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Il mio schermo sta lampeggiando quando arrivo a casa. È il codice di Lars: vuole che esamini la mia e-mail. È tardi e non vorrei rischiare di non svegliarmi in orario e non arrivare in tempo al lavoro domani mattina. Lars però sa che il mercoledì io vado a lezione di scherma e di solito non mi chiama mai. Deve trattarsi di qualcosa d’importante.

Accendo e trovo il suo messaggio. Mi ha inviato un articolo ritagliato da un giornale: parla di una ricerca sulla reversione dei sintomi di tipo autistico nei primati adulti. Lo leggo in fretta, col cuore che mi batte furiosamente. Oggi è diventata comune la reversione dell’autismo genetico nel neonato o di una lesione cerebrale che abbia dato luogo a sindromi di tipo autistico nei bambini piccoli; però mi avevano detto che per me era troppo tardi. Se l’articolo dice la verità, invece, non è troppo tardi. Proprio alla fine l’autore dell’articolo istituisce questa connessione, stabilendo l’ipotesi che la ricerca si potrebbe applicare agli esseri umani e suggerendo ulteriori indagini.

Mentre leggo, altre icone si accendono sullo schermo: il logo della società autistica locale, quello di Cameron e quello di Dale. Allora anche loro hanno saputo questa notizia. Per il momento li ignoro e continuo a leggere. Anche se qui si parla di cervelli come il mio, questo non è il mio campo e non riesco a capire come si pensa che funzioni il trattamento. Gli autori continuano a riferirsi ad altri articoli dove i procedimenti vengono spiegati più diffusamente. Ma quegli articoli non sono accessibili: non a me e non stanotte. Io non so cosa sia "il metodo di Ho e Delgracia". Non so neppure il significato di molti vocaboli, e il mio dizionario non li riporta.

Quando guardo l’orologio, è passata mezzanotte. Devo andare a letto, devo dormire. Spengo lo schermo, carico la sveglia; nella mia mente i fotoni corrono dietro al buio ma non lo raggiungono mai.


Al campus il giorno dopo siamo tutti riuniti dell’atrio, senza guardarci in viso. Tutti sanno.

— Credo sia un’impostura — dice Linda. — Non è possibile che funzioni.

— Ma se funzionasse… — suggerisce Cameron — se funzionasse, potremmo essere normali.

— Io non voglio essere normale — si oppone Linda. — Io sono così, e sono felice. — Ma non ha un’aria felice: ha un’aria cupa e decisa.

— Anch’io — dice Dale. — Anche se funziona per le scimmie, cosa significa? Le scimmie non sono persone, sono più primitive di noi. Le scimmie non parlano. — La sua palpebra vibra più del solito.

— Noi già comunichiamo meglio delle scimmie — dice Linda.

— A me però piacerebbe non dover farmi vedere da un psichiatra ogni quadrimestre — dice Cameron.

Penso alla dottoressa Fornum: sarei tanto più felice se non dovessi andare da lei. E lei, sarebbe felice di non dovermi vedere?

— Lou, e tu che ne dici? — chiede Linda. — Tu già vivi in parte nel loro mondo.

Ma tutti noi lo facciamo, noi che abbiamo un lavoro e conduciamo una vita indipendente. Linda però non ama far nulla con gente che non sia autistica, e già prima ha detto che secondo lei io non dovrei farmela col gruppo di schermidori di Tom e Lucia o con la gente della mia Chiesa. Se sapesse quali sono i miei sentimenti verso Marjory, probabilmente direbbe cose cattive.

— Io me la cavo abbastanza bene. Non capisco perché dovrei cambiare. — Sento che la mia voce è più dura del solito, e vorrei che questo non mi accadesse quando sono turbato. Non sono in collera e non mi va di avere la voce di uno in collera.

— Vedi? — dice Linda rivolta a Cameron, che distoglie lo sguardo.

— Devo lavorare — dico, e vado nel mio ufficio dove accendo il ventilatore e guardo le lucine colorate girare e ammiccare. Vorrei rimbalzare un po’, ma non voglio essere in palestra nel caso arrivasse il signor Crenshaw. Mi sento il petto oppresso e non riesco a interessarmi al problema al quale sto lavorando.

Mi chiedo come sarebbe essere normale. Allorché uscii dalla scuola mi costrinsi a non pensarci più; adesso, quando mi ritorna in mente, mi affretto a scacciare l’idea. Ora però… cosa significherebbe non doversi preoccupare che la gente pensi che sono matto quando balbetto o quando non posso rispondere e devo scrivere sul mio taccuino? Cosa significherebbe non dover portare sempre in tasca quel mio cartoncino? Essere in grado di vedere e sentire tutto? Sapere cosa pensa la gente solo interpretando la sua espressione?

L’insieme di simboli su cui sto lavorando di colpo mi appare del tutto privo di significato.

È questo forse? È per questo che le persone normali non fanno il mio tipo di lavoro? Dovrei scegliere tra questo lavoro che so fare tanto bene o essere normale? Mi guardo intorno, e le girandole e le spirali di colpo mi annoiano. Non fanno che girare su se stesse: sempre lo stesso schema ripetuto all’infinito. Spengo il ventilatore. Se è questo essere normali, non mi piace.

Ecco che i simboli riacquistano vita, significato e io mi tuffo nel lavoro.

Quando torno a emergere è passata l’ora del pranzo. Ho mal di testa per essere rimasto fermo troppo a lungo e per non aver mangiato. E non ho neppure fame, ma so che devo mangiare. Vado nel cucinino annesso alla nostra ala e prendo la mia scatola di plastica dal frigorifero: contiene carne affumicata e frutta.

Mangio una mela e qualche chicco d’uva, mordicchio la carne. Il mio stomaco non reagisce bene. Mi piacerebbe andare in palestra, ma ci trovo Linda e Chuy e torno indietro.

Il pomeriggio pare trascinarsi all’infinito. Esco in stretto orario e mi dirigo verso la mia macchina. Nella mia mente c’è una musica tutta sbagliata, acuta e stridente. Vedo uscire anche gli altri, e tutti mostrano segni di tensione. Nessuno parla. Entro in macchina e parto.

È difficile guidare bene col caldo che fa e con la musica sbagliata nella mente. La luce rimbalza dal parabrezza, dalle guarnizioni di metallo, dai parafanghi: ci sono troppi bagliori lampeggianti. Quando arrivo a casa la testa mi fa più male che mai e tremo dal nervosismo. In camera da letto chiudo la porta e le finestre e tolgo i cuscini dal letto. Poi mi corico, mi ammucchio sopra i cuscini e spengo la luce.

Anche questa è una cosa che non ho mai detto alla dottoressa Fornum: lei scriverebbe chissà quante annotazioni sul fatto, io lo so. Rimango sdraiato nel buio, la pressione leggera e soffice pian piano calma la mia tensione e la musica sbagliata che ho nella testa si acquieta. Mi sembra di galleggiare in un silenzio morbido e buio…

Alla fine sono pronto ad avere di nuovo pensieri e sentimenti. Sono triste; e non ho il diritto di esserlo. Mi ripeto tutto ciò che mi direbbe la dottoressa Fornum. Sono in buona salute, ho un lavoro che mi frutta una buona paga, ho un posto dove vivere, abiti e cibo. Ho un raro permesso per possedere un’automobile privata, così che non sono obbligato a viaggiare con qualcun altro o a prendere i mezzi pubblici affollati e rumorosi. Sono fortunato.

Eppure continuo a essere triste. Mi sforzo come posso, ma non è mai abbastanza. Porto gli stessi vestiti degli altri, dico le stesse cose nelle stesse occasioni: buon giorno, ciao, come stai, sto bene, buona notte, per favore, grazie, prego. Rispetto il codice della strada, obbedisco alle regole. Nel mio appartamento ci sono mobili comuni, e la mia musica non tanto comune la suono piano o uso gli auricolari. Ma non è abbastanza. Per quanto mi sforzi, la gente normale continua a volere che cambi, che diventi come loro.

Credevo di essere al sicuro vivendo da solo, vivendo come tutti gli altri. E invece non lo sono.

Sotto i cuscini sto ricominciando a tremare. Vedo di nuovo le etichette che mi porto addosso, le etichette che hanno affollato la mia cartella da quando ero bambino: diagnosi primaria, autismo; deficienze nell’integrazione sensoriale; deficienze nei processi auditivi; deficienze nei processi visivi; mancanza di sensibilità tattile.

Uno del nostro gruppo una volta disse che tutti i bambini nascono autistici, e noi ridemmo nervosamente. Non si poteva negarlo, ma era pericoloso dirlo.

Un bambino neurologicamente normale impiega anni per imparare a integrare l’insieme degli stimoli forniti dai sensi in un concetto coerente del mondo. Io affrontai quel compito esattamente come ogni altro bambino, solo che a me ci volle molto di più… e posso ammettere che l’organizzazione dei dati sensoriali per me non è un processo normale nemmeno oggi. Dapprima venni colpito da un autentico bombardamento di stimoli sensoriali scatenati e promiscui, quindi mi proteggevo da un sovraccarico di sensazioni mediante il sonno e la disattenzione.

Leggendo i testi voi potreste pensare che solo i bambini handicappati neurologicamente si comportano così, invece tutti i bambini gestiscono la loro esposizione agli stimoli chiudendo gli occhi, distogliendo lo sguardo o semplicemente addormentandosi quando il mondo comincia a sopraffarli. Col tempo imparano a organizzare un blocco di dati e poi un altro, imparano che certi schemi di eccitazione retinica segnalano determinati eventi nel mondo visibile, che certi schemi di eccitazione auditiva segnalano una voce umana… e poi quali cose dice questa voce.

Per me, per un individuo autistico, questo processo impiega un tempo assai maggiore. I miei genitori me lo spiegarono quando fui cresciuto abbastanza da capire: per qualche ragione i miei nervi infantili avevano bisogno che uno stimolo persistesse molto a lungo prima che io potessi interpretarlo. Sia io che loro fummo abbastanza fortunati per il fatto che erano state elaborate tecniche adatte a procurare ai miei neuroni segnali della durata adatta. Invece di essere biasimato per la mia "mancanza di attenzione" (questo era l’atteggiamento più comune), mi vennero forniti stimoli che ero "capace" d’interpretare.

Ricordo il tempo (prima che fossi sottoposto al programma d’insegnamento primario di apprendimento del linguaggio con l’assistenza del computer) in cui i suoni che uscivano dalla bocca della gente per me erano confusi e incomprensibili come e più del muggito di una mucca. Potevo distinguere pochissime consonanti, perché non duravano abbastanza a lungo. La terapia mi fu di aiuto: il computer allungava i suoni finché fossi in grado di udirli, e pian piano il mio cervello imparò a captare anche segnali più brevi. Non tutti, però. Anche oggi, se una persona parla molto velocemente, io non riesco a capirla per quanto mi concentri.

Prima era molto peggio. Prima della terapia assistita dal computer, i bambini come me potevano non imparare alcun linguaggio. Verso la metà del Ventesimo secolo, i terapisti pensavano che l’autismo fosse una malattia mentale, come la schizofrenia. Mia madre aveva letto un testo scritto da una donna alla quale avevano detto che era stata lei a rendere malato di mente il figlio. L’idea che gli autistici possano diventare malati di mente, comunque, è persistita quasi fino ai tempi nostri. Ecco perché devo farmi visitare periodicamente dalla dottoressa Fornum: perché lei si assicuri che non sto sviluppando qualche malattia mentale.

Mi chiedo se il signor Crenshaw pensi che sono pazzo. Sarà per questo che la sua faccia diventa lucida quando parla con me? Ha paura? Non credo che il signor Aldrin abbia paura di me… di nessuno di noi. Ci parla come se fossimo persone normali. Invece il signor Crenshaw mi tratta come se fossi un animale ostinato che lui deve ammaestrare. Spesso io ho paura, ma adesso, dopo questo periodo di riposo sotto i cuscini, mi pare di non averla più.


Quel che vorrei davvero è andar fuori a guardare le stelle. I miei genitori mi portavano a fare il campeggio nel Sudovest; ricordo quando stavo sdraiato all’aperto e guardavo tutte quelle belle configurazioni che continuavano, una dopo l’altra, all’infinito. Quanto vorrei vedere ancora le stelle. Mi facevano sentire calmo quando ero bambino, mi mostravano un universo ordinato, in cui io potevo essere una piccolissima parte di un immenso disegno. Quando i miei genitori mi spiegavano a quale grande distanza la luce aveva viaggiato per raggiungere i miei occhi (migliaia, milioni di anni) mi sentivo consolato, anche se non posso dire perché.

Da qui non posso vedere le stelle. I fanali nel parcheggio accanto al nostro palazzo sono lampade al sodio che emettono una luce giallastra e fanno sembrare torbida l’aria, così che le stelle non possono apparire attraverso il nero opaco del cielo. Solo la Luna e poche stelle molto luminose vi si mostrano.

Talvolta solevo andare in campagna e trovare un posto da dove si potevano vedere le stelle; ma non è facile. Se parcheggio in una strada secondaria e spengo i fari dell’automobile, qualcuno potrebbe venirmi a sbattere contro perché non mi vede. Ho provato a parcheggiare a lato della strada o in qualche sentiero in disuso che porta a un casale disabitato, ma qualcuno che abita nelle vicinanze può vedermi e chiamare la polizia. E allora la polizia può arrivare e chiedermi perché sto lì fermo a notte alta. Non capiscono il mio desiderio di vedere le stelle: dicono che è una scusa. Così non faccio più nulla del genere: cerco invece di risparmiare abbastanza denaro da poter andare in vacanza in qualche posto dove ci sono ancora le stelle.

È strana la faccenda della polizia. Alcuni di noi hanno con essa più fastidi degli altri. Jorge, che è cresciuto a San Antonio, mi dice che se non sei ricco, sano e bianco la polizia crede che tu sia un criminale. Lui è stato fermato molte volte mentre cresceva: non ha imparato a parlare fino ai dodici anni, e anche allora non parlava molto bene. Così i poliziotti pensavano che fosse ubriaco o avesse preso qualche droga.

A me questo non è mai successo, però certe volte mi hanno fermato senza ragione, come ha fatto l’altro giorno la guardia all’aeroporto. Io mi spavento molto quando qualcuno mi parla duramente, e spesso non riesco a rispondere, Quando mi chiedono se ho un documento d’identità, so che dovrei dire: — Ce l’ho in tasca. — Ma se cercassi di tirar fuori il portafogli, i poliziotti potrebbero spaventarsi a loro volta e uccidermi. La signorina Sevier al liceo ci disse che la polizia pensa che noi portiamo coltelli o pistole in tasca e che a volte hanno ucciso gente che cercava di mostrare i documenti.

Un poliziotto che venne a parlare con la nostra classe al liceo diceva che la polizia era lì per aiutarci, e che solo le persone che avevano fatto qualcosa di male dovevano aver paura di loro. Jean Brouchard disse allora quello che io stavo pensando, che era difficile non aver paura di persone che ti urlavano contro e ti minacciavano; che anche se non avevi fatto nulla di male, vedere un omone che ti agitava una pistola davanti poteva spaventare chiunque. Il poliziotto diventò rosso in faccia e disse che quell’atteggiamento non era corretto. Non lo era nemmeno il suo, ma io questo non lo dissi.

Però il poliziotto che abita nel mio condominio è sempre stato gentile con me. Si chiama Daniel Bryce, ma mi ha detto di chiamarlo Danny. Mi saluta ogni volta che mi vede, e io gli rispondo. Una volta mi ha fatto i complimenti per come tengo pulita la mia macchina. Non l’ho mai sentito urlare contro nessuno. Non so cosa pensa di me, tranne il fatto che gli piace la pulizia della mia auto. Non so se sa che sono autistico. Perciò cerco di non aver paura di lui, perché non ho mai fatto niente di male; però nonostante tutto un poco di paura ce l’ho.

Ho cercato di guardare qualche film poliziesco alla TV, ma mi sono spaventato ancor peggio. I poliziotti sembrano sempre stanchi e arrabbiati, e pare che ciò sia normale e giusto. Io non devo mai comportarmi impulsivamente nemmeno quando sono in collera, ma loro possono. E questo non è giusto. Non c’è simmetria.

Però non voglio nemmeno essere ingiusto verso Danny Bryce. Quando lui mi sorride, anch’io sorrido. Quando mi saluta gli rendo il saluto. Cerco di far finta che la pistola che porta sia un giocattolo, così da non aver troppa paura quando mi è vicino e da non cominciare a sudare. Lui potrebbe allora pensare che io abbia fatto qualcosa di male.

Sotto le coperte e i cuscini adesso sono proprio sudato, anche se sono calmo; così mi alzo, riaggiusto il letto e faccio una doccia. È tardi, sono le nove passate quando esco dal bagno e mi rivesto. Ho fame. Metto l’acqua a bollire e faccio cuocere un po’ di tagliatelle.

Il telefono squilla e io sobbalzo. Il telefono mi sorprende sempre, e io sobbalzo sempre quando sono sorpreso.

È il signor Aldrin. Mi si stringe la gola. Per un bel po’ non riesco a parlare, ma lui non insiste, aspetta. Lui capisce.

Io invece non capisco. Lui fa parte dell’ambiente d’ufficio, prima non mi ha mai chiamato a casa. Mi sento in trappola. Lui è il mio principale. Mi può dire cosa devo fare, ma solo sul lavoro. Mi sembra sbagliato sentire la sua voce a casa, al telefono.

— Io… io non mi aspettavo una sua chiamata — dico.

— Lo so — risponde. — Ti ho chiamato a casa perché ti volevo parlare fuori dell’ufficio.

Mi si serra lo stomaco. — Per quale ragione? — chiedo.

— Lou, devi sapere una cosa prima che il signor Crenshaw ti chiami. Esiste un trattamento sperimentale che può cancellare l’autismo negli adulti.

— Lo so — dico. — Ne ho sentito parlare, lo hanno provato con le scimmie.

— Sì, ma quell’articolo di giornale è vecchio di più di un anno; ci sono stati… dei progressi. La nostra compagnia ha acquistato il programma di ricerca. Crenshaw vuole che tutti voi proviate il nuovo trattamento. Io non sono d’accordo con lui: penso sia troppo prematuro e credo sia sbagliato chiedervelo. O almeno bisognerebbe lasciarvi la scelta. Lui però è il mio superiore e non posso impedirgli di parlarvi.

Se non può impedirglielo, a che scopo mi chiama? Questa è una di quelle manovre alle quali si dedicano le persone normali quando vogliono fare appello alla tua simpatia mentre fanno qualcosa di male, ma solo perché non riescono a evitarlo?

— Io voglio aiutarvi — dice il signor Aldrin. Ricordo i miei genitori dire che voler fare qualcosa non era lo stesso che farla. Perché lui non dice semplicemente: "Vi aiuterò"?

— Credo che voi abbiate bisogno di un avvocato, qualcuno che vi aiuti a negoziare con Crenshaw — continua. — Qualcuno più in gamba di me. Potrei trovarne uno per voi.

Penso che lui non voglia essere il nostro avvocato; credo abbia paura che Crenshaw lo licenzi. Ed è giusto, perché Crenshaw può licenziare chiunque di noi. Combatto con la mia lingua ostinata per spiccicare le parole. — Non dovrei… non vorrei… credo… credo che dovremmo trovare noi la persona adatta.

— Davvero? — domanda, e sento il dubbio nella sua voce.

— Posso chiedere al Centro — dico.

— Forse sarebbe meglio — annuisce. Segue una lunga pausa. Poi riprende, a voce più alta: — Lou, se dovessi avere delle difficoltà a trovare la persona giusta… se vuoi il mio aiuto, fammelo sapere. Io voglio il tuo bene, lo sai.

No che non lo so. So che lui è stato sempre gentile e paziente con noi, ma non so se davvero voglia il nostro bene. Come farebbe a sapere in cosa consiste? Gli farebbe piacere se sposassi Marjory? Cosa sa di tutti noi fuori dell’ambiente di lavoro?

— Grazie — dico, una risposta sicura e convenzionale adatta a tutte le occasioni. La dottoressa Fornum sarebbe fiera di me.

— Allora va bene — dice lui. Anche queste sono parole convenzionali, che non significano nulla. — Chiamami se hai bisogno di qualcosa. Aspetta, ti do il mio numero… — Enuncia alcune cifre che il mio telefono registra, ma che tanto io terrei ugualmente a memoria; per me i numeri sono facili. — Arrivederci, Lou — conclude. — Cerca di non preoccuparti.

Cercare è un conto, farlo è un altro. Appendo il ricevitore e torno alle mie tagliatelle che ormai sono scotte. Ma non me ne importa, non mi dispiacciono: sono più tenere.

Penso al signor Crenshaw che vorrebbe imporci il trattamento. Non credo che sia autorizzato a farlo: ci sono leggi che riguardano noi e la ricerca medica. Non so esattamente in che cosa consistano, ma non credo che possano permettergli di farlo. Il signor Aldrin dovrebbe saperne più di noi su questo punto: lui è un manager. Eppure sembra convinto che Crenshaw sia in grado di fare ciò che desidera o che intenda tentare di farlo.

Mi è difficile prendere sonno.


Venerdì mattina Cameron mi dice che il signor Aldrin ha chiamato anche lui. Ha chiamato tutti. Il signor Crenshaw invece non ha ancora detto niente a nessuno di noi. Io ho una strana sensazione nello stomaco, come di nausea. È un sollievo sedermi davanti al computer e dedicarmi al lavoro.

Per tutto il giorno non succede nulla, e il mio lavoro procede bene. Dopo il pranzo, Cameron mi dice che la locale società per l’autismo ha stabilito una riunione al Centro per parlare del programma di ricerca. Lui ci va, e pensa che dovremmo andarci tutti. Per questo sabato io non avevo fatto progetti, tranne la pulizia della macchina; e comunque vado al Centro quasi tutti i sabati mattina.

La mattina dopo quindi mi reco al Centro a piedi. È una passeggiata lunga, ma non fa molto caldo e camminare mi fa bene.

Al Centro trovo non solo i miei compagni di lavoro ma anche molti di noi che vivono in diversi punti della città. Parecchi di loro si fanno vedere raramente. Io ho notato che i più anziani di noi, quelli più handicappati, vengono più spesso degli altri; i giovani, che sono come Joe Lee, non vengono quasi mai.

Il Centro tuttavia non è soltanto per gli autistici: vediamo molta gente con altri tipi di handicap, specialmente durante i fine settimana. Io non so quali siano precisamente i loro handicap. Non mi piace pensare a tutte le cose che possono guastarsi nel meccanismo degli esseri umani.

Alcuni hanno un atteggiamento amichevole e parlano con noi. Oggi Emmy mi viene subito incontro. È più piccola di statura di me, ha capelli neri e lisci e occhiali dalle lenti spesse. Non so perché non si sia mai fatta operare agli occhi e chiederglielo non è educato. Emmy sembra sempre in collera. Le sue sopracciglia sono perpetuamente aggrottate, ai lati delle labbra ha piccoli noduli di muscoli rigidi e piega gli angoli della bocca sempre all’ingiù. — Tu hai una ragazza — mi dice.

— No — rispondo.

— Sì. Me l’ha detto Linda. Lei non è una di noi.

— No — ripeto io. Marjory non è la mia ragazza (non ancora) e non voglio parlare di lei con Emmy. Linda non avrebbe dovuto dire nulla a Emmy, e certo non avrebbe dovuto parlarle di questo. Io non ho mai detto a Linda che Marjory era la mia ragazza, perché non è vero.

— Dove vai a giocare con le spade c’è una ragazza… — insiste Emmy.

— Non è una ragazza — la correggo. — È una donna e non è la mia ragazza. — Non ancora, penso. Sento un gran caldo alla nuca pensando a Marjory e all’espressione del suo viso la settimana scorsa.

— Linda dice che lo è. Ma lei è una spia, Lou.

— Cosa vuoi dire? Perché "spia"?

— Lei lavora all’università. Dove fanno quelle ricerche, sai. — Mi lancia un’occhiataccia, come se fossi io a fare quelle ricerche. Si tratta di ricerche sugli handicap fisici e mentali; ma i ricercatori, come dicevano sempre i miei genitori, si preoccupano più di pubblicare rapporti per ottenere sovvenzioni che di curarsi degli handicappati. La nostra società comunque esige che i ricercatori dicano chi sono e a che scopo s’incontrano con noi, e non permette che siano presenti alle nostre riunioni.

Anche Emmy lavora all’università come custode; forse per questo sa che Marjory lavora lì.

— Tanta gente lavora all’università — dico. — E non tutti sono impegnati in quelle ricerche.

— Lei è una spia, Lou — ripete Emmy. — S’interessa solo alla tua diagnosi, non alla tua persona.

Mi sento un gran vuoto dentro: sono sicuro che Marjory non è una ricercatrice, ma la mia certezza non è assoluta.

— Per lei tu sei un anormale — insiste Emmy. — Un soggetto. — Sulla sua bocca "soggetto" suona osceno, ammesso che io capisca il significato di "osceno". Penso al nuovo trattamento: quelli che lo subiranno prima ne saranno i soggetti, proprio come le scimmie sulle quali è stato tentato da principio.

— Questo non è vero — dico. Ma posso sentire il sudore sprizzarmi dalle ascelle e dal collo, e provo il lieve tremito di quando mi sento minacciato. — E comunque, lei non è la mia ragazza.

— Sono contenta che tu non sia stupido del tutto — dice Emmy.

Vado alla riunione perché se la evitassi Emmy parlerebbe con gli altri di Marjory e di me. È difficile ascoltare il conferenziere che parla del protocollo della ricerca e delle sue implicazioni. Non riesco a fare attenzione a quanto dice. Non stavo pensando a Marjory quando Emmy mi ha abbordato, ma adesso non posso smettere di pensare a lei.

Marjory ha simpatia per me. Ne sono certo. E sono certo che le piaccio per me stesso, il Lou che si esercita alla scherma con il gruppo, il Lou che ha invitato ad andare con lei all’aeroporto mercoledì scorso. Lucia ha detto che piacevo a Marjory e Lucia non mente.

Ma ci sono diversi modi di farsi piacere qualcuno o qualcosa. A me per esempio piace il prosciutto come cibo; ma non mi curo di quel che pensa il prosciutto quando lo mangio. E se io piacessi a Marjory come dice Emmy… come una cosa, come un soggetto, come l’equivalente di un boccone di prosciutto? Se le piacessi più di altri soggetti di ricerca perché sono calmo e di buon carattere?

Non mi sento affatto calmo e di buon carattere. Vorrei picchiare qualcuno.

Il consulente che parla non dice nulla più di quello che abbiamo già letto nell’articolo. Non può spiegare il metodo, non sa a chi bisognerebbe rivolgersi per avere ulteriori schiarimenti. Non sa nemmeno che la compagnia per la quale lavoro ha acquistato il protocollo di ricerca. Forse non lo sa. Io non dico niente.

Dopo la riunione gli altri desiderano restare e parlare del nuovo procedimento, ma io me ne vado in fretta. Voglio andare a casa e pensare a Marjory senza Emmy attorno. Non voglio pensare a Marjory come ricercatrice. Voglio pensare a lei seduta accanto a me nell’automobile, al suo profumo, ai riflessi di luce nei suoi capelli e anche a come tira di scherma.

È più facile pensare a Marjory mentre faccio pulizia alla mia automobile. Tolgo il coprisedile di pelle di pecora e lo scuoto bene; lo stendo sul cofano e spolvero i sedili con una spazzola, poi passo l’aspirapolvere sul pavimento. Il rumore dell’apparecchio mi disturba, ma così si fa più presto e non respiro tanta polvere. Pulisco il parabrezza dall’interno, facendo attenzione agli angoli, poi i finestrini e gli specchietti. I negozi vendono prodotti speciali per pulire le macchine, ma il loro odore mi dà la nausea, perciò adopero solo uno straccio e acqua.

Rimetto il coprisedile a posto e lo assicuro bene. Adesso la mia automobile è tutta pulita, pronta per la domenica mattina. Per andare in chiesa prendo l’autobus, ma mi rallegra pensare alla mia macchina pulita e in abito da festa per la domenica.

Faccio la doccia in fretta, poi vado a letto e penso a Marjory. Nei miei pensieri lei si muove ininterrottamente eppure sta sempre immobile. Le espressioni sul suo viso permangono abbastanza a lungo perché io possa interpretarle. Quando mi addormento, lei mi sorride.

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