19

Il signor Aldrin viene nel nostro edificio. Bussa alla mia porta e dice: — Per favore, esci. Voglio parlare a tutti voi nella palestra. — Il mio stomaco si annoda. Lo sento bussare alle altre porte. Escono tutti, Linda e Bailey e Chuy ed Eric e gli altri, e ci dirigiamo verso la palestra con facce contratte dall’inquietudine. La palestra è abbastanza grande da contenerci tutti. Forse vogliono che cominciamo subito il trattamento? A prescindere da quanto possiamo decidere?

— La questione è complicata — inizia il signor Aldrin. — Ci penseranno altri a spiegarvela più dettagliatamente, ma io tengo a dirvi una cosa adesso, subito. — Ha l’aria eccitata e non tanto triste come era pochi giorni fa. — Ricordate quando dissi che pensavo fosse sbagliato da parte loro cercare di costringervi a sottoporvi al trattamento? Quando vi chiamai al telefono?

Lo ricordo, e ricordo anche che lui non fece niente per aiutarci e più tardi ci disse che avremmo dovuto acconsentire per il nostro bene.

— La compagnia ha deciso che il signor Crenshaw non ha agito bene — dice il signor Aldrin. — Perciò vuole sappiate che non ci sono minacce al vostro lavoro, qualunque sia la decisione che prenderete. Potrete rimanere come siete e lavorare qui con le stesse misure di sostegno che avete ora.

Devo chiudere gli occhi: è troppo, non riesco a sopportarlo. Contro il buio delle palpebre si formano sagome multicolori, luccicanti di gioia. Non sarò obbligato a farlo. E se la compagnia ha deciso di rinunciare al trattamento, non dovrò neanche decidere se lo desidero o no.

— E Cameron? — domanda Bailey.

Il signor Aldrin scuote la testa. — Mi dicono che ha già iniziato il trattamento — dice. — Non credo che si possa interrompere a questo punto. Ma verrà risarcito in pieno…

Questa è una grossa sciocchezza. Come si può risarcire qualcuno al quale avete cambiato il cervello?

— Per quanto riguarda il resto di voi — dice il signor Aldrin — se volete sottoporvi al trattamento, la compagnia ve lo fornirà come aveva promesso.

Non era stato promesso, ma minacciato; però non lo dico.

— Non perderete nulla quanto a stipendio e anzianità di servizio durante la durata del trattamento e successiva riabilitazione.

— Quindi sarà volontario? Interamente volontario? — chiede Linda senza alzare gli occhi.

— Interamente, sì.

— Non capisco per quale ragione il signor Crenshaw abbia cambiato parere — dice lei.

— Non è stato proprio lui a cambiare parere — spiega Aldrin. — Altre persone… al di sopra di lui… hanno deciso che il signor Crenshaw ha commesso uno sbaglio.

— Cosa gli accadrà ora? — domanda Dale.

— Non lo so — dice il signor Aldrin. — Io non devo parlare con nessuno di quanto può accadere, e nemmeno lo so, quanto a questo.

Io penso che se il signor Crenshaw continuerà a lavorare per la compagnia troverà un altro modo per procurarci fastidi. Perché se la compagnia può invertire la sua politica fino a questo punto in un senso, con un dirigente diverso potrà invertirla di nuovo nel senso opposto, proprio come un’automobile che può andare in qualsiasi direzione a seconda di chi la guida.

— Al vostro incontro di questo pomeriggio con l’équipe medica assisteranno anche rappresentanti del nostro ufficio legale e del Patrocinio gratuito che è emanazione del vostro Centro — dice il signor Aldrin. — Probabilmente anche qualche altra persona. Tuttavia voi non dovrete prendere alcuna decisione immediata. — Di colpo sorride, un sorriso completo che investe bocca, occhi, guance e fronte. Tutte le linee del suo viso dimostrano che in questo momento lui è davvero contento e rilassato. — Adesso sono tranquillo — dice. — E sono felice per voi.

Questa è un’altra espressione che non ha senso. Nessuno può provare un sentimento al posto della persona che lo prova. Il signor Aldrin non può essere felice per me; sono io che devo essere felice per me, altrimenti il sentimento non può essere reale. A meno che luì non voglia dire che è felice perché pensa che noi saremo contenti di non essere costretti a sottoporci al trattamento; e allora "sono felice per voi" significa "sono felice perché adesso le circostanze sono a vostro favore".

Il cercapersone del signor Aldrin squilla e lui si scusa ed esce. Un momento dopo affaccia la testa alla porta della palestra e dice: — Devo andare. Ci vediamo questo pomeriggio.


La riunione è stata trasferita in una sala più grande. Il signor Aldrin è sulla porta quando arriviamo, e altri uomini e donne ben vestiti sono già nella sala e si aggirano intorno al tavolo. Anche qui ci sono alle pareti pannelli di legno, ma autentico, e una moquette verde sul pavimento. Le sedie sono dello stesso tipo, ma la stoffa delle imbottiture è color oro opaco a disegni verdi simili a piccole margherite. Sul davanti c’è un grande tavolo con gruppi di sedie alle due estremità, e sulla parete di fondo c’è un immenso schermo. Sul tavolo ci sono due pile di cartelle. Una ne contiene cinque e l’altra quante bastano perché ognuno di noi ne abbia una.

Come prima noi ci sediamo e gli altri seguono lentamente il nostro esempio. Il dottor Ransome lo conosco; il dottor Handsel non è qui. C’è invece un altro dottore, una donna piuttosto anziana; porta una targhetta con scritto il suo nome, L. HENDRICKS. È lei a parlare per prima. Ci dice che si chiama Hendricks, che è a capo del gruppo di ricerca e che desidera avere solo soggetti volontari. Poi siede. Si alza un uomo in abito scuro e ci dice che il suo nome è Godfrey Arakeen, avvocato, che fa parte della divisione legale della compagnia e che non dobbiamo preoccuparci di niente.

Io ancora non sono preoccupato.

Parla dei regolamenti governativi circa l’assunzione e il licenziamento di lavoratori handicappati. Io non sapevo che la compagnia ricevesse delle agevolazioni fiscali per averci dato lavoro; l’avvocato fa sembrare che il nostro valore per la compagnia risieda proprio nelle facilitazioni di cui siamo fonte piuttosto che nel nostro lavoro. Dice che il signor Crenshaw avrebbe dovuto informarci del nostro diritto a parlare con il difensore civico della compagnia. Si alza un altro uomo e Arakeen lo presenta: si chiama signor Vanagli, e lui ci dice che se abbiamo una qualunque noia sul lavoro dobbiamo andare a parlarne con lui.

Ha gli occhi più vicini al naso di quelli di Arakeen, e il disegno della sua cravatta è orribile: losanghe azzurre e oro disposte come gradini che salgono e scendono. Non credo che potrei parlare con lui dei miei fastidi. Lui comunque non rimane: ci saluta e se ne va.

Poi una donna pure in abito scuro ci dice di essere l’avvocato del Patrocinio gratuito che di solito lavora con il nostro Centro, e di trovarsi lì per tutelare i nostri diritti. Si chiama Sharon Beasley e ha una faccia larga e amichevole e capelli morbidi e ondulati che le arrivano alle spalle; ma non sono lucenti come quelli di Marjory. Ci dice che il signor Arakeen è qui per proteggere la compagnia e che, benché lei non abbia dubbi sulla sua onestà e sincerità (qui Arakeen si muove sulla sedia e stringe la bocca come se stesse per arrabbiarsi), noi comunque abbiamo bisogno di qualcuno che sia dalla nostra parte e lei è quella persona.

— Adesso dobbiamo mettere in chiaro quale sia la situazione per quanto riguarda voi e il protocollo di ricerca — dice Arakeen quando la signora Beasley si siede. — Uno del vostro gruppo ha già cominciato il trattamento, e al resto di voi è stata promessa un’opportunità di tentarlo. — Io penso ancora che era una minaccia, non una promessa, ma non interrompo. — La compagnia intende mantenere questa promessa, e perciò se qualcuno di voi deciderà di partecipare al protocollo sperimentale può farlo. Riceverete lo stipendio intero, ma non il compenso dovuto ai soggetti di ricerca, perché sarete considerati come impiegati in altra sede. La compagnia coprirà tutte le spese mediche. — Fa una pausa e si rivolge al signor Aldrin. — Pete, ora puoi distribuire quelle cartelle.

Ogni cartella ha un nome sulla copertina, su un’etichetta, e un’altra etichetta porta scritto: PRIVATO E CONFIDENZIALE — NON VA RIMOSSO DA QUESTO EDIFICIO.

— Come vedrete — dice Arakeen — qui troverete la descrizione dettagliata di ciò che la compagnia farà per voi, sia che decidiate di partecipare alla ricerca o no. — Ne porge una anche alla signora Beasley, che l’apre subito e comincia a leggere. Io apro la mia.

— Se deciderete di non partecipare, a pagina sette, paragrafo uno, troverete che non perderete né il lavoro né l’anzianità di servizio né le misure di sostegno adeguate alla vostra situazione speciale. Continuerete a lavorare esattamente come ora.

Mi chiedo se è vero. E se il signor Crenshaw avesse avuto ragione e ci fossero veramente computer abili a fare ciò che facciamo noi? Nel futuro la compagnia potrebbe cambiare politica, anche se ora non lo fa. Noi potremmo perdere il lavoro.

— Sta dicendo che avremo il lavoro vita natural durante? — chiede Bailey.

Arakeen ha una strana espressione. — Io… non ho detto questo.

— Quindi se la compagnia tra pochi anni dovesse giudicare che non rendiamo abbastanza denaro per essa, noi potremmo ancora perdere il lavoro.

— La situazione potrebbe venir rivalutata alla luce di future condizioni economiche, certo — dice Arakeen. — Ma per ora non anticipiamo situazioni del genere.

Mi chiedo quanto durerà quel "per ora".

La signora Beasley si drizza sulla sedia. — Io credo che il posto di lavoro deve essere garantito per un certo periodo — dice. — Specialmente pensando alla preoccupazione dei nostri clienti e alle precedenti minacce illegali del vostro manager.

— Di quelle minacce la dirigenza ignorava tutto — obietta Arakeen. — Non vedo perché dovremmo…

— Dieci anni — dice lei.

Dieci anni è un periodo piuttosto lungo. Il viso di Arakeen si arrossa. — Non credo…

— Allora state progettando di licenziarli entro un certo tempo?

— Non ho detto questo — dice lui. — Ma non si possono fare previsioni a così lunga scadenza. Nessuno può impegnarsi in una simile promessa.

— Sette — insiste lei.

— Quattro — contratta lui.

— Sei.

— Cinque.

— Cinque con un’adeguata liquidazione — conclude lei.

Lui alza le mani con le palme in fuori. Non so cosa significhi questo gesto. — Sta bene — dice. — Possiamo discutere i dettagli più tardi, no?

— Naturalmente — dice lei. Gli sorride, ma solo con le labbra.

— Bene, allora — dice Arakeen. — Il vostro posto di lavoro è garantito per cinque anni, nelle stesse condizioni, sia che decidiate di partecipare al protocollo o no. La scelta sta a voi. Intanto vi annuncio che dal punto di vista medico tutti siete stati giudicati abilitati a sottoporvi al trattamento.

Tace, ma nessuno dice nulla. Io rifletto. Tra cinque anni io sarò sulla quarantina, e a quarant’anni non sarà facile trovare un altro lavoro. E d’altra parte mancherà ancora parecchio tempo prima di potersi mettere a riposo.

Arakeen dice: — Vi daremo un po’ di tempo per leggere il contenuto della cartella. Nel frattempo io e la signora Beasley discuteremo di alcuni dettagli legali, ma resteremo qui per rispondere a eventuali domande. In seguito, la dottoressa Hendrìcks e il dottor Ransome vi daranno le informazioni mediche previste per oggi, anche se non ci si aspetterà da voi alcuna decisione circa il protocollo.

Leggo il materiale nella cartella. Alla fine c’è un foglio di carta con uno spazio per la mia firma. Dice che ho letto e compreso tutti i documenti della cartella e che accetto di non parlarne a nessuno fuori della sezione, tranne che al difensore civico e all’avvocato del Patrocinio gratuito. Per ora non firmo.

Si alza il dottor Ransome e di nuovo presenta la dottoressa Hendricks. Lei comincia subito a dirci quello che abbiamo già sentito. Io lo so già, quindi non le presto molta attenzione. Ciò che desidero sapere viene dopo, quando lei spiega quel che accadrà in effetti al nostro cervello.

— Senza allargare il vostro cranio, noi non possiamo introdurvi nuovi neuroni — dice. — Dobbiamo invece continuare a bilanciarne il numero, in modo che ci sia la giusta quantità di tessuto neurale atto a stabilire le giuste connessioni. Durante la sua maturazione, il cervello fa questo spontaneamente: noi perdiamo molti dei neuroni che avevamo all’inizio, se essi non formano connessioni… ed è bene che sia così.

Alzo la mano e lei annuisce. — Toglierete del tessuto dal cervello per far posto al nuovo?

— Non materialmente: si tratta di un meccanismo biologico, in realtà, chiamato riassorbimento…

Cego e Clinton avevano descritto il fenomeno del riassorbimento durante lo sviluppo. I neuroni superflui spariscono, riassorbiti dall’organismo, un processo controllato dai meccanismi di ritorno che fanno parzialmente uso dei dati sensoriali. Come modello intellettuale è affascinante. In fondo, però, la dottoressa sottintende che loro si propongono di riassorbire parte dei neuroni che io possiedo adesso, da adulto. E questo è diverso. I neuroni che ho adesso fanno tutti qualcosa di utile per me. Alzo di nuovo la mano.

— Sì, Lou? — Questa volta a parlare è il dottor Ransome. La sua voce è un po’ inquieta. Credo pensi che io faccio troppe domande.

— Dunque voi distruggerete una parte dei nostri neuroni per lasciar spazio alla nuova crescita?

— Non si tratta esattamente di distruzione — risponde lui. — È un processo complicato, Lou. Non so se potreste capirlo.

— Noi non siamo stupidi — brontola Bailey.

— Io so cosa significa riassorbimento — dice Dale. — Significa che del tessuto sparisce e viene sostituito da tessuto nuovo. Se l’organismo riassorbe neuroni, quelli spariscono.

— Suppongo che la cosa si possa descrivere così — dice Ransome, lanciandomi un’occhiataccia. Mi biasima per aver dato il via alla discussione, credo.

— Ma è vero — dice la dottoressa Hendricks. Non ha l’aria inquieta ma eccitata, come uno che aspetta di montare su un carosello favorito. — Noi riassorbiamo i neuroni che hanno stabilito connessioni sbagliate e facciamo crescere neuroni che stabiliranno le connessioni giuste.

— Una cosa andata è andata — dice Dale. — Questa è la verità. Dite la verità. — Sta diventando molto nervoso, il tic del suo occhio è parecchio accentuato. — Quando qualcosa è andato, la cosa giusta potrebbe non crescere.

— No! — dice Linda a voce alta. — No, no, no! Non il mio cervello. Non farete a pezzi il mio cervello. Non buono, non buono!

— Non si tratta di fare a pezzi il cervello di nessuno — rettifica la dottoressa Hendricks. — Si tratta di aggiustamenti… i nuovi collegamenti neurali crescono e niente cambia.

— Tranne il fatto che non saremo più autistici, se tutto va bene — dico io.

— Infatti. — Ora la dottoressa Hendricks sorride, come se avessi detto la cosa giusta. — Tu resterai come sei, solo che non sarai più autistico.

— Ma io sono autistico — dice Chuy. — Non so come fare a essere qualcun altro. Dovrei ricominciare daccapo, come un neonato, e crescere di nuovo, per essere qualcun altro.

— Be’, non proprio — dice la dottoressa. — La maggior parte dei neuroni non vengono toccati, solo alcuni, pochi alla volta, quindi potrete fondarvi sul vostro passato. Naturalmente dovrete reimparare alcune cose, dovrete sottoporvi a una riabilitazione… questo si trova nel pacchetto del consenso informato, che il vostro avvocato vi spiegherà… ma tutto è a spese della compagnia. Non dovrete pagar nulla.

— Lungavita — dice Dale.

— Chiedo scusa? — dice la dottoressa.

— Se devo ricominciare daccapo, voglio più tempo per diventare quell’altra persona, per vivere. — Dale è il più anziano di noi, ha dieci anni più di me, anche se non li dimostra. — Voglio Lungavita — ripete, e io mi rendo conto che sta parlando del trattamento antietà noto col nome commerciale di Lungavita, appunto.

— Ma questo è assurdo — esclama Arakeen prima che la dottoressa possa rispondere. — Aggiungerebbe… un mucchio di soldi alle spese già alte del protocollo.

Dale chiude strettamente gli occhi, ma la palpebra dell’occhio col tic continua a vibrare anche così. — Se per questo reimparare si dovesse impiegare più tempo di quel che credete voi… magari anni… io voglio più tempo da vivere come persona normale. Quanto ne ho vissuto da autistico. Di più. — Il suo viso si rilassa e lui apre gli occhi. — Aggiungete Lungavita e io accetto il trattamento. Senza Lungavita me ne vado.

Mi guardo intorno. Tutti stanno fissando Dale, anche Linda. Cameron avrebbe potuto fare una cosa del genere, ma non Dale. Lui è già cambiato. Io so che anch’io sono già cambiato. Siamo autistici, ma cambiamo. Forse non abbiamo bisogno del trattamento per cambiare ancora di più, forse perfino per diventare normali.

Ma intanto che penso a questo e a quanto tempo ci vorrebbe, alcuni paragrafi del libro mi tornano alla mente. — No — dico. Dale si volge a guardarmi. — Non è una buona idea. Questo trattamento manipola i neuroni e lo fa anche Lungavita. Questo trattamento è sperimentale; nessuno sa se funziona davvero.

— Noi sappiamo che funziona — dice la dottoressa Hendricks. — È solo…

— Lei non sa con sicurezza se funziona con gli esseri umani — la interrompo, anche se interrompere è da maleducati. Lei mi ha interrotto per prima. — Ecco perché avete bisogno di noi o di gente come noi. Non è una buona idea sottoporsi ad ambedue i trattamenti. Nella scienza, si cambia una variabile alla volta.

Arakeen pare sollevato. Dale non dice nulla, ma chiude gli occhi di nuovo. Non so cosa stia pensando. So come mi sento io: incerto.

— Io voglio vìvere più a lungo — dice Linda. — Voglio vivere più a lungo e non cambiare.

— Io non so se voglio vivere più a lungo o no — dico. Parlo lentamente, ma nemmeno la dottoressa Hendricks m’interrompe. — Se diventassi qualcuno che non mi piace, a cosa mi servirebbe vivere più a lungo? Prima voglio sapere cosa diventerò, poi potrò decidere se voglio vivere più a lungo oppure no.

Dale annuisce.

— Credo che dovremmo decidere sulla base di questo trattamento e basta. Nessuno sta cercando di costringerci. Possiamo pensarci sopra.

— Ma… ma… — balbetta Arakeen — dite che volete pensarci sopra? E per quanto tempo?

— Per quello che ci vorrà — dice la dottoressa Beasley. — Avete già un soggetto che si sta sottoponendo al trattamento; sarebbe prudente trattare gli altri soggetti a intervalli, comunque, per vedere come si mettono le cose.

— Io non dico che voglio sottopormici — dice Chuy. — Ma potrei considerare la cosa con più favore… se ne facesse parte anche Lungavita. Magari non nello stesso tempo, ma più tardi.

— Io ci penserò — dice Linda. È molto pallida. — Ci penserò, e vivere più a lungo mi fa sembrare il trattamento più accettabile, però non lo desidero realmente.

— Neppure io — approva Eric. — Non voglio che qualcuno mi cambi il cervello. Si cambia il cervello ai criminali e io non sono un criminale. Un autistico è diverso dagli altri, ma non è cattivo. Non è sbagliato essere diversi. Certe volte è duro, ma non è sbagliato.

Io non dico nulla. Non sono sicuro di ciò che vorrei dire. Tutto sta succedendo troppo in fretta. Come faccio a decidere? Come posso scegliere di diventare qualcun altro che non conosco e non posso prevedere? Il cambiamento avviene comunque, ma non è colpa mia se non l’ho scelto.

— Io lo voglio — dice Bailey. Chiude le palpebre con forza e parla così, con gli occhi serrati e la voce molto tesa. — È uno scambio… per il signor Crenshaw che ci ha minacciati e per il rischio che il trattamento non funzioni e che noi si possa star peggio. Credo che Lungavita sia necessario per bilanciare la situazione.

Guardo i dottori Hendricks e Ransome che stanno sussurrando tra di loro e gesticolando. Credo stiano già pensando in che modo possano interagire i due trattamenti.

— È troppo pericoloso — conclude Ransome. — Non possiamo assolutamente praticare i due trattamenti contemporaneamente. — Mi guarda. — Lou aveva ragione. Anche se avrete in seguito un trattamento antietà, adesso non potete farlo.

— Parlerò di questo al consiglio di amministrazione — dice Arakeen con più calma. — Dobbiamo sentire altri pareri, sia legali che sanitari. Ma se vi ho compresi, alcuni di voi stanno chiedendo che il trattamento antietà faccia parte del pacchetto… in futuro, naturalmente… come condizione della partecipazione, giusto?

— Sì — dice Bailey, e Linda annuisce.

— Sta bene, riferirò al consiglio. Credo che dirà di no, ma comunque chiederò.

— Tenga in mente che questi impiegati non hanno acconsentito al trattamento; hanno solo accettato di pensarci — dice la dottoressa Beasley.

— D’accordo. — Arakeen annuisce. — Mi aspetto però che tutti voi manteniate la vostra parola. Pensateci veramente, riflettete bene.

— Io non mento — dice Dale. — Voi non mentite a me. — Si alza con una certa rigidezza. — Venite, abbiamo da lavorare — dice rivolto a noi.

Nessuno dice nulla, né gli avvocati né i dottori e nemmeno il signor Aldrin. Lentamente noi ci alziamo. Io mi sento incerto, un po’ turbato. Faremo bene ad andarcene così? Ma appena mi muovo e comincio a camminare mi sento meglio. Più forte. Ho paura ma sono anche felice. Mi sento leggero, come se la gravità fosse diminuita.

Fuori nel corridoio giriamo a sinistra per andare agli ascensori. Quando arriviamo al punto dove l’atrio si allarga per accoglierli, vediamo il signor Crenshaw ritto proprio là. Regge una scatola di cartone con tutt’e due le mani. La scatola è piena di cose che non vedo, ma al di sopra di tutto c’è un paio di scarpe da corsa. Sono di una marca molto costosa che ricordo di aver visto su un catalogo di articoli sportivi. Due uomini con la camicia celeste delle guardie della compagnia gli stanno al fianco, uno per lato. Lui spalanca gli occhi quando ci vede.

— Cosa state facendo qui? — chiede a Dale che è un poco più avanti di noi. Fa un passo verso di lui e i due uomini in uniforme gli mettono ognuno una mano sul braccio. Lui si ferma. — Voi dovreste trovarvi nel G-28 fino alle quattro del pomeriggio; questo non è nemmeno l’edificio giusto.

Dale non rallenta neanche, gli passa davanti senza dir parola.

La testa del signor Crenshaw gira come quella di un robot e poi si raddrizza. Poi mi vede e mi fulmina con gli occhi. — Lou! Ma cosa sta succedendo qui?

Io vorrei sapere cosa sta facendo lui con una scatola nelle mani e la scorta delle guardie, ma non sono tanto maleducato da chiederglielo. Il signor Aldrin ha detto che non dobbiamo più preoccuparci del signor Crenshaw, quindi io non sono obbligato a rispondergli quando lui mi parla con quel tono offensivo. — Ho molto lavoro da fare, signor Crenshaw — dico. Le sue mani fanno un movimento convulso, come se lui volesse gettar via la scatola e afferrarmi, ma non lo fa e io lo sorpasso seguendo Dale.

Tornati nel nostro edificio, Dale parla. — Sì, sì, sì — dice. E poi, più forte: — Sì, sì, sì!

— Ci dicono che dobbiamo desiderare di essere normali — dice Chuy — e poi di amare noi stessi così come siamo. Se uno vuol cambiare, vuol dire che qualche parte di quello che è non gli piace. Fare due cose contraddittorie è impossibile.

— È quello che ci dicono le persone normali. Ci chiedono di fare una cosa impossibile… ma noi non dobbiamo pensare che tutto ciò che dicono le persone normali sia vero.

— Però non è nemmeno interamente menzogna — dice Linda.

— Non interamente menzogna, non interamente verità — aggiunge Dale.

Questo è evidente, ma prima io non avevo mai pensato che è davvero impossibile che una persona voglia cambiare e al tempo stesso sia contenta di rimanere com’è. Non credo che nessuno di noi ci abbia pensato, prima che lo dicessero Dale e Chuy.

— Ho cominciato a riflettere in casa tua — dice Dale. — Mi ha aiutato.

— Se il trattamento non funziona — dice Eric — sarà ancora più costoso per la compagnia prendersi cura di… ciò che succederà.

— Non so come stia andando Cameron — dice Linda.

— Lui voleva essere il primo — dice Chuy.

— Sarebbe meglio se potessimo andare uno alla volta e vedere cos’accade agli altri — dice Eric.

— La velocità del buio sarebbe minore — dico. Tutti mi guardano. Ricordo che non ho mai parlato loro della velocità del buio e di quella della luce. — La velocità della luce nel vuoto è di trecentomila chilometri al minuto secondo — spiego.

— Io mi chiedo — dice Linda — se, siccome gli oggetti cadono più in fretta quando sono più vicini alla Terra, e questo è dovuto alla gravità, la luce viaggi più in fretta vicino a una gravità enorme come quella di un buco nero.

Non avevo mai saputo che Linda s’interessasse alla velocità della luce. — Non lo so — rispondo. — Ma i libri non parlano mai della velocità del buio. Qualcuno mi ha detto che non ne ha, che è solo assenza di luce, però io credo che dovrà pure arrivare dov’è.

Tutti tacciono per un istante, poi Dale dice: — Se Lungavita può rendere il tempo più lungo per noi, forse qualcosa può aumentare la velocità della luce.

Eric dice: — Vado in palestra — e se ne va.

Linda ha il viso contratto e la fronte corrugata. — La luce possiede una velocità. Anche il buio dovrebbe avere una velocità. Gli opposti sono equivalenti in tutto tranne che nella direzione.

Questo non lo capisco. Aspetto.

— I numeri positivi e quelli negativi sono uguali tranne che per la direzione — dice Linda lentamente. — Piccolo e grande sono ambedue espressioni di dimensione, ma in direzioni opposte. Andare e tornare si riferiscono alla stessa strada, ma in direzioni opposte. Così la luce e il buio sono opposti, ma uguali nella stessa direzione. — Allarga di colpo le braccia. — È questo che amo dell’astronomia — dice. — Ci sono tante cose là fuori, tante stelle, tante distanze. C’è dal nulla al tutto.

Non sapevo che Linda amasse l’astronomia. Lei è sempre sembrata la più remota di noi, la più autistica. Però io so cosa vuol dire. Anch’io amo le serie, da piccolo a grande, da vicino a lontano, dal fotone di luce che entra nella mia pupilla, vicinissima a me, al luogo dal quale è partito, ad anni luce di distanza attraverso l’universo.

— Mi piacciono le stelle — continua Linda. — Voglio… volevo… lavorare con le stelle. Mi dissero di no. Dissero: "La tua mente non lavora nel modo giusto. Solo poche persone possono fare questo". Ma io sapevo che era questione di matematica e sapevo di essere brava in matematica; però mi lasciarono troppo a lungo nelle classi inferiori e quando finalmente arrivai nelle classi giuste dissero che era troppo tardi. E così decisero che dovevo fare matematica applicata e studiare i computer. Perché con i computer c’erano opportunità di lavoro. L’astronomia non è roba pratica, mi spiegarono. Ma se vivessi più a lungo, allora non sarebbe più troppo tardi.

Non avevo mai sentito Linda parlare tanto di sé. Adesso ha il viso più colorito e i suoi occhi hanno uno sguardo più fermo.

— Non sapevo che ti piacessero le stelle — dico.

— Le stelle sono lontane l’una dall’altra — dice. — Non devono toccarsi per conoscersi. Risplendono l’una sull’altra da lontano.

Io sto per dire che le stelle non si conoscono reciprocamente, che non sono vive, ma qualcosa mi fa tacere. Ho letto in un libro che le stelle sono composte di gas incandescenti e in un altro libro che il gas è materia inanimata. Forse quel libro si sbagliava. Forse le stelle sono fatte di gas incandescenti eppure sono vive.

Linda mi guarda, mi fissa negli occhi. — Lou… tu ami le stelle?

— Sì — rispondo. — E la gravità e la luce e lo spazio e…

— Betelgeuse — dice lei. Sorride e di colpo l’atrio diventa luminoso. Non mi ero accorto che fosse buio prima. Il buio era qui in precedenza, ma infine è arrivata la luce. — Rigel. Antares. Luce e colori. Lunghezze d’onda… — Le sue mani ondeggiano nell’aria e io so che stanno mimando gli schemi che le lunghezze d’onda e le frequenze compongono.

— Binarie — dico io. — Nane brune…

Il viso di Linda si rilassa. — Oh, quelle sono roba vecchia. Chu e Sanderly ne hanno riclassificate molte… — S’interrompe. — Lou… io credevo che tu passassi tutto il tuo tempo con le persone normali… fingendo di essere normale.

— Vado in chiesa — dico. — Frequento un club di scherma.

— Scherma?

— Armi bianche — spiego, ma lei continua a non capire. — È una specie di gioco. Cerchiamo di colpirci l’un l’altro.

— Ma perché? — chiede lei. — Se tu ami le stelle…

— Mi piace anche la scherma — dico.

— Con gente normale — dice lei.

— Sì, mi piacciono.

— È difficile… — dice lei. — Io frequento il planetario. Cerco di parlare con gli scienziati che vengono, ma… la lingua mi s’inceppa. Posso capire che loro non vogliono parlare con me. Si comportano come se io fossi stupida o pazza.

— Le persone che conosco io non sono malaccio — dico. Ma mi sento colpevole di averlo detto, perché Marjory è più di "non malaccio". Tom e Lucia sono qualcosa di meglio di "non malaccio". — Tranne uno che ha cercato di uccidermi.

— Ha cercato di ucciderti? — dice Linda. Sono sorpreso che non lo sappia, ma ricordo di non avergliene mai parlato. Forse lei non guarda i notiziari.

— Ce l’aveva con me — spiego.

— Perché sei autistico?

— Non esattamente… ma… sì. — Su cosa si basava, infatti, l’odio di Don se non sul fatto che io, un disabile, un falso normale, avevo più successo di lui nel suo mondo?

— Era malato — dice Linda enfaticamente. Si stringe nelle spalle e si volta. — Stelle… — dice.

Vado nel mio ufficio, pensando alla luce, al buio e alle stelle, e allo spazio intermedio che è pieno della luce che emana da loro. Come può esserci buio nello spazio quando esso rigurgita di stelle? Se noi possiamo vedere le stelle, ciò significa che c’è luce. E i nostri strumenti che scorgono anche la luce invisibile la registrano in grandi masse indistinte… è dappertutto.

Non capisco perché la gente parli dello spazio come di un posto oscuro e freddo, inospitale. È come se non uscissero mai fuori la notte a guardare il cielo. Il luogo dove c’è l’autentico buio è fuori della portata dei nostri strumenti, è agli estremi confini dell’universo, dove il buio è arrivato prima. Ma la luce lo raggiungerà.

Non sapevo che Linda amasse le stelle, che desiderasse studiare astronomia. Forse voleva anche andare nello spazio, come volevo io. No, come voglio. Se il trattamento funzionasse, forse potrei… Il solo pensiero m’impietrisce, mi gela di felicità… e poi devo muovermi. Mi alzo e mi stiro, ma non basta.

Eric sta scendendo dal trampolino quando entro nella palestra. Stava rimbalzando al suono della Quinta Sinfonia di Beethoven, che però è troppo forte per quello su cui voglio pensare. Eric mi saluta con un cenno e io cambio musica, facendo scorrere le varie possibilità finché mi fermo sulla suite orchestrale della Carmen. Sì, è la musica adatta.

Ho bisogno di questa effervescenza, di questa esplosione di ebbrezza. Rimbalzo sempre più in alto, sento la deliziosa leggerezza della caduta libera prima di avvertire la compressione dei muscoli, ugualmente meravigliosa, che si preparano a darmi lo slancio per rimbalzare ancora più in alto. Gli opposti sono la stessa cosa in direzioni diverse. Azione e reazione. Gravità e… non so quale sia l’opposto di gravità, ma l’elasticità del trampolino ne crea uno. Numeri e schemi mi volteggiano nella mente, formandosi, sciogliendosi, riformandosi.

Ricordo quando avevo paura dell’acqua, della sua instabilità, di come ondeggiava e si spostava appena la toccavo. Ma ricordo la gioia esplosiva di quando finalmente riuscii a nuotare, di quando mi resi conto che l’acqua continuava a essere instabile, però io potevo ugualmente stare a galla e muovermi nella direzione che preferivo. Ricordo quando avevo paura della bicicletta, della sua imprevedibilità e mancanza di equilibrio; e poi la stessa gioia quando imparai a guidarla, a usare la mia volontà per vincere la sua tendenza al caos. Anche adesso ho paura, più di prima, perché capisco di più… potrei perdere tutti gli adattamenti che mi sono costruito e allora non mi rimarrebbe niente… ma se riesco a cavalcare quest’onda, questa bicicletta biologica, allora sarò incomparabilmente più ricco.

Le mie gambe si stancano. Eseguo rimbalzi sempre più bassi, più bassi ancora, e infine mi fermo.

La compagnia non vuole renderci sciocchi e inefficienti, non vuole distruggere la nostra mente: vuole usarla.

Io non voglio essere usato. Voglio essere io a usare la mia mente per quello che desidero fare.

Penso che potrei voler provare questo trattamento. Non devo farlo per forza, non ne ho bisogno: sto bene anche come sono. Ma credo di cominciare a desiderarlo perché forse, se cambierò, se sarà secondo la mia idea e non quella di altri, allora forse potrò imparare ciò che desidero e fare ciò che voglio. Non si tratta di una cosa soltanto, ma di tutte le cose insieme, di tutte le possibilità. "Non sarò lo stesso" mi dico, abbandonando il conforto della gravità, volando fuori delle sue certezze nell’incertezza della caduta libera.

Uscendo dalla palestra mi sento più leggero in ambedue i modi, ancora in gravità meno che normale, ancora più pieno di luce che d’ombra. Ma la gravità ritorna quando penso di dire ai miei amici cosa mi dispongo a fare. Credo che a loro non piacerà più di quanto piaccia agli avvocati del Centro.

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