16

— Mi dispiace — dice Lucia. È uscita con la sua attrezzatura e siede accanto a me, alla mia destra. — Non avrei dovuto fare quella specie di scenata.

— Io non me la sono presa — dico. Ed è vero, perché adesso so che lei ha capito che era sbagliata e non la ripeterà.

— Bene. Senti… io so che ti piace Marjory e che tu piaci a lei. Non lasciare che questo pasticcio con Don rovini tutto, capito?

— Io non so se piaccio a Marjory in modo speciale — dico. — Don ha detto di sì, ma lei non ha mai detto nulla.

— Lo so. È difficile. Le persone adulte non hanno la mancanza d’inibizioni dei bambini, e in questo modo si creano un sacco di complicazioni.

Marjory esce dalla casa tirando su la lampo del giubbotto da scherma. Sorride a me o a Lucia… non sono sicuro della destinazione… quando la lampo s’inceppa. — Ho mangiato troppe frittelle — si giustifica — o mi sto muovendo troppo poco o cose del genere.

— Qui… — Lucia tende la mano e Marjory si avvicina, così Lucia può liberare la lampo e farla scorrere. Io non sapevo che tendere la mano fosse un segnale per offrire aiuto, pensavo piuttosto che fosse un segnale per chiederlo. Forse sarà l’associazione con la parola "qui".

— Vuoi batterti, Lou? — mi chiede Marjory.

— Sì — dico sentendomi arrossire. Metto la maschera e prendo la spada. — Vuoi che usiamo spada e daga?

— Certo — risponde lei. Indossa la sua maschera e non posso più vedere il suo viso, solo il luccicare dei suoi occhi e dei suoi denti quando parla. Vedo però la sagoma del suo corpo sotto il giubbotto da scherma e mi piacerebbe toccarla, ma so che non è appropriato. Lo sarebbe solo se lei fosse la mia ragazza.

Marjory saluta. Ha uno schema di attacco più semplice di quello di Tom e potrei colpire subito, ma poi l’incontro finirebbe troppo presto. Io paro, vado a fondo, paro di nuovo. Quando le nostre lame si toccano, io posso sentire la sua mano attraverso quel contatto; ci stiamo toccando senza toccarci. Marjory mi aggira, si muove avanti e indietro e io seguo i suoi movimenti. È come una specie di danza, una configurazione di movimenti, eccetto che non c’è musica. Percorro con la mente la musica che conosco, cercando di trovarne una adatta a questa danza. Mi fa una strana impressione cercare di accordare il mio schema a quello di Marjory, non per vincere ma per sentire quel contatto, il tocco delle lame l’una contro l’altra.

Paganini: il Primo concerto per violino in Re maggiore opera 6, terzo movimento. Non è proprio perfettamente adatto, ma è l’accompagnamento migliore di qualsiasi altro mi riesca di ricordare: è maestoso ma veloce, con piccole pause quando Marjory non tiene un ritmo esatto cambiando direzione. Nella mia mente accelero o rallento la musica perché coincida con i nostri movimenti.

Mi chiedo cosa senta Marjory. Mi chiedo se può sentire la musica che sento io. Se ambedue stessimo pensando alla stessa musica, la sentiremmo tutt’e due nello stesso modo? Saremmo in accordo o no? Io sento i suoni come colori su uno sfondo scuro; lei forse potrebbe sentirli come linee scure su fondo bianco, come è stampata la musica.

Il tocco di Marjory spezza la catena dei miei pensieri. — Toccato! — dico, e faccio un passo indietro. Lei annuisce e di nuovo eseguiamo il saluto.

Lessi qualcosa una volta dove il pensiero veniva descritto come luce e il non pensiero come buio. Io sto pensando ad altro mentre ci battiamo, così Marjory ha segnato un punto prima di me. Quindi, se lei non sta pensando ad altre cose, forse questo non pensiero l’ha resa più veloce, ed è quel buio più veloce della luce del mio pensiero?

Il violino si solleva in una configurazione a spirale, lo schema di Marjory s’interrompe e io passo all’attacco nella danza, che ora è un mio assolo, e colpisco.

— Toccata — dice lei, e si trae indietro. Il suo respiro affannoso solleva e abbassa il giubbetto. — Mi hai stancata parecchio, Lou. È stato un incontro lungo.

— Ricominci con me? — chiede Simon. Io vorrei stare di più con Marjory, ma prima ho avuto piacere nel battermi con Simon e desidero rifarlo.

Questa volta la musica comincia alle nostre prime mosse, una musica diversa, la Carmen Fantasia di Sarasate… perfetta per l’agilità felina di Simon che mi gira intorno in cerca di un’apertura, e per la mia assoluta concentrazione. Non avevo mai pensato di poter danzare prima… era una cerimonia sociale e io mi sentivo sempre impacciato e goffo. Adesso, con una lama in mano, mi sento del tutto a mio agio a muovermi a tempo di musica.

Simon è molto più bravo di me, ma ciò non mi disturba. Sono impaziente di vedere cosa potrà fare e cosa potrò fare io. Mi tocca una volta, poi un’altra, poi sono io a toccarlo. — Chi segna di più fino a cinque? — chiede. Annuisco, sono a corto di fiato. Per un poco nessuno di noi due segna un punto, finché io non lo tocco di nuovo, più per fortuna che per abilità. Ora siamo pari. Gli altri ci guardano in silenzio: posso sentire il loro interesse come un gradevole calore sulle mie spalle mentre mi batto. Avanti, di lato, intorno, indietro. Simon conosce ogni mio attacco e vi contrappone i suoi, che io riesco appena a parare. Finalmente lui fa qualcosa che non vedo neppure… la sua lama ricompare a sorpresa proprio mentre io ero sicuro di averla respinta con una parata. Ultimo colpo dell’incontro.

Sono grondante di sudore, benché sia una serata molto fresca. Sono certo di emanarne l’odore e rimango sorpreso quando Marjory mi si avvicina e mi tocca un braccio.

— È stato splendido, Lou! — dice. Mi tolgo la maschera. I suoi occhi scintillano, il suo viso è tutto illuminato dal sorriso.

— Sto sudando — dico.

— Lo credo, dopo un incontro simile — commenta lei. — Che meraviglia! Non sapevo che potessi batterti così.

— Non lo sapevo neanch’io — dico.

— E adesso che lo sappiamo tutti — dice Tom — dobbiamo farti partecipare a più tornei. Tu cosa ne pensi, Simon?

— Lou è più che pronto. I più abili schermidori dello stato possono essere in grado di vincerlo, ma una volta che lui si sarà abituato a superare il nervosismo da torneo darà anche a loro filo da torcere.

— Allora, ti piacerebbe venire con noi a un altro torneo, Lou? — chiede Tom.

Mi sento gelare. Credo che loro pensino di far qualcosa di buono per me, ma io ricordo che Don si era arrabbiato con me proprio a causa del torneo. E se poi qualcuno dovesse arrabbiarsi con me a ogni torneo e per causa mia finisse per farsi mettere un chip PDD? Di quanti guai potrei essere la causa?

— Occupano tutta la giornata di sabato — dico.

— Sì, e certe volte anche tutta la domenica — dice Lucia. — Per te è un problema?

— Io… io vado in chiesa la domenica — dico.

Marjory mi guarda. — Non sapevo che tu andassi in chiesa, Lou — dice. — Be’, potresti partecipare solo di sabato… o ci sono problemi anche con i sabati?

Non ho alcuna risposta pronta. Non credo che capirebbero se parlassi loro di Don. Mi stanno guardando tutti e io mi sento confuso. Non desidero che vadano in collera con me.

— Il prossimo torneo nelle vicinanze ci sarà dopo il Rendimento di Grazie — annuncia Simon. — Non c’è bisogno di prendere una decisione questa sera. — Mi guarda con espressione bizzarra. — Ti preoccupa il fatto che qualcuno possa di nuovo non accusare i colpi, Lou?

— No… — Sento che la gola mi si chiude e abbasso le palpebre per calmarmi. — Si tratta di Don — dico. — Lui andò in collera al torneo. Fu per quello, credo, che lui… finì per deprimersi tanto. Io non voglio che questo avvenga a qualcun altro.

— Non fu per colpa tua — dice Lucia, ma pare irritata. È questo che succede, penso: la gente si irrita per causa mia, anche se non si irrita con me. Non c’è bisogno che sia colpa mia perché io sia motivo di collera.

— Capisco cosa vuoi dire — dice Marjory. — Tu non vuoi causare fastidi, vero?

— Sì.

— E non puoi essere sicuro che nessuno si arrabbierà con te.

— Sì.

— Ma… Lou… le persone si arrabbiano con altre persone anche senza ragione. Don era arrabbiato anche con Tom. Altra gente può essere arrabbiata con Simon; io so che c’è stato chi si è arrabbiato con me. Sono cose che succedono. Purché una persona sia certa di non far nulla di male, non può stare a preoccuparsi continuamente che qualcuno possa arrabbiarsi con lei.

— Forse la cosa non ti dispiace quanto a me — dico.

Lei mi lancia un’occhiata che, ne sono certo, significa qualcosa ma non so quale. Lo saprei se fossi normale? Come fanno le persone normali a imparare cosa significano quelle occhiate?

— Forse no — dice lei. — Io avevo l’abitudine di pensare che fosse sempre colpa mia e me ne affliggevo di più. Ma questo è… — S’interrompe e capisco che sta cercando un modo di esprimersi educato. Lo so perché spesso mi è capitato di parlare lentamente mentre cerco un modo educato di esprimermi. — È difficile stabilire quanto ci si deve affliggere per cose del genere — conclude.

— Già — dico io.

— Il vero problema sono le persone che credono che tutto sia colpa degli altri — dice Lucia. — Quelli che biasimano gli altri per le loro mancanze, e ci si arrabbiano.

— Certe volte però l’irritazione è giustificata — commenta Marjory. — Non dico nel caso di Don e Lou. Lou non ha fatto niente di male. Era tutta colpa della gelosia di Don. Ma io vedo cosa sta a cuore a Lou: lui non vuole essere causa di guai per nessuno.

— Oh, non lo sarà mai, non è il tipo — dice Lucia lanciandomi a sua volta un’occhiata; un’occhiata diversa da quella che mi ha lanciato Marjory. Neppure questa so cosa significhi.

— Lucia, perché non fai un incontro con Simon? — dice Tom. Lo guardiamo tutti.

Lucia ha la bocca semiaperta. La richiude con fermezza. — Benissimo — dice. — Da tanto tempo non ne facciamo. Che ne dici, Simon?

— Piacere mio — dice lui sorridendo.

Guardo Lucia e Simon. Lui è più bravo di lei, ma non sta segnando tutti i punti che potrebbe. È evidente che si sta battendo con una competenza adattata al livello di quella di Lucia, non facendo uso di tutta la sua abilità. È gentile da parte sua. Io sono conscio della vicinanza di Marjory, dell’odore delle foglie secche, dell’aria fresca sulla mia nuca. Si sta davvero bene.

Alle nove comincia a far freddo sul serio. Rientriamo tutti e Lucia ci fa una cioccolata calda, la prima di quest’anno. Gli altri stanno parlando; io siedo con la schiena contro un puf di pelle verde e cerco di ascoltare mentre guardo Marjory. Lei usa molto le mani mentre parla. Un paio di volte le sventola in un modo che a me avevano insegnato fosse sintomo di autismo. Ho visto altra gente far questo, e mi sono sempre chiesto se fossero parzialmente autistici.

Adesso stanno parlando di tornei, di chi ha vinto, di chi ha perso, di chi era l’arbitro e di come la gente si comportava. Non riesco a registrare i nomi, non conosco quella gente. Il mio sguardo passa da Marjory a Simon a Tom a Lucia a Max e a Susan, cercando di seguire chi sta parlando e quando, ma non riesco ad anticipare quando uno sta per fermarsi e un altro sta per cominciare, anche perché ogni tanto ci sono delle pause e talvolta qualcuno comincia quando un altro sta ancora parlando.

Gradualmente comincio a notare che tutti s’interrompono quando parla Simon e lasciano a lui l’iniziativa della conversazione. Simon non interrompe quasi mai, ma nessuno interrompe lui. Uno dei miei insegnanti diceva che la persona che parlava indicava la persona che doveva parlare dopo di lei guardandola. A quell’epoca io di solito non potevo notare dove guardasse qualcuno a meno che non vi soffermasse gli occhi a lungo. Adesso invece posso seguire gli sguardi. Simon guarda quasi tutti. Max e Susan guardano sempre prima Simon. Tom guarda Simon la metà del tempo; Lucia circa un terzo del tempo.

Ma tutto succede molto in fretta, e io non capisco come loro possano insieme partecipare alla conversazione e al tempo stesso seguire tutte le interazioni.

Mi rendo conto che Marjory mi guarda e sento un gran calore al viso e al collo. Le voci degli altri si confondono e perdo la concentrazione. Vorrei nascondermi nell’ombra, ma non c’è ombra. Abbasso gli occhi. Cerco di ascoltare la sua voce, però lei non parla molto.

A un certo punto Simon dice che deve andare e si alza. Si alzano anche Tom e Max. Anch’io. Simon stringe la mano a Tom e dice: — Mi sono divertito. Grazie per l’invito.

Tom dice: — Sei sempre il benvenuto.

Max tende la mano e dice: — Grazie per essere venuto, è stato un onore.

Simon gliela stringe e dice: — Anche per me.

Io non so se porgere la mano o no, ma Simon me la porge e io la stringo, benché sia un gesto che non mi piace: è così privo di senso. Poi dice: — Grazie, Lou, sono stato lieto d’incontrarmi con te.

— Anch’io — dico.

Simon mi dà un colpetto al braccio col dito. — Spero che tu cambi idea a proposito dei tornei — dice. — È stato un piacere.

— Grazie — dico io.

Mentre Simon esce, Max dice: — Anch’io devo andare — e Susan si alza. Devo andare anch’io. Li guardo: i loro visi sembrano tutti amichevoli, ma così sembrava anche il viso di Don. Se uno di loro fosse in collera con me, come farei a capirlo?


Giovedì abbiamo avuto la prima riunione informativa con i dottori, e abbiamo potuto rivolgere loro domande. Ci sono due dottori, Ransome con i suoi capelli grigi e ricciuti e Handsel, con capelli neri lisci che sembrano incollati alla sua testa.

— Il trattamento è reversibile? — domanda Linda.

— Be’… no. Gli effetti che produce sono stabili.

— Così se non ci piacessero non potremmo ritornare alla nostra personalità normale?

Le nostre personalità non sono normali, tanto per cominciare, ma io non lo dico. Linda lo sa quanto me: forse stava scherzando.

— Ehm… no, probabilmente. Ma non vedo perché…

— Perché dovremmo volerlo? — dice Cameron. Ha il viso teso. — A me piace come sono adesso. Non so se mi piacerà quello che diventerò.

— Non dovrebbe essere molto diverso — spiega Ransome.

Ma ogni differenza è una differenza. Io non sono la stessa persona che ero prima che Don cominciasse a perseguitarmi. Non solo ciò che lui ha fatto, ma i miei incontri con gli agenti di polizia mi hanno cambiato. Ho saputo cose che prima non sapevo, e la conoscenza cambia la gente. Alzo una mano.

— Sì, Lou — dice Ransome.

— Non capisco in che modo il trattamento possa non cambiarci — dico. — Se renderà normali le nostre elaborazioni sensoriali, cambierà la quantità e la qualità degli stimoli registrati e cambierà le nostre percezioni e il nostro modo di elaborarle…

— Sì, ma tu… la tua personalità… rimarrà la stessa, almeno all’incirca. Ti piaceranno le stesse cose, avrai le stesse reazioni…

— E allora il cambiamento a cosa serve? — chiede Linda. — La sua voce suona irritata, ma io so che è più preoccupata che irritata. — Ci dicono che vogliono che noi cambiamo, in modo da non aver bisogno delle misure di sostegno che ci servono ora… ma se non ne avremo più bisogno, ciò significa che le nostre preferenze saranno diverse… o no?

— Io ho impiegato tanto tempo per imparare a sopportare il sovraccarico degli stimoli — dice Dale. — E se poi uno degli effetti del trattamento sarà che non riuscirò a registrare le cose che dovrei? — Il tic all’occhio sinistro è più accentuato che mai.

— Non credo che avverrà nulla di simile — risponde il dottore. — I primatologi hanno constatato solo cambiamenti positivi nell’interazione sociale.

— Io non sono un maledetto scimpanzè! — Dan sbatte la mano sul tavolo.

Il dottore sembra sbigottito. Ma perché dovrebbe sorprendersi per il fatto che Dale sia rimasto urtato? A lui piacerebbe se presumessero il suo comportamento basandosi sugli studi dei primatologi circa gli scimpanzè? O forse le persone normali fanno proprio questo, vedono se stesse come somiglianti agli altri primati? Non posso crederlo.

— Nessuno sta insinuando che tu lo sia — dice il dottore in tono di leggera disapprovazione. — C’è solo il fatto che… loro sono il miglior modello che abbiamo. E dopo il trattamento hanno dimostrato di avere personalità riconoscibili, con cambiamenti solo nelle deficienze sociali…

Una diapositiva si accende sullo schermo. — Questo è lo schema della normale attività del cervello quando sceglie una faccia conosciuta su una foto di diverse facce — spiega. Si vede il profilo grigio di un cervello con piccole macchie verdi scintillanti. Grazie alle mie letture, riconosco alcune delle localizzazioni… no, riconosco la diapositiva. È l’illustrazione 16.43.d, dal capitolo 16 Funzioni del cervello. - E questo… — La diapositiva cambia. — Questo è lo schema di attività di un cervello autistico durante il medesimo compito. — Altro profilo grigio con piccole macchie verdi scintillanti. Illustrazione 16.43.c dallo stesso capitolo.

Cerco di ricordare le didascalie del libro. Non credo che il testo dicesse che la prima diapositiva raffigurava la normale attività del cervello quando si sceglie un volto conosciuto in una foto di gruppo. Credo si trattasse invece della normale attività del cervello quando vede un volto noto. Un composito di… ecco, ora ricordo. Nove volontari maschi e sani scelti tra studenti universitari secondo un protocollo approvato dal comitato di ricerca…

È già comparsa un’altra diapositiva. Altro profilo grigio, altre macchie scintillanti, questa volta azzurre. La voce del dottore continua a ronzare. Anche questa illustrazione la riconosco. Cerco di ricordare quel che diceva il libro e insieme di ascoltare il dottore, ma non ci riesco.

Alzo la mano. Il dottore s’interrompe e domanda: — Sì, Lou?

— Non potremmo avere una copia di queste illustrazioni, per riesaminare tutto più tardi? Sono cose difficili da afferrare tutte in una volta.

Lui si acciglia. — Non credo sia una buona idea, Lou. La ricerca è brevettata e quindi molto confidenziale. Se vuoi saperne di più, puoi chiedere a me o al tuo consulente ciò che vuoi e guardare ancora le diapositive, benché non credo possano dirti molto… — fa un risolino — visto che non sei un neurologo.

— Ho letto qualcosa in materia — dico.

— Davvero? — La sua voce si fa strascicata. — Cos’hai letto, Lou?

— Alcuni libri. — All’improvviso non voglio dirgli quale libro sto leggendo, e non so perché.

— Sul cervello?

— Sì… volevo capire come funzionava prima che voi lo cambiaste con il trattamento.

— E… lo hai capito?

— È molto complicato — dico. — Come il calcolo in parallelo, solo anche peggio.

— Hai ragione, è molto complicato — dice. Pare soddisfatto. Penso sia contento che io non abbia detto di aver capito. Mi chiedo cosa direbbe se sapesse che ho riconosciuto quelle illustrazioni.

Cameron e Dale mi guardano. Anche Bailey mi lancia un’occhiata. Vorrebbero sapere cosa so. Ma il fatto è che nemmeno io so ancora bene cosa so… e cosa può significare nel presente contesto.

Smetto di pensare al libro e ascolto, cercando di memorizzare le diapositive che vanno e vengono. Certo non afferro tutto, ma credo di riuscire a registrare abbastanza dati da poterli confrontare con il libro più tardi.

Infine sulle diapositive cominciano a comparire non più profili di cervelli ma molecole. Non le riconosco, non compaiono nel testo di chimica organica; però riconosco un gruppo ossidrile qua e un gruppo amminico là.

— Questo enzima regola l’espressione genica del fattore undici della crescita neurale — dice il dottore. — Nei cervelli normali è parte di un ciclo di feedback che interagisce con i meccanismi di controllo dell’attenzione, in modo da creare un’elaborazione preferenziale di segnali socialmente importanti… questa è una delle cose che a voi autistici creano problemi.

Ha rinunciato a far finta che siamo qualcosa di diverso da casi clinici.

— Fa parte del trattamento per neonati autistici e per altri casi di sviluppo cerebrale difettoso. Il nuovo trattamento vi ha introdotto delle modifiche in modo che possa influire sulla crescita neurale di un cervello adulto.

— Così che noi possiamo fare attenzione alla gente? — chiede Linda.

— No, no… noi sappiamo che questo già lo fate. Non siamo certo come quegli idioti della metà del Ventesimo secolo che credevano che gli autistici ignorassero l’altra gente. No, vi aiuterà a badare ai segnali sociali: espressioni del viso, variazione nei toni di voce, sfumature gestuali, questo genere di cose.

— Ma le persone non devono venire addestrate… come si fa con i ciechi… a interpretare i nuovi dati?

— Naturalmente. Ecco perché il trattamento comprende anche una fase di addestramento. Incontri sociali simulati usando volti generati dal computer… — Altra diapositiva, questa volta rappresentante un gruppo di persone sedute in circolo; una parla e le altre ascoltano con attenzione. Poi un negozio di abbigliamento con qualcuno intento a parlare con una commessa. Poi un ufficio affaccendato con qualcuno che parla al telefono. Tutto ha un’aria molto normale e molto noiosa. Il dottore non mostra alcuna diapositiva di persone che partecipino a un torneo di scherma o che stiano parlando alla polizia dopo aver subito un’aggressione in un parcheggio. L’unica diapositiva con un poliziotto raffigura un agente con un sorriso fisso sulla faccia che indica qualcosa col braccio a un’altra persona con un buffo cappello e uno zaino e in mano un libro dal titolo Guida turistica.

Sono scene artificiose, tutte, e i personaggi hanno proprio l’aria di essere stati generati dal computer. Noi dunque dovremmo diventare persone normali e autentiche e loro si aspettano che impariamo a diventarlo da queste figure irreali, immaginarie, poste in situazioni artificiose, studiate. Il dottore e i suoi soci presumono di sapere in quali evenienze ci troveremo e quali problemi dovremo affrontare e quindi c’insegneranno a reagire nelle circostanze immaginate da loro. Non sanno, il dottore e i suoi soci, che io avrei avuto bisogno d’imparare a trattare con un avversario che al torneo si rifiutava di riconoscere i colpi ricevuti e con un rivale geloso che mi minacciava e voleva farmi del male, e con vari agenti di polizia che ricevevano denunce di vandalismi e attentati.

Do un’occhiata all’orologio. La seconda parte della seduta sta per concludersi e sono passate quasi due ore. Il dottore chiede se abbiamo domande da fare. Io abbasso gli occhi. Le domande che vorrei fare non sono appropriate a una riunione come questa, e poi comunque non credo che lui mi risponderebbe.

— Quando pensate di cominciare il trattamento? — chiede Cameron.

— Vorremmo cominciare col primo soggetto… chiedo scusa, paziente… il più presto possibile. Tutto potrebbe esser pronto per la settimana prossima.

— Quanti ne trattereste insieme? — domanda Bailey.

— Due. Vorremmo trattarne due alla volta con una distanza di tre giorni tra i gruppi. Così l’equipe medica primaria potrebbe concentrarsi esclusivamente sui suoi pazienti durante i primi giorni più critici.

— E se invece aspettaste che i primi due completassero il trattamento per vedere se funziona? — chiede Bailey.

Il dottore scuote la testa. — No, è meglio trattare l’intero gruppo entro un tempo relativamente breve.

— Si può arrivare alla pubblicazione più presto — mi ascolto dire.

— Come? — domanda il dottore.

Gli altri mi stanno guardando. Io abbasso gli occhi.

— Se noi ci sottoponiamo al trattamento subito e tutti insieme, voi potrete descriverlo e far pubblicare le vostre relazioni più in fretta. Altrimenti ci vorrebbe un anno e più. — Guardo brevemente il dottore in viso. Ha le guance rosse e lucide.

— Non è questo il motivo — dice a voce un po’ troppo alta. — È solo che i dati sono confrontabili più agevolmente se i soggetti sono separati da un piccolo spazio di tempo. Voglio dire, supponiamo che accada qualcosa che cambi la situazione tra il periodo d’inizio e fine del trattamento ai primi due… qualcosa che riguardi il resto di voi…

— Quale cosa, un fulmine a ciel sereno che ci renda normali? — domanda Dale. — Temete che noi ci ammaliamo di normalità galoppante così da diventare soggetti inadatti al trattamento?

— No, no — dice il dottore. — Pensavo più a cambiamenti di politica…

Mi chiedo quali siano le idee del governo in proposito. Ma i governi pensano? Sta forse per succedere qualcosa, qualche nuovo regolamento o mutamento di orientamenti politici, che possa rendere impossibile questa ricerca entro pochi mesi?

Su questo punto posso informarmi quando tornerò a casa. Se ne domandassi a quest’uomo, non credo che mi darebbe una risposta onesta.

Quando usciamo camminiamo fuori tempo gli uni rispetto agli altri. Di solito abbiamo un modo di combaciare, di conformarci alle particolarità reciproche, quando ci muoviamo in gruppo. Adesso ci muoviamo senza armonia. Posso percepire la confusione, la collera. Nessuno parla. Io non parlo. Non voglio parlare con questi che sono stati i miei colleghi più stretti per tanti anni.

Tornati al nostro edificio, ognuno di noi si affretta a dirigersi verso il proprio ufficio. Io siedo e allungo una mano verso il ventilatore. Ma mi fermo e poi mi domando perché mi sono fermato.

Non voglio lavorare. Voglio pensare a ciò che quelli vogliono fare del mio cervello e a quello che veramente significa. Significa più di quanto loro dicano. E ogni cosa che dicono ha significati nascosti.

I testi mi dicono che il mio cervello funziona molto bene, perfino così com’è, e che è assai più facile rovinare le funzioni del cervello che restaurarle. Se le persone normali riescono davvero a fare tutto ciò che si sostiene facciano, sarebbe bello avere le loro stesse capacità; ma io non sono sicuro che le abbiano.

Non sempre riescono a capire perché gli altri fanno ciò che fanno. Questo appare evidente quando discutono delle loro ragioni, delle loro motivazioni. Una volta io sentii una persona dire a un bambino: — Tu fai questo solo per farmi arrabbiare. — E invece era chiaro che il bambino lo stava facendo perché gli piaceva farlo, non si curava per nulla dell’effetto della sua azione sull’adulto. Anche a me è capitato di non curarmi di alcune cose, perciò posso riconoscere questo atteggiamento negli altri.

Il mio telefono squilla. — Lou, sono Cameron. Vuoi venire a cena a mangiare una pizza?

— È giovedì — dico. — Alla pizzeria ci sarà Ciao-Sono-Jean.

— Io, Chuy e Bailey ci andiamo lo stesso, per parlare. Linda non viene. Dale non viene.

— Io non so se desidero venire — dico. — Ci penserò. Quando vorreste andare?

— Alle cinque — dice lui.

— Ci sono posti dove non è bene parlare di questo — dico.

— La pizzeria non è uno di quei posti — dice Cameron.

— Molta gente sa che andiamo lì.

— Sorveglianza? — chiede Cameron.

— Sì. Ma è bene andare lì, perché ci andiamo spesso. Poi c’incontreremo altrove.

— Al Centro.

— No — dico io, pensando a Emmy. — Non voglio andare al Centro.

— Tu piaci a Emmy — dice Cameron. — Lei non è molto intelligente, però le piaci.

— Non stiamo parlando di Emmy — dico.

— Stiamo parlando del trattamento — dice Cameron. — Io non so dove andare eccetto al Centro.

Penso a diversi posti, ma sono tutti pubblici. Non possiamo parlare di questo argomento in posti pubblici. Infine dico: — Potreste venire nel mio appartamento. — Non ho mai invitato Cameron nel mio appartamento… non ci ho mai invitato nessuno.

Lui rimane a lungo in silenzio. Neppure lui mi ha mai invitato a casa sua. Finalmente dice: — Io verrò. Non so cosa faranno gli altri.

— Io verrò a cena con voi — decido.

Non posso lavorare. Accendo il ventilatore e girandole e spirali si mettono in moto, ma i bagliori ammiccanti e luccicanti non mi calmano. Non riesco a pensare ad altro che al trattamento che incombe su di noi. È come l’immagine di un’ondata oceanica che torreggia su qualcuno ritto su una tavola da surf. Il surfista esperto potrà sopravvivere, ma l’inesperto verrà schiacciato. Come faremo a cavalcare quest’onda?

Scrivo e stampo il mio indirizzo e l’itinerario per arrivare a casa mia partendo dalla pizzeria. Guardo sulla mappa della città per essere sicuro di non sbagliare.

Alle cinque spengo il ventilatore, mi alzo ed esco dall’ufficio. Per ore non ho combinato nulla di utile. Mi sento cupo e pesante. Fuori fa freddo e rabbrividisco. Entro nella mia macchina, consolato dalle quattro gomme sane, dal parabrezza intatto e dal motore che si accende appena giro la chiave. Ho spedito alla mia compagnia di assicurazione una copia del rapporto della polizia, come mi hanno consigliato.

Alla pizzeria il nostro tavolo abituale è libero; sono arrivato prima degli altri. Siedo. Ciao-Sono-Jean mi lancia un’occhiata e distoglie gli occhi. Un momento dopo arriva Cameron, seguito da Chuy, Bailey ed Eric. La tavola sembra asimmetrica con soli cinque di noi. Chuy sposta la sua sedia verso un’estremità, anche noi ci spostiamo un poco: adesso i posti sono simmetrici.

Vedo la pubblicità della birra con il suo schema di accendi-e-spegni, ma questa sera mi dà fastidio. Guardo altrove. Siamo tutti nervosi. Io devo picchiettare con le dita sulla mia gamba e Chuy gira il collo a destra e a sinistra, a destra e a sinistra. Il braccio di Cameron si muove: sta manipolando il suo dado di plastica nella tasca. Appena abbiamo ordinato, Eric tira fuori la sua penna multicolore e comincia a fare i suoi disegnini.

Vorrei che fossero qui anche Dale e Linda, sembra strano essere senza di loro. Allorché il cibo arriva mangiamo in silenzio. Abbiamo quasi finito quando io mi schiarisco la gola. Tutti mi guardano e poi distolgono gli occhi.

— Talvolta le persone hanno bisogno di un posto dove parlare — dico. — Talvolta si può parlare a casa di qualcuno.

— Si potrebbe parlare in casa tua? — domanda Chuy.

— Si potrebbe — dico.

— Non tutti sanno dove abiti — obietta Cameron. Neppure lui, quanto a questo.

— Qui c’è l’indirizzo e l’itinerario — dico. Tiro fuori di tasca i foglietti preparati e li metto sul tavolo. Uno alla volta, ognuno prende il suo.

— Certe persone devono alzarsi presto — dice Bailey.

— Adesso non è tardi — dico.

— Certe persone dovranno andarsene prima delle altre se le altre si trattengono fino a tardi.

— Lo so — dico.

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