabuia.

Mio cugino Vinnie, presidente e unico proprietario dell’agenzia Vincent Plum — Garanzie per cauzioni, aveva firmato il permesso di rilascio per Carol. Se lei non si fosse presentata il giorno dell’udienza, Vinnie ci avrebbe rimesso ì soldi della cauzione, a meno che non fosse riuscito a rinvenire il cadavere di Carol in tempo utile.

Ecco perché mi trovavo lì. Io sono un’agente di custodia per gli inquisiti, che è un sinonimo gentile di «cacciatrice di latitanti», e recupero la gente per conto di Vinnie. Preferibilmente vivi e disarmati. Vinnie aveva adocchiato Carol mentre andava al lavoro, quella mattina, e mi aveva incaricata di recuperarla; oppure, se il recupero non fosse stato possibile, di individuare il punto esatto in cui cadeva nel fiume. Vinnie temeva di rimetterci la cauzione se Carol si fosse buttata e i sommozzatori e i poliziotti con le aste uncinate non fossero riusciti a trovare il suo corpo appesantito dall’acqua.

«Questo è proprio un brutto modo di morire» dissi a Carol. «Avrai un aspetto orribile quando ti troveranno. Pensaci: i capelli ti diventeranno uno schifo.»

Lei roteò gli occhi verso l’alto come se potesse vedersi fin sopra la testa. «Merda. Non ci avevo pensato» disse. «E ho anche fatto da poco i colpi di sole. Fatica sprecata.»

La neve cadeva a grandi fiocchi informi e bagnati. Io portavo un paio di anfibi con spesse suole vibram, ma il freddo mi si infiltrava lo stesso fino ai piedi. Carol era più elegante, con frivoli stivali alla caviglia, un vestitino nero e la costosa giacca. In un certo senso, il mattone pareva troppo sportivo per il resto dell’abbigliamento. E l’abito mi ricordava uno di quelli che avevo nell’armadio. Lo avevo indossato solo per pochi minuti, prima che venisse gettato a terra e allontanato con un calcio… il fischio d’inizio di una notte molto faticosa con l’uomo dei miei sogni. O, almeno, con uno degli uomini dei miei sogni. È buffo come ognuno di noi attribuisca significati diversi agli abiti. Io mi mettevo quel vestito per attirare un uomo nel mio letto, mentre Carol lo sceglieva per suicidarsi. Ora, dal mio punto di vista buttarsi da un ponte vestita così è una pessima decisione. Se io dovessi gettarmi da un ponte indosserei abiti comodi: Carol avrebbe avuto l’aspetto di un’idiota, con la gonna sollevata fino alle orecchie e le mutandine in bella vista.

«Allora? Che cosa ne pensa Lubie dei colpi di sole?» domandai.

«A Lubie piacciono i colpi di sole» disse Carol. «Però vuole che mi faccia crescere i capelli. Dice che i capelli lunghi sono di gran moda, adesso.»

Personalmente, io non scommetterei molto sulla sensibilità per le tendenze della moda di un uomo che si è guadagnato il soprannome vantandosi delle proprie prodezze sessuali con una pistola lubrificante. Ma, diamine, è solo la mia opinione. «Ripetimi un po’ perché stai lì su quel guardrail.»

«Preferisco morire, piuttosto che andare in galera.»

«Ti ho detto che non andrai in galera. E anche se fosse, non sarebbe per molto.»

«Un giorno è già troppo! Un’ora è già troppo! Ti fanno togliere tutti i vestiti e poi ti fanno chinare per cercare armi nascoste. E devi andare in bagno davanti a tutti. Non c’è intimità, capisci? Ho visto un servizio in televisione.»

Bene, ora la faccenda mi era un po’ più chiara. Mi sarei uccisa anche io, piuttosto che fare una cosa del genere.

«Forse non dovrai andare in galera» dissi. «Conosco bene Brian Simon. Posso parlargli. Forse riuscirò a convincerlo a lasciar cadere le accuse.»

Il viso di Carol si illuminò. «Davvero? Faresti questo per me?»

«Ma certo. Non posso garantire niente, ma posso provarci.»

«E se non ritira le accuse potrò sempre suicidarmi.»

«Proprio così.»


Caricai in auto Carol insieme al mattone e poi mi diressi al 7-Eleven per prendere un caffè e una confezione di ciambelle al cioccolato. Mi pareva di essermele proprio meritate, visto che ero stata così brava a salvare la vita di Carol.

Portai le mie provviste fino all’ufficio di Vinnie, un locale a piano terra affacciato su Hamilton Avenue: non volevo correre il rischio di mangiarmi da sola tutte le ciambelle. E speravo che Vinnie avesse altro lavoro per me. Come agente di custodia degli inquisiti, mi pagano solo se riesco a riportare indietro qualcuno, e al momento ero libera da incarichi.

«Dannazione, capo» disse Lula da dietro gli schedari. «Dalla porta stanno entrando delle ciambelle.»

Con il suo metro e mezzo di statura e poco più di novanta chili di peso, Lula è qualcosa di molto simile a un esperto di ciambelle. Quella settimana era in versione monocromatica: capelli, pelle e rossetto, tutto color cacao. La tinta della pelle è permanente, ma quella dei capelli cambia ogni settimana.

Lula si occupa dell’archivio di Vinnie, e mi dà una mano quando ho bisogno di aiuto. Poiché io non sono la migliore cacciatrice di latitanti del mondo, e Lula non è la migliore aiutante del mondo, la faccenda si rivela perlopiù una specie di versione dilettantesca dei telefilm polizieschi.

«Sono ciambelle al cioccolato?» domandò Lula. «Stavamo proprio dicendo, con Connie, che ne avremmo avuto tanto bisogno. Vero, Connie?»

Connie Rosolli è la capoufficio di Vinnie. Seduta alla scrivania, in mezzo alla stanza, si stava esaminando i baffi in uno specchio. «Credo che farò di nuovo l’elettrolisi» disse. «Che cosa ne pensi?»

«Penso che sia un’ottima idea» le rispose Lula, prendendo senza complimenti una ciambella. «Stai cominciando ad assomigliare a Groucho Marx.»

Sorseggiai il caffè spulciando tra alcune cartelline di documenti che Connie aveva sulla scrivania. «È arrivato niente di nuovo?»

La porta dell’ufficio di Vinnie si spalancò con improvvisa violenza, e Vinnie mise fuori la testa. «Vaffanculo: qualcosa di nuovo c’è… ed è tutto tuo.»

Lula increspò un angolo della bocca e Connie arricciò il naso.

Io mi sentivo un peso sullo stomaco. Di solito devo mendicare gli incarichi, e ora ecco che Vinnie aveva tenuto qualcosa da parte per me. «Che cosa succede?» domandai.

«Si tratta di Ranger» disse Connie. «Si è dato alla macchia, non risponde al cercapersone.»

«Il bastardo non si è fatto vedere all’udienza contro di lui, ieri» disse Vinnie. «È un MC.»

MC è l’abbreviazione che usano i cacciatori di latitanti per «Mancata Comparizione». Di solito sono contenta di sapere che qualcuno non è comparso all’udienza, perché significa che tocca a me riportarlo all’ovile e guadagno di più. In questo caso non c’erano soldi da guadagnare, perché se Ranger non voleva farsi trovare non c’era verso di stanarlo. Fine della discussione.

Ranger è un cacciatore di latitanti come me, solo che lui è bravo. Ha quasi la mia età, anno più anno meno; è cubano-americano; e sono quasi certa che i delinquenti li faccia fuori. Due settimane prima una recluta idiota della polizia aveva arrestato Ranger con l’accusa di porto d’armi abusivo. Qualunque sbirro a Trenton conosce Ranger e sa che è armato illegalmente, ma a tutti va benissimo così. Ma nessuno aveva informato il novellino. Perciò Ranger era stato fermato e rinviato a giudizio per una blanda lavata di capo. Nel frattempo Vinnie lo aveva fatto uscire con una bella somma di denaro, e ora si sentiva solo, spaesato, abbandonato a se stesso in un limbo. Prima Carol. Ora Ranger. Non certo un bell’inizio, per un martedì.

«C’è qualcosa che non mi quadra» dissi. Questa faccenda mi faceva pesare il cuore in petto come piombo, perché là fuori c’era gente a cui non sarebbe dispiaciuto se Ranger fosse sparito per sempre. Ma la sua scomparsa avrebbe lasciato un gran vuoto nella mia vita.

«Non è da Ranger non comparire all’udienza in tribunale. O ignorare il cercapersone.»

Lula e Connie si scambiarono un’occhiata.

«Hai presente quel grande incendio che c’è stato giù in città domenica?» disse Connie. «È saltato fuori che l’edificio è di proprietà di Alexander Ramos.»

Alexander Ramos è un trafficante d’armi che gestisce il mercato nero dalla sua tenuta estiva sulla costa del New Jersey e dalla sua fortezza invernale ad Atene. Ha tre figli adulti, due dei quali vivono negli Stati Uniti, uno a Santa Barbara e l’altro a Hunterdon County. Il terzo vive a Rio. Queste non sono affatto informazioni riservate: la famiglia Ramos ha occupato per quattro volte la copertina del «Newsweek». Da anni la gente era convinta che Ranger avesse un qualche legame con i Ramos, ma di quale legame si trattasse precisamente non si era mai saputo. Ranger è un maestro nel non far sapere le cose.

«E allora?» domandai.

«E allora ieri, quando sono finalmente riusciti ad accedere all’edificio, hanno trovato il figlio più giovane di Ramos, Homer, arrostito in un ufficio al terzo piano. Oltre a essere carbonizzato, aveva anche un bel buco in testa, opera di una pallottola.»

«E allora?»

«E allora vogliono interrogare Ranger. La polizia è venuta qui proprio pochi minuti fa, a cercarlo.»

«Perché?»

Connie allargò le braccia.

«Comunque, lui se l’è svignata» disse Vinnie «e tu lo riporterai indietro.»

Involontariamente alzai la voce di un’ottava. «Che cosa? Sei impazzito? Io non vado a cercare Ranger.»

«È questo il bello della faccenda» disse Vinnie. «Non c’è bisogno che tu lo cerchi, perché verrà lui: ha un debole per te.»

«No! Non ci penso neanche. Scordatelo.»

«Benissimo» disse Vinnie «se non vuoi il lavoro, ci manderò Joyce.»

Joyce Barnhardt è la mia nemica storica. Solitamente mangio la polvere prima di rinunciare a qualcosa e cederlo a lei. In questo caso, Joyce poteva tenersi il lavoro. Che fosse lei a perdere tempo girando a vuoto, in cerca dell’uomo invisibile.

«Che altro c’è?» domandai a Connie.

«Due casi minori e una vera carogna.» Mi porse tre cartelline. «Visto che Ranger non è disponibile, sarò costretta a dare a te la carogna.»

Aprii la prima cartellina. Morris Munson. Arrestato per guida pericolosa e omicidio colposo. «Poteva andare peggio» dissi. «Poteva essere omicidio con sevizie.»

«Non hai letto bene fino in fondo» disse Connie. «Dopo aver investito la vittima, che casualmente era la sua ex moglie, questo tizio l’ha colpita con il cric, l’ha seviziata e ha cercato di darle fuoco. È stato accusato di omicidio per guida pericolosa perché, secondo il medico legale, la donna era già morta quando lui ha cominciato con il cric. L’aveva annaffiata per bene di benzina e stava cercando di far funzionare l’accendino quando un’auto della polizia è passata di lì per caso.»

Piccole macchie nere cominciarono a danzare davanti ai miei occhi. Mi lasciai cadere sul divano di finta pelle e misi la testa fra le ginocchia.

«Stai bene?» domandò Lula.

«Probabilmente è solo un calo di zuccheri» dissi. Probabilmente, invece, è colpa di questo lavoro.

«Poteva andare peggio» disse Connie. «Qui dice che non era armato. Tu ricordati di portare la pistola e vedrai che andrà tutto bene.»

«Non posso credere che l’abbiano rilasciato su cauzione.»

«Va’ a capire» disse Connie. «Immagino che non avessero più spazio per ospitarlo.»

Alzai lo sguardo su Vinnie, che stava ancora sulla soglia del suo ufficio. «Tu hai garantito per questo maniaco?»

«Ehi, io non sono un giudice, sono un uomo d’affari. Non aveva precedenti» disse Vinnie. «E ha un buon posto di lavoro in una fabbrica di bottoni. E una casa di proprietà.»

«E adesso è sparito.»

«Non si è presentato all’udienza» disse Connie. «Ho chiamato la fabbrica e hanno detto che mercoledì è stata l’ultima volta che l’hanno visto.»

«Non si è nemmeno fatto sentire? Ha telefonato per darsi malato?»

«No. Niente. Ho chiamato anche a casa e c’era la segreteria telefonica.»

Diedi un’occhiata agli altri due incartamenti. Lenny Dale, latitante in flagranza, accusato di violenza domestica. E Walter Dunphy, detto «l’uomo della Luna», ricercato per ubriachezza molesta e per aver orinato in luogo pubblico.

Infilai le tre cartelline nella borsa a tracolla e mi alzai.

«Chiamatemi sul cercapersone se sapete qualcosa di Ranger.»

«È la tua ultima occasione» disse Vinnie. «Giuro che altrimenti passo il caso a Joyce.»

Presi una ciambella dalla confezione, passai la scatola a Lula e me ne andai. Era marzo, e la tempesta di neve non riusciva a trasformarsi in qualcosa di veramente serio. C’era un po’ di poltiglia per strada, sul parabrezza e sul finestrino del passeggero si era formato uno strato di ghiaccio. E c’era una grande sagoma sfuocata dietro al vetro. Mi sforzai di vedere attraverso il ghiaccio. La sagoma sfuocata era Joe Morelli.

La maggior parte delle donne avrebbe un orgasmo immediato se si trovasse Morelli seduto nell’auto: era quello l’effetto che faceva. Io lo conoscevo da una vita e non mi capitava quasi più, ormai, di avere un orgasmo immediato. Mi ci volevano almeno quattro minuti.

Indossava stivali, jeans e una giacca nera di lana morbida dalla quale spuntava l’orlo di una camicia di flanella scozzese rossa. Sotto la camicia aveva una T-shirt nera e una Glock calibro .40. Gli occhi erano del colore del whiskey invecchiato, e il corpo dimostrava l’ottima qualità dei geni ereditari italiani, unita a un serio allenamento in palestra. Aveva fama di godersi la vita, ed era una fama ben meritata ma superata. Morelli concentrava tutte le energie sul lavoro, ora.

Mi infilai in auto, al volante, girai la chiavetta dell’avviamento e accesi lo sbrinatore al massimo. Viaggiavo su una Honda Civic azzurra vecchia di sei anni, che era un mezzo di trasporto assolutamente perfetto, ma non mi permetteva di scatenare la fantasia. Difficile sentirsi Xena, la Principessa Guerriera, su una Civic di sei anni.

«Allora?» chiesi a Morelli. «Che cosa succede?»

«Sei a caccia di Ranger?»

«Per niente. Non io. Nossignore. Non se ne parla nemmeno.»

Sollevò le sopracciglia.

«Non sono capace di fare magie» dissi. Mandarmi a cercare Ranger sarebbe stato come mandare il pollo a caccia della volpe.

Morelli era spaparanzato contro la portiera. «Ho bisogno di parlargli.»

«Stai indagando sull’incendio?»

«No. Si tratta di qualcos’altro.»

«Qualcos’altro che ha a che vedere con l’incendio? Come il buco in testa di Homer Ramos, per esempio?»

Morelli sorrise. «Fai un sacco di domande.»

«Sì, ma non riesco a ottenere neanche una risposta. Perché Ranger non risponde al cercapersone? In che modo è coinvolto in questa faccenda?»

«Ha incontrato Ramos in tarda serata. Sono stati ripresi da una telecamera del sistema di sicurezza. L’edificio è chiuso, di notte, ma Ramos aveva la chiave. È arrivato per primo, ha aspettato Ranger per dieci minuti e poi gli ha aperto la porta. Insieme hanno attraversato l’atrio e preso l’ascensore fino al terzo piano. Trentacinque minuti dopo, Ranger è uscito da solo. E dopo altri dieci minuti è scattato l’allarme antincendio. Sono stati visionati i nastri di tutte le quarantotto ore precedenti e, stando alle telecamere, nell’edificio non c’era nessun altro, all’infuori di Ranger e Ramos.»

«Dieci minuti sono un sacco di tempo. Aggiungine altri tre, per prendere l’ascensore o scendere le scale. Perché l’allarme non è scattato prima, se è stato Ranger ad appiccare il fuoco?»

«La porta dell’ufficio in cui è stato trovato Ramos era chiusa, e lì non ci sono rivelatori di fumo; questi si trovano solo nel corridoio.»

«Ranger non è uno stupido. Non si sarebbe lasciato riprendere dalle telecamere se avesse avuto intenzione di far fuori qualcuno.»

«La telecamera era nascosta.» Morelli adocchiò la mia ciambella. «La mangi?»

Spezzai la ciambella in due e gliene diedi un pezzo. Addentai la mia metà. «È stato usato qualche agente infiammabile?»

«Una piccola quantità di combustibile per accendini.»

«Pensi che sia stato Ranger?»

«Difficile dirlo, trattandosi di lui.»

«Connie dice che a Ramos hanno anche sparato.»

«Un proiettile da nove millimetri.»

«Perciò tu pensi’che Ranger stia sfuggendo alla polizia.»

«È Allen Barnes che si occupa delle indagini sull’omicidio. Tutto quello che ha raccolto finora conduce a Ranger e, se lo avesse portato dentro per interrogarlo, probabilmente avrebbe potuto trattenerlo qualche tempo per via dei precedenti, come l’accusa di porto d’armi abusivo. Comunque tu la voglia vedere, stare rinchiuso in cella non è certo ciò che Ranger vuole, ora. E come Barnes ha individuato in Ranger il principale sospettato, così ci sono ottime probabilità che Alexander Ramos sia giunto alla stessa conclusione. Se Ramos crede che Ranger abbia fatto fuori Homer, non aspetterà che sia il tribunale a fare giustizia.»

La ciambella era diventata un malloppo che mi si era bloccato in gola. «O forse Ramos è già arrivato a Ranger…»

«Anche questa è una possibilità.»

Merda. Ranger è un mercenario il cui rigoroso codice morale non necessariamente corrisponde sempre a quello dell’opinione comune. Aveva fatto la sua entrata in scena in veste di mio mentore quando avevo cominciato a lavorare per Vinnie, e il nostro rapporto era cresciuto fino a diventare un’amicizia, almeno per quanto lo consentissero il suo stile di vita da lupo solitario e il mio personale desiderio di rimanere viva. E, per la verità, c’era stata una crescente attrazione sessuale tra noi due, che mi spaventava a morte. Perciò i miei sentimenti per Ranger erano già complicati in partenza, e ora all’elenco delle emozioni indesiderate si aggiungeva un assai brutto presentimento.

Il cercapersone di Morelli squillò. Lui guardò il messaggio sul display e sospirò. «Devo andare. Se ti capita di incrociare Ranger, riferiscigli quello che ti ho detto. Devo proprio parlare con lui.»

«Dovrai pagare un prezzo, per questo.»

«Cena?»

«Pollo fritto» dissi. «Il più unto possibile.»

Lo guardai scendere dall’auto e attraversare la strada. Mi godetti quell’immagine finché non fu fuori dal mio campo visivo e poi rivolsi di nuovo l’attenzione agli incartamenti. Conoscevo Dunphy, «l’uomo della Luna». Eravamo andati a scuola insieme. Nessun problema, in quel caso: dovevo solo andare a scollarlo dal suo televisore.

Lenny Dale viveva in un condominio sulla Grand Avenue e risultava avere ottantadue anni. Mugugnai al pensiero. Non è mai piacevole catturare un vecchio di ottantadue anni. Comunque vadano le cose, si fa sempre la figura del verme, e ci si sente tale.

Restava da leggere l’incartamento di Morris Munson, ma non avevo voglia di andarci. Meglio rimandare e sperare che Ranger si facesse vivo.

Decisi di occuparmi di Dale, come prima cosa. Stava a meno di mezzo chilometro dall’ufficio di Vinnie e dovevo fare un’inversione di marcia sulla Hamilton, ma l’auto non ne volle sapere: andava dritta verso il centro e verso l’edificio incendiato.

Va bene, sono curiosa. Volevo vedere la scena del delitto. E magari speravo di avere una percezione extrasensoriale: stare davanti all’edificio e avere una folgorazione sul conto di Ranger.

Oltrepassai i binari della ferrovia e avanzai lentamente nel traffico mattutino. L’edificio si trovava all’angolo tra la Adams e la Terza. Era un palazzo di mattoni alto quattro piani, probabilmente di una cinquantina d’anni. Parcheggiai sul lato opposto della strada, scesi dall’auto e osservai le finestre annerite dal fumo, alcune delle quali inchiodate con assi di legno. Il nastro giallo per delimitare la scena del delitto si estendeva per tutta la larghezza dell’edificio, teso fra transenne posizionate in modo strategico sul marciapiede per impedire ai ficcanaso come me di avvicinarsi troppo. Ma io non sono il tipo a cui un dettaglio come un sigillo della polizia può impedire di dare una sbirciatina.

Attraversai la strada e mi infilai sotto il nastro. Provai a entrare dalla doppia porta a vetri ma la trovai chiusa. All’interno, l’atrio appariva relativamente indenne. Un bel po’ di acqua lurida e muri anneriti dal fumo, ma nessun danno visibile dovuto al fuoco.

Mi voltai e osservai gli edifici circostanti. Palazzi di uffici, negozi e, all’angolo, un ristorante che effettuava consegne a domicilio.

Ehi, Ranger, sei qui da qualche parte?

Niente. Nessuna percezione extrasensoriale.

Tornai rapidamente all’automobile, mi chiusi dentro e presi il telefono cellulare. Composi il numero di Ranger e attesi due squilli prima che la sua segreteria telefonica rispondesse. Il messaggio che lasciai fu molto breve: «Stai bene?».

Chiusi la comunicazione e rimasi lì seduta qualche minuto, col fiato corto e un buco nello stomaco. Non volevo che Ranger fosse morto. E non volevo che avesse ucciso Homer Ramos. Non che mi importasse un accidenti di Ramos, ma chiunque lo avesse ucciso avrebbe pagato per questo, in un modo o nell’altro.

Alla fine misi in moto l’auto e me ne andai. Mezz’ora dopo stavo davanti alla porta di Lenny Dale, e a quanto pareva i Dale erano in casa perché si sentiva un gran urlare dentro l’appartamento. Rimasi lì nel corridoio del terzo piano, spostando il mio peso da un piede all’altro, ad aspettare un momento di calma in tutto quel chiasso. Quando arrivò, bussai. Questo provocò un’altra esplosione di urla per decidere chi dovesse venire ad aprirmi.

Bussai di nuovo. La porta si spalancò e un vecchio mise fuori la testa. «Sì?»

«Lenny Dale?»

«Ce l’hai davanti, sorella.»

Era tutto naso. Il resto della faccia si era ritirato attorno a quel becco d’aquila, il cranio pelato era chiazzato di macchie color fegato, le orecchie parevano sproporzionate su quella testa mummificata. La donna alle sue spalle era canuta e grassa, con le gambe grosse come tronchi d’albero e i piedi ficcati in un paio di pantofole di peluche a forma di Garfield il Gatto.

«Che cosa vuole, quella?» strillò la donna. «Che cosa vuole?»

«Se chiudi il becco lo scoprirò!» strillò lui di rimando. «Cianciare, cianciare, cianciare. Non sai far altro.»

«Te lo do io il cianciare e cianciare» disse lei. E gli rifilò una botta sulla testa calva e lucida.

Dale si girò su se stesso e la colpì dritto su un lato della faccia.

«Ehi!» dissi. «Piantatela!»

«Ne vuoi uno anche tu?» disse Dale balzandomi contro con il pugno alzato.

Tesi la mano per ammonirlo e per un momento lui rimase immobile come una statua, paralizzato in quel gesto di levare il pugno. Aprì la bocca, strabuzzò gli occhi e cadde, rigido come un pezzo di legno, rovinando al suolo.

Mi inginocchiai accanto a lui. «Signor Dale?»

La moglie lo toccò con un piede, dentro la pantofola di Garfield. «Mmm» disse. «Mi sa che è un altro di quei suoi attacchi di cuore.»

Gli misi una mano sul collo ma non riuscii a trovare le pulsazioni.

«Oh, Cristo» dissi.

«È morto?»

«Be’, io non ne capisco molto…»

«A me pare morto.»

«Chiami il pronto intervento, io provo con la rianimazione cardiopolmonare.» In realtà non sapevo come si praticasse, ma lo avevo visto fare in televisione e volevo provarci.

«Tesoro» disse la signora Dale «riporta quell’uomo in vita e ti meno con il batticarne finché la tua testa non sembrerà una polpetta di vitello.» Si chinò sul marito. «E comunque guardalo lì: è morto stecchito. Non potrebbe essere più morto di così.»

Temevo proprio che avesse ragione. Il signor Dale non aveva un bell’aspetto.

Una donna ancora più anziana venne alla porta. «Che cosa è successo? Un altro degli attacchi di cuore di Lenny?» Si voltò e strillò in direzione del corridoio. «Roger, chiama il pronto intervento. Lenny ha avuto un altro attacco.»

In un attimo la stanza si riempì di vicini, che facevano commenti sulle condizioni di Lenny e un sacco di domande. Come è successo? È stata una cosa rapida? Per caso la signora Dale voleva una teglia di tagliatelle al tacchino per la veglia funebre?

Sicuro, disse la signora Dale, le tagliatelle andavano benissimo. E si domandò se Tootie Greenberg avrebbe potuto preparare una di quelle torte ai semi di papavero come aveva fatto per Moses Schultz.

L’unità del pronto soccorso arrivò, guardò Lenny e fu d’accordo con l’opinione generale: Lenny Dale era morto stecchito.

Io sgattaiolai silenziosamente fuori dall’appartamento e me la filai verso l’ascensore. Non era neppure mezzogiorno e la mia giornata pareva già troppo lunga e troppo piena di morti. Quando arrivai nell’atrio telefonai a Vinnie.

«Sta’ a sentire» dissi «ho trovato Dale, ma è morto.»

«Da quanto?»

«Circa venti minuti.»

«Ci sono testimoni?»

«La moglie.»

«Merda» disse Vinnie. «È stata legittima difesa, vero?»

«Ma non l’ho ucciso io!»

«Sei sicura?»

«Be’, è stato un attacco di cuore, immagino di aver forse contribuito un pochino…»

«Dov’è lui, adesso?»

«Nel suo appartamento. Ci sono anche quelli del pronto soccorso, ma non possono fare assolutamente niente. È proprio morto.»

«Cristo, non potevi fargli venire l’attacco di cuore dopo averlo portato alla polizia? Questa sarà una gran seccatura. Non ti immagini neanche la quantità di scartoffie che c’è da compilare per cose del genere. Fa’ una cosa, vedi se puoi convincere i ragazzi del pronto soccorso a portare Dale al tribunale.»

La bocca mi si spalancò per lo stupore.

«Sì, così potrebbe andare» disse Vinnie. «Fa’ solo in modo che uno dei tizi dell’accettazione venga fuori a dare un’occhiata. Così poi ti darà una ricevuta per il cadavere.»

«Non ho nessuna intenzione di portare un povero vecchio morto alla polizia!»

«Che problema c’è? Pensi che abbia fretta di farsi imbalsamare? Mettila così: stai facendo una cosa buona per lui, sai, come una specie di “ultimo giro, ultimo regalo”.»

Per la miseria. Interruppi la comunicazione. Avrei dovuto tenermi tutta la confezione di ciambelle: la giornata cominciava a sembrare una di quelle in cui me ne sarei mangiate otto. Guardai il piccolo lampeggiante verde del cellulare. Dài, Ranger, pensai. Chiamami.

Uscii dall’atrio e mi diressi in strada. Dunphy «l’uomo della Luna» era il prossimo della lista. Il Luna abitava al Burg, un quartiere a un paio di isolati dalla casa dei miei genitori. Divideva la casetta a schiera con altri due tizi giù di testa quanto lui. L’ultima volta che ne avevo sentito parlare stava facendo un lavoro notturno, come magazziniere allo Shop Bag, e a quell’ora del giorno supponevo che fosse a casa a sgranocchiare patatine e a guardare le repliche di Star Trek.

Svoltai nella Hamilton, oltrepassai l’ufficio, voltai di nuovo a sinistra all’ospedale St. Francis per entrare nel Burg, e cominciai a girare attorno alle casette a schiera sulla Grant. Il Burg è’una zona di Trenton che da un lato è delimitata dalla Chambersburg Street e dall’altro si estende verso Italy. Dolcetti prelibati e pane alle olive sono articoli di prima necessità al Burg. Lì si usa dire «linguaggio dei segni» per indicare il dito medio rivolto dritto verso il cielo. Le case sono modeste, le automobili enormi, le finestre pulite.

Parcheggiai a metà dell’isolato e controllai sulla lista di avere il numero civico giusto. La schiera era composta di ventitré casette, tutte attaccate una all’altra, ognuna di due piani, con la facciata a ridosso del marciapiede. Il Luna abitava al numero 45 della Grant.

Spalancò la porta e mi guardò. Era alto poco meno di un metro e ottanta, aveva i capelli castano chiaro che gli scendevano fino alle spalle, con la riga in mezzo. Era magro e dinoccolato, indossava una T-shirt nera dei Metallica e un paio di jeans con buchi alle ginocchia. In mano teneva un vasetto di burro di arachidi e un cucchiaio: era ora di pranzo. Mi fissò con l’aria confusa, poi si illuminò e si diede un colpetto in testa con il cucchiaio, lasciando una pallina di burro di arachidi appiccicata ai capelli. «Cazzo, piccola! Mi sono scordato dell’udienza in tribunale!»

Era impossibile non adorare il Luna, e nonostante la giornataccia mi ritrovai a sorridere. «Già. Dobbiamo portarti di nuovo là e fissare un’altra udienza.» E io stessa sarei andata a prenderlo per accompagnarlo in tribunale, la prossima volta. Stephanie Plum, mamma chioccia.

«Cosa deve fare il Luna?»

«Vieni con me alla stazione di polizia e ti darò io una mano a sbrigare la faccenda.»

«Gran seccatura, piccola. Sono nel bel mezzo di una replica di Rocky and Bullwinkle. Non possiamo rimandare a un’altra volta? Ehi, dico, perché non resti a pranzo e ci guardiamo insieme il vecchio Rocky?»

Gettai un’occhiata al cucchiaio che teneva in mano. Probabilmente possedeva soltanto quello. «Apprezzo l’invito» dissi «ma ho promesso a mia madre che avrei pranzato con lei.» Quella che si dice una piccola, innocente bugia.

«Ehi, questo sì che è proprio carino. Mangiare con la tua mamma. Molto meglio.»

«Allora, che ne dici se io adesso vado a pranzo e poi torno a prenderti, diciamo fra un’oretta?»

«Grandioso. Il Luna lo apprezzerebbe molto, piccola.»

Scroccare il pranzo da mia madre non era una cattiva idea, ora che ci pensavo. Oltre al cibo avrei scoperto qualunque pettegolezzo stesse girando al Burg riguardo all’incendio.

Lasciai il Luna alle sue repliche e avevo già la mano sulla maniglia della portiera dell’auto quando una Lincoln nera accostò e si fermò accanto a me.

Il finestrino dal lato del passeggero si abbassò e un uomo guardò fuori. «Sei Stephanie Plum?»

«Sì.»

«Vorremmo fare due chiacchiere con te. Sali.»

Sì, certo: io dovrei salire su un’auto da impiegati della mafia con due strani tizi, uno dei quali è un pakistano con una calibro .38 infilata nella cintura dei pantaloni e nascosta solo in parte dal rotolo molle della pancia, e l’altro è uno che pare l’Incredibile Hulk con i capelli a spazzola. «La mamma mi ha detto di non accettare passaggi dagli sconosciuti.»

«Non siamo esattamente degli sconosciuti» disse Hulk. «Siamo proprio il tuo genere di ragazzi. Non è vero, Habib?»

«Proprio così» disse Habib piegando la testa verso di me e mostrando, con un sorriso, un dente d’oro. «Siamo nella media, comunque.»

«Che cosa volete?» domandai.

Il tizio sul sedile del passeggero tirò un gran sospiro. «Non hai intenzione di salire in macchina, vero?»

«No.»

«Va bene, la faccenda è questa: stiamo cercando un tuo amico. Solo che forse adesso non è più tuo amico. Forse anche tu lo stai cercando.»

«Mmm.»

«Così pensavamo che si potrebbe lavorare insieme. Sai, essere una squadra.»

«Non credo.»

«Va bene, allora non dovremo far altro che seguirti. Abbiamo pensato che fosse meglio dirtelo, in modo che tu non ti spaventassi, voglio dire, vedendo che ti stiamo alle calcagna.»

«Chi siete?»

«Quello lì al volante è Habib. E io sono Mitchell.»

«No, volevo dire: chi siete, per chi lavorate?» Ero abbastanza sicura di conoscere già la risposta, ma pensavo valesse comunque la pena chiedere.

«Preferiamo non divulgare il nome del nostro datore di lavoro» disse Mitchell. «A te non importa, comunque. Quello che ti interessa è sapere che non devi tenerci fuori da niente, perché altrimenti ci arrabbiamo.»

«Sì, e non è bello quando ci arrabbiamo» disse Habib ammonendomi con il dito. «Non bisogna prenderci sottogamba. Vero?» domandò guardando Mitchell, in cerca di approvazione. «In effetti, se tu ci fai arrabbiare noi spargiamo le tue budella per tutto il posto auto di mio cugino Muhammad, nel parcheggio del 7-Eleven.»

«Sei scemo?» disse Mitchell. «Noi non facciamo queste porcherie con le budella. E se lo facciamo non è certo davanti al 7-Eleven: è lì che vado a prendere il giornale, la domenica.»

«Oh» disse Habib. «Be’, allora potremmo fare qualcosa di erotico. Potremmo fare divertenti giochini perversi con lei… molte, molte volte. Se lei vivesse nel mio Paese, sarebbe svergognata per sempre, nella comunità. Sarebbe un’emarginata. Naturalmente, visto che è un’americana decadente e immorale, sarà invece compiacente e si sottometterà alle perversioni che le infliggeremo, le piaceranno immensamente. Però, aspetta, forse potremmo mutilarla per renderle sgradevole l’esperienza.»

«Ehi, della mutilazione non mi importa, ma sta’ attento con questa faccenda del sesso» disse Mitchell a Habib. «Io ho una famiglia. Se mia moglie viene a sapere qualcosa sono fottuto.»

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