15

C’è luce, la luce del mattino. Ricordo strani sogni, ma non cosa ho sognato, solo che erano sogni strani. È una giornata luminosa e fresca; quando tocco il vetro della finestra lo sento freddo.

In quest’aria corroborante mi sento più sveglio. I fiocchi di cereali nella tazza hanno una consistenza croccante.

Quando esco, la luce del sole fa scintillare i sassolini del selciato del parcheggio. È la giornata adatta per una musica allegra, vivace. Esamino varie possibilità nella mia mente e la mia scelta si fissa su Bizet. Tocco la mia macchina con cautela, osservando che per quanto Don sia in prigione il mio corpo ricorda il pericolo. Non accade nulla. Le quattro gomme ancora odorano di nuovo. Metto in moto. Per via la musica mi risuona nella mente, vivida come la luce. Penso di andare in campagna a vedere le stelle, questa sera: dovrei poter vedere anche le stazioni spaziali. Poi ricordo che è mercoledì e dovrei andare a lezione di scherma. Era da tempo che non lo dimenticavo. Ho segnato l’impegno sul calendario stamattina? Non lo ricordo.

Nel campus mi fermo al mio solito posto nel parcheggio. Il signor Aldrin è nell’edificio, si trova nell’atrio come se mi stesse aspettando.

— Lou, l’ho visto nel notiziario… stai bene?

— Sì — dico. Dovrebbe essere evidente anche solo a guardarmi.

— Se non ti senti in forma, puoi prenderti una giornata libera.

— No, sto bene — lo rassicuro. — Posso lavorare.

— Be’… se ne sei certo… — Tace come se si aspettasse che io dica qualcosa, ma non riesco a pensare a nulla da dire. — Il notiziario diceva che avevi disarmato l’aggressore, Lou… non credevo che tu sapessi come si fa.

— Ho fatto solo quello che faccio quando tiro di scherma — spiego — anche se non avevo una spada.

— Scherma? — I suoi occhi si allargano, le sue sopracciglia si alzano. — Tu pratichi la scherma? Con spade e armi bianche?

— Sì, vado a lezione di scherma una volta la settimana. — Non so quanto rivelare dell’argomento.

— Non lo avevo mai saputo — dice lui. — Non so niente della scherma, a parte che chi la pratica porta divise bianche e si trascina dietro un sacco di fili elettrici.

Noi non portiamo divise bianche e non usiamo registrare i punti con l’elettricità, ma non me la sento di spiegare questo al signor Aldrin. Voglio riprendere il progetto al quale sto lavorando, e nel pomeriggio abbiamo un altro incontro con l’equipe medica. Poi ricordo quanto mi ha detto il tenente Stacy.

— Probabilmente dovrò andare alla stazione di polizia a firmare una deposizione — dico.

— Benissimo — annuisce il signor Aldrin. — Fa’ quello che devi fare. Sono certo che questo dev’essere stato per te un trauma terribile.


Il mio telefono suona. Penso che forse sarà il signor Crenshaw, perciò non mi affretto a rispondere, ma infine rispondo.

— Signor Arrendale? Sono l’agente Stacy. Senta, potrebbe venire alla stazione questa mattina?

Io non credo che questa sia una domanda autentica. Credo sia come quando mio padre mi diceva: "Tu prendi questo dall’altra parte, eh?" volendo dire: "Prendi questo dall’altra parte". Può essere più cortese dare ordini sotto forma di domande, ma tende a far confondere. — Dovrò chiedere il permesso al mio capo — dico.

— È una richiesta della polizia — spiega Stacy. — Abbiamo bisogno che lei firmi la sua deposizione e qualche altra scartoffia. Dica solo questo.

— Chiamo subito il signor Aldrin — rispondo. — Devo richiamarla?

— No… venga pure quando potrà. Io sarò qui tutta la mattina.

In altre parole, lui si aspetta che io vada qualunque cosa dica il signor Aldrin. Avevo ragione, la sua non era una domanda.

Chiamo l’ufficio del signor Aldrin.

— Pronto, Lou — dice lui. — Come stai? — Me lo aveva già chiesto.

— La polizia vuole che vada alla stazione a firmare la mia deposizione e qualche altro documento — dico. — Vogliono che vada subito.

— Te la senti? Vuoi che qualcuno ti accompagni?

— Sto benissimo — ripeto. — Ma devo andare.

— Naturalmente. Prenditi tutta la giornata.

Fuori, mi chiedo cosa pensi la guardia che mi vede uscire quasi subito dopo essere entrato. Dalla sua faccia non si capisce nulla.


La stazione di polizia è molto rumorosa. Davanti a un bancone lungo e alto c’è una nutrita fila di persone. Mi accodo, ma a un certo punto il signor Stacy esce e mi vede. — Venga — dice. Mi guida in un’altra stanza altrettanto rumorosa occupata da cinque scrivanie tutte coperte di roba. La sua… credo che sia la sua… ha un computer con vari attacchi e un grande schermo.

— Ecco la mia casa — dice, accennandomi una sedia davanti alla scrivania.

La sedia è di metallo grigio e ha sul sedile un sottile cuscino di plastica verde, attraverso il quale si sente lo scheletro della sedia. Regna un odore di caffè stantio, dolcetti da poco prezzo, patate fritte e l’arida puzza d’inchiostro delle stampanti e delle fotocopiatrici.

— Ecco la stampata della sua deposizione — dice Stacy. — La legga tutta, guardi se ci sono errori e, se non ci sono, la firmi.

Tutti quei se mi confondono un poco, ma capisco lo stesso. Leggo in fretta la deposizione, benché mi ci voglia un poco a comprendere che il "querelante" sono io e l’"assalitore" è Don. Non riesco inoltre a capire perché io e Don veniamo chiamati "maschi" e non "uomini" mentre Marjory è una "femmina" e non una "donna". Penso che sia poco gentile chiamarla "una femmina conosciuta da ambedue i maschi in un contesto sociale".

Poi il signor Stacy mi dice che devo firmare una querela contro Don. Non comprendo perché. È contro la legge fare le cose che Don ha fatto, e ci sono le prove che lui le ha fatte. Non dovrebbe importar nulla che io firmi denunce o no. Ma se la legge lo richiede, acconsento a firmarla.

— Cosa succederà a Don se verrà giudicato colpevole?

— Di atti di vandalismo ripetuti e culminanti in un’aggressione con scopi omicidi? Non se la caverà con meno di un PPD — dice Stacy. — Si tratta di un chip cerebrale programmabile atto al controllo della personalità. Lo innestano nel cervello…

— Lo so — dico. Mi sento gelare dentro: almeno io non devo contemplare la possibilità che m’inseriscano un chip nel cervello.

— Non è come si vede negli spettacoli — spiega Stacy. — Niente scintille, niente lampi abbaglianti… l’uomo semplicemente non sarà più in grado di fare certe cose.

Ciò che ho sentito dire… ciò che abbiamo sentito dire al Centro… è che il PPD controlla la personalità e costringe il riabilitando (questo è il termine che preferiscono usare) a fare soltanto ciò che gli vien detto di fare.

— Non potrebbe Don pagare solo le mie gomme e il mio parabrezza? — domando.

— Occorre controllare la recidività — dice Stacy frugando tra un mucchio di stampate. — Tornano a commettere lo stesso crimine, è provato. Proprio come lei non può smettere di essere lei, una persona autistica, così Don non può smettere di essere lui, una persona gelosa e violenta. Se se ne fossero accorti quando era piccolo, be’, allora… oh, eccoci qui. — Tira fuori un foglio. — Questo è il modulo. Lo legga con attenzione, firmi dove c’è la X e metta la data.

Leggo il modulo, che ha sull’intestazione lo stemma civico. In esso si dice che io, Lou Arrendale, faccio denuncia di un sacco di cose alle quali non ho davvero mai pensato. Io credevo che la cosa fosse semplice: Don aveva cercato di spaventarmi e infine aveva cercato di farmi del male. Invece il modulo afferma che io lo sto denunciando per distruzione dolosa di beni, per furto di beni valutati più di $ 250, per aver fabbricato un ordigno esplosivo, per averlo piazzato in una mia proprietà, per aggressione a scopi omicidi con un ordigno esplosivo… — Perché, quel falso giocattolo poteva uccidermi? — chiedo. — Qui dice "aggressione con un’arma letale".

— Gli esplosivi sono un’arma letale. È vero che l’accensione non era programmata bene e quindi l’ordigno non è esploso quando avrebbe dovuto, e la quantità di esplosivo impiegata non conta. Lei avrebbe potuto perdere alcune dita o rimanere sfregiato. A norma di legge è così.

— Io non sapevo che con una sola azione, portar via la batteria e mettere al suo posto un diavoletto a molla, si potesse infrangere più di una legge.

— Non lo sanno nemmeno un sacco di criminali — dice Stacy. — Ma il cumulo dei reati è una cosa comune. Mettiamo che un criminale entri in una casa mentre i proprietari sono assenti e rubi delle cose. C’è una legge che riguarda lo scassinare le porte e un’altra che riguarda il furto.

Però io non ho realmente denunciato Don per aver fabbricato un ordigno esplosivo, perché non ho mai saputo che lo stava fabbricando. Guardo il tenente Stacy: è chiaro che ha una risposta per ogni domanda, quindi non servirebbe a niente discutere. Non mi sembra giusto che una sola azione faccia scaturire quel diluvio di denunce, ma ho sentito parlare altre volte di questo stesso tipo d’ingiustizie.

Il modulo continua a enumerare quanto Don ha fatto in linguaggio meno formale: parla delle gomme, del parabrezza, del furto di una batteria d’automobile valutata $ 262,37, del piazzamento dell’ordigno esplosivo sotto il coperchio del cofano e dell’aggressione nel parcheggio. Con tutte queste azioni descritte in ordine, appare evidente che Don ha davvero fatto tutto ciò, che aveva seriamente l’intenzione di farmi del male e che anche il primo sabotaggio era foriero di conseguenze fatali.

Ma per me capire risulta ancora difficile. Io so ciò che Don ha detto, quali parole ha usato, tuttavia per me non hanno molto senso. Don è un uomo normale. Poteva parlare con Marjory a suo agio, e infatti le parlava. Niente gli impediva di diventare suo amico, niente tranne se stesso. Non è colpa mia se a lei io piaccio. Non è colpa mia averla conosciuta alle lezioni di scherma, perché io ero là già da prima e non l’avevo mai conosciuta finché non è venuta.

— Io non so perché — dico.

— Perché cosa? — chiede Stacy.

— Non so perché Don si sia arrabbiato tanto contro di me — spiego.

Lui piega la testa da un lato. — Ma lui gliel’ha detto — risponde — e lei mi ha riferito quel che ha detto.

— Sì, ma la cosa non ha senso — dico. — A me Marjory piace moltissimo, ma lei non è la mia ragazza. Non l’ho mai portata fuori. Nemmeno lei mi ha portato fuori. Non ho mai fatto nulla che potesse far del male a Don. — Non dico a Stacy che mi piacerebbe uscire con Marjory: lui potrebbe chiedermi perché non lo faccio e io non voglio rispondere.

— La cosa non avrà senso per lei, ma ne ha per me — dice Stacy. — Noi ne vediamo un sacco di cose del genere, casi di gelosia che evolve in rabbia omicida. Lei non doveva far nulla di provocatorio: il delitto era in Don, nel suo intimo.

— Ma dentro, lui è una persona normale — insisto.

— Lui non è dichiaratamente insano di mente, Lou, tuttavia non è normale. Le persone normali non mettono ordigni esplosivi nelle automobili altrui.

— Lei vuol dire che Don è pazzo?

— Questo dovrà deciderlo il tribunale — dice Stacy. — Lou, perché sta cercando di scusarlo?

— Io non… Sono d’accordo, quello che ha fatto è sbagliato, ma avere un chip inserito nel cranio che farà di lui un’altra persona…

Stacy spalanca gli occhi. — Lou, io vorrei che persone come lei… cioè persone che non hanno nulla a che fare con l’amministrazione della giustizia… capissero che cosa sono realmente i PPD. Il chip non farà di Don un’altra persona. Lo farà diventare Don senza l’impulso a far del male alla gente che lo disturba in qualsiasi modo. Così noi non dovremo tenerlo rinchiuso per anni onde evitare che lui commetta di nuovo le stesse cattive azioni… lui non ne commetterà più, contro nessuno. Come pena, è molto più umana di come si usava prima, cioè rinchiudere i criminali per anni insieme ad altri criminali e in un ambiente che serviva solo a farli diventare peggiori. Il chip non gli farà male, non lo trasformerà in un robot. Don potrà vivere una vita normale. L’unica cosa che non potrà fare sarà commettere crimini violenti. Il chip è l’unico rimedio che funzioni, a questo scopo, se escludiamo la pena di morte… e questa, lo ammetto, mi pare un po’ eccessiva per quanto Don ha fatto a lei.

— La cosa continua a non piacermi — dico. — Io non vorrei mai che qualcuno mi mettesse un chip nel cervello.

— I chip si usano anche a scopi terapeutici — mi spiega lui. Questo lo so: so che per certi attacchi non curabili, per il parkinsonismo e per certe lesioni al midollo spinale sono stati sviluppati chip e bypass speciali. Ma quanto al chip che vogliono impiantare su Don, non ne ho un’opinione favorevole.

Eppure è la legge. Il modulo non contiene una parola che non sia vera. Don ha fatto davvero tutte quelle cose. E io ho chiamato la polizia a causa di esse, tranne l’ultima volta, quando il crimine è avvenuto sotto gli occhi della polizia stessa. Alla fine del modulo, fra il testo e la riga per la mia firma, c’è una frase nella quale si dice: io giuro che tutto ciò che è riportato nella deposizione è vero. E a quanto ne so io è proprio vero, e questo dovrà bastarmi. Firmo sulla riga, aggiungo la data e porgo il modulo a Stacy.

— Grazie, Lou — dice lui. — Adesso il procuratore distrettuale desidera vederti per spiegarti cosa succederà in seguito.

Il procuratore distrettuale è una donna di mezza età con capelli neri e grigi molto ricciuti. La targhetta sulla sua scrivania dice: ASS. PD BEATRICE HUNSTON. La sua pelle ha il colore del pan di zenzero. Il suo ufficio è più grande del mio e tutto intorno ha scaffali con libri. Sono libri vecchi, avana con quadrati neri e rossi sui dorsi. Non danno l’impressione che qualcuno li abbia mai letti, e io mi chiedo se siano veri. Sul ripiano della scrivania, che è nera, c’è un calendario automatico.

— Sono lieta che lei sia vivo, signor Arrendale — dice. — È stato davvero fortunato. Mi pare che lei abbia firmato una denuncia contro Donald Poiteau, vero?

— Sì — dico.

— Allora lasci che le spieghi cosa accadrà dopo. La legge dice che il signor Poiteau ha diritto a un processo di fronte a una giuria, se lo desidera. Noi abbiamo abbondanti prove che è lui la persona coinvolta in tutti gli incidenti, e siamo certi che tali prove verranno accettate in tribunale. È però più probabile che l’avvocato di Poiteau gli consigli di venire a un patteggiamento. Lei sa cosa significa?

— No — dico, perché so che lei desidera spiegarmelo.

— Se un imputato non spreca le risorse statali chiedendo un processo, si potrà ridurre la durata della pena che dovrà scontare fino a farla coincidere con il tempo richiesto dall’impianto e dalla programmazione del PPD, il chip. Altrimenti, se fosse condannato, dovrebbe scontare come minimo cinque anni di detenzione. Intanto Poiteau sta assaggiando cosa significa la detenzione, e io penso che accetterà di patteggiare.

— Però potrebbe anche essere assolto — dico.

La donna mi sorride. — Ciò non accade praticamente più — risponde. — Non col tipo di prove che abbiamo. Lei non deve preoccuparsi, quell’uomo non potrà più farle del male.

Io non sono preoccupato… o non lo ero finché lei non ha detto questo. Una volta che Don è stato arrestato non mi sono più preoccupato per causa sua. Se dovesse fuggire ricomincerò a preoccuparmi. Ma per ora non sono preoccupato.

— Se non ci sarà processo, se il suo avvocato accetterà il patteggiamento, allora non ci sarà bisogno che lei sia chiamato — continua lei. — Lo sapremo tra pochi giorni. Se invece Poiteau chiedesse un processo, lei dovrà comparirvi come testimone d’accusa. Ciò significa che dovrà passare del tempo con me o con qualcuno del mio ufficio allo scopo di preparare la sua testimonianza; poi dovrà passare dell’altro tempo in tribunale. Lo capisce?

Capisco quello che lei mi dice. Quello che non dice e che forse non sa è che il signor Crenshaw si arrabbierà moltissimo se mancherò dal lavoro così a lungo. Spero che Don e il suo avvocato non insistano nel volere un processo. — Sì — dico.

— Bene. Tutta la procedura è cambiata negli ultimi dieci anni, grazie all’introduzione del chip PPD; adesso è molto più semplificata. Ci sono meno casi per il tribunale, così vittime e testimoni non perdono tanto tempo. Ci sentiremo, signor Arrendale.

La mattinata è quasi finita quando finalmente me ne vado dalla Centrale. Il signor Aldrin aveva detto che potevo prendermi la giornata libera, ma io non voglio che il signor Crenshaw abbia alcun motivo per arrabbiarsi con me, così torno in ufficio per il pomeriggio. Abbiamo avuto un altro esame, quello dove dobbiamo accoppiare schemi sul computer. In questo siamo tutti molto veloci e quindi finiamo presto. Anche gli altri test sono facili, ma noiosi. Non rimetto in pari il tempo perduto al mattino, perché non dipendeva da me.


Prima di uscire per andare a lezione di scherma guardo il notiziario scientifico alla TV, perché è un programma sullo spazio. Un consorzio di compagnie sta costruendo un’altra stazione spaziale. Vedo un logo che riconosco: non sapevo che la compagnia per la quale lavoro s’interessasse a imprese spaziali. L’annunciatore parla dei miliardi che costerà e dei contributi dei vari soci.

Forse è questa una delle ragioni per cui il signor Crenshaw insiste che c’è bisogno di tagliare le spese. Secondo me è bene che la compagnia voglia investire nello spazio, e vorrei tanto avere la possibilità di andarci. Forse, se non fossi autistico, sarei potuto essere un astronauta o un astronomo. Ma anche se cambiassi adesso, con il trattamento, sarebbe troppo tardi per addestrarmi a quest’altra carriera.

Sarà per questo che certe persone vogliono sottoporsi al trattamento Lungavita per estendere la durata delle loro vite, in modo da intraprendere una carriera che prima non avevano potuto avere. È molto costoso, però: ancora pochissimi possono permetterselo.

Altre tre automobili sono parcheggiate davanti alla casa di Tom e Lucia quando arrivo. C’è anche la macchina di Marjory. Il cuore mi batte più forte. Mi sento a corto di flato, eppure non ho corso.

Lungo la strada sibila un vento freddo. Quando il tempo è così è più facile tirare di scherma, ma diventa piuttosto disagevole sedersi fuori a parlare.

Dentro casa Lucia, Susan e Marjory stanno chiacchierando, però tacciono quando mi vedono entrare.

— Come ti senti, Lou? — chiede Lucia.

— Sto bene — dico, un poco imbarazzato.

— Mi dispiace tanto per quello che Don ha fatto — dice Marjory.

— Non sei stata tu a dirgli di farlo — rispondo. — Non è colpa tua. — Lei dovrebbe saperlo.

— Non volevo dir quello — si scusa. — Solo… sono triste per te.

— Ma io sto bene — ripeto. — Sono qui e non… — Non ho il coraggio di dire "non sono morto". — È una brutta faccenda… pare che vogliano mettergli un chip nel cervello.

— Vorrei sperarlo — dice Lucia. Ha il viso contratto in una smorfia. Susan annuisce e mormora qualcosa che non afferro.

— Lou, sembra che tu non voglia che questo gli succeda — dice Marjory.

— Penso che la cosa faccia paura — dico. — Don ha fatto qualcosa di sbagliato, ma fa paura pensare che lo trasformeranno in un’altra persona.

— Non è così — dissente Lucia, che adesso mi guarda fissa. Lei dovrebbe capirlo, ammesso che qualcuno lo capisca. Lei sa del trattamento sperimentale, sa perché mi disturba tanto l’idea che Don venga costretto a essere qualcun altro. — Lui ha fatto delle cose sbagliate, cose molto cattive. Avrebbe potuto ucciderti, Lou. Lo avrebbe fatto, anzi, se non lo avessero fermato. Se lo facessero diventare una scodella di polentina gli starebbe bene, comunque il chip non ha altro effetto che d’impedirgli di far del male alla gente.

La cosa non è tanto semplice. Proprio come una parola può significare una cosa in un contesto e una cosa diversa in un altro, o cambiare di significato a seconda del tono in cui viene pronunciata, così un’azione può essere benefica o dannosa a seconda delle circostanze. Il chip PPD non conferisce alle persone la facoltà di distinguere meglio ciò che è dannoso da ciò che non lo è; si limita ad annullare la volontà e l’iniziativa di commettere azioni che sono più spesso dannose che benefiche. Ciò significa che impedirà a Don anche di fare qualcosa di buono, talvolta. Perfino io so questo, e sono certo che anche Lucia lo sa, ma lo sta ignorando per qualche ragione.

— Pensare che l’ho lasciato rimanere nel gruppo per tanto tempo! — commenta lei. — Non ho mai pensato che avrebbe potuto fare una cosa del genere. Quella vipera velenosa! Potrei cavargli un occhio con le mie mani!

In un lampo di chiaroveggenza capisco che Lucia sta considerando più i propri sentimenti che i miei, in questo momento. È in collera perché Don l’ha ingannata; pensa che lui l’abbia fatta passare per sciocca, e questo la ferisce profondamente. Lei è orgogliosa della sua intelligenza. Quindi vuole che lui sia punito perché l’ha sminuita… almeno nella consapevolezza che ha di se stessa.

Non è uno stato d’animo particolarmente lodevole, e io non sapevo che Lucia potesse essere così. Forse avrei dovuto capirlo, come lei pensa che avrebbe dovuto capire i lati cattivi di Don? Se le persone normali si aspettano di capire tutto gli uni degli altri, tutti i sentimenti più riposti, come fanno a sopportarlo? Non gli vengono le vertigini?

— Non puoi leggere nelle menti, Lucia — dice Marjory.

— Questo lo so! — Lucia scrolla la testa e muove le mani in piccoli gesti rigidi, agitati. — È solo che… dannazione, odio che mi facciano fare la figura della stupida, e ho l’impressione che Don abbia fatto proprio questo. — Si volge a guardarmi. — Scusami, Lou, sto facendo l’egoista adesso. Quello che importa davvero sei tu e che tu stia bene.

Vedere la sua personalità normale, quella solita, emergere dalla persona incollerita che era un momento fa è come guardare un cristallo formarsi in una soluzione soprassatura. Mi sento meglio adesso che Lucia ha riconosciuto quel che stava facendo e non ha intenzione di farlo nuovamente. Però le ci è voluto più tempo di quanto non impieghi quando analizza il comportamento degli altri. Mi chiedo se le persone normali ci mettano più tempo a guardare in se stessi e a capire cosa sta realmente accadendo di quanto ne impieghiamo noi autistici, o se almeno in questo i nostri cervelli lavorino alla stessa velocità. Mi domando se Lucia ha avuto bisogno delle parole di Marjory per rendersi capace di quell’autoanalisi.

Mi chiedo cosa pensi realmente Marjory di me. Adesso sta guardando Lucia, ma di sottecchi mi lancia qualche occhiata. Come son belli i suoi capelli… mi sorprendo ad analizzarne i colori e il modo in cui la luce li fa risplendere quando muove la testa.

Siedo sul pavimento e comincio i miei stiramenti. Dopo un poco, li cominciano anche le donne. Sono un po’ irrigidito, mi ci vogliono diversi tentativi prima di potermi toccare le ginocchia con la fronte. Marjory ancora non riesce a farlo: i suoi capelli cadono in avanti sfiorandole le ginocchia, ma la sua fronte non arriva a meno di quattro dita di distanza.

Appena finito, mi alzo e vado nel ripostiglio a prendere le mie cose. Tom è fuori con Max e Simon, l’arbitro del torneo. Il cerchio dei faretti mette un cono di luce nel cortile semibuio, con forti ombre all’intorno.

— Ehi, amico — dice Max. — Come stai?

— Bene.

— Ho sentito che hai usato una mossa di scherma con Don — dice. — Avrei voluto vederla.

Non credo che Max avrebbe voluto trovarsi davvero in una situazione simile, qualunque cosa pensi ora.

— Lou, Simon stava chiedendosi se vorresti batterti con lui — interviene Tom. Sono contento che non mi abbia chiesto come sto.

— Certo — dico. — Metto la maschera.

Simon è meno alto di Tom e più magro. Porta un vecchio giubbotto da scherma imbottito, fatto come i giubbotti bianchi usati nelle competizioni formali di scherma, solo che il suo è di un verde slavato. — Grazie — dice. Poi, come se sapesse che mi stavo meravigliando del colore del suo giubbotto, aggiunge: — Mia sorella ne voleva uno verde una volta, per un costume… solo che lei s’intende più di scherma che di tingere indumenti. Quando era nuovo era molto peggio, per fortuna adesso si è stinto.

— Non ne avevo mai visto uno verde — dico.

— Non lo ha mai visto nessun altro — dice. La sua maschera è del tipo normale, bianca ma ingiallita dall’età e dall’uso. Porta guanti marrone. Io indosso la maschera.

— Con quali armi? — domando.

— Quali preferisci? — chiede lui.

Io non ho preferenze: ogni arma o combinazione di armi ha le sue particolarità.

— Provate spada e daga — suggerisce Tom. — Sarà divertente da vedere.

Prendo la mia spada e la mia daga e le manipolo finché non diventano confortevoli… quasi non le sento, e questo va bene. La spada di Simon ha un’ampia coccia a campana, ma la sua daga ha un semplice anello. Se non è molto bravo nelle parate, potrei essere in grado di toccarlo alla mano. Mi chiedo se accuserà i colpi o no. Ma è un arbitro, certo sarà onesto.

Ha una posa rilassata, con le ginocchia appena piegate, l’aria di chi ha tirato di scherma abbastanza spesso da farlo ormai agevolmente. Ci salutiamo e la sua lama vibra nell’aria quando si abbassa. Sento il mio stomaco contrarsi. Non so cosa farà ora. Prima che io possa riprendermi lui allunga una stoccata, una cosa che nel nostro gruppo non facciamo quasi mai, col braccio completamente esteso e una gamba allungata all’indietro. Io evito con una contorsione, parando con la daga e allungando a mia volta una stoccata al di sopra della sua daga… ma lui è veloce, veloce come Tom, e ha già il braccio alzato a parare. Si riprende dall’affondo così in fretta che non posso approfittare di quel breve momento di mancanza di mobilità, e mi fa un cenno con la testa mentre ritorna alla posizione di guardia. — Bella parata — dice.

Il mio stomaco si contrae ancora di più e mi rendo conto che non è paura ma eccitazione. Simon può dimostrarsi più bravo di Tom. Vincerà, ma io imparerò. Si muove di sbieco e io lo seguo. Attacca diverse altre volte, sempre molto velocemente, e io riesco a parare tutti i suoi assalti, ma non attacco a mia volta. Voglio scoprire il suo schema, che è molto variato. Ancora e ancora. Basso alto alto basso basso alto basso basso basso alto alto: anticipo la sua prossima mossa e attacco mentre lui porta di nuovo un colpo basso, e questa volta lui non riesce a parare bene e io lo colpisco appena, di striscio, alla spalla.

— Buono — dice lui facendo un passo indietro. — Eccellente. — Lancio un’occhiata a Tom, che annuisce sorridendo. Max si stringe le mani sollevate sopra la testa e sorride anche lui. Io provo un urto di nausea. Nel momento del contatto io ho visto la faccia di Don e sentito il colpo che gli ho assestato e l’ho visto afflosciarsi a terra. Scuoto la testa.

— Tutto bene? — chiede Tom. Non voglio dir nulla. Non so se desidero continuare.

— Meglio fare una pausa — dice Simon, benché ci siamo battuti solo per un paio di minuti. Mi sento sciocco: so che lo fa per me e non dovrei essere depresso, ma lo sono. Ora ritorna ancora e ancora quell’impressione sulla mia mano, l’afrore del respiro che Don esala dopo il colpo, suono e visione e impressione tutto in una volta. Parte della mia mente ricorda il libro, la discussione sulla memoria, sullo stress e sul trauma, ma per la maggior parte provo solo una gran tristezza, un’aguzza e chiusa spirale di pena, paura e rabbia unite insieme.

Batto le palpebre e lotto per rimettermi, mentre una frase musicale mi attraversa la mente: la spirale si apre e si dilegua. — Sto… bene… — dico. Mi è ancora difficile parlare, ma già mi sento meglio. Alzo la mia spada. Simon fa un passo indietro e alza la sua.

Ripetiamo il saluto. Questa volta il suo attacco è altrettanto veloce ma diverso. Non riesco a distinguere il suo schema e decido di attaccare a mia volta. La sua lama scivola attraverso la mia parata e mi tocca nella parte sinistra dell’addome. — Toccato — dico.

— Mi stai facendo faticare davvero troppo — dice Simon. Sento infatti che ha il respiro affannoso, ma ce l’ho anch’io. — Mi hai quasi colpito quattro volte.

— Ho sbagliato la parata — commento. — Era troppo debole.

— Vediamo se farai di nuovo lo stesso errore — dice lui. Saluta e questa volta io attacco per primo. Non riesco a toccarlo, e i suoi attacchi sembrano più veloci dei miei; devo parare tre o quattro volte prima di vedere un’occasione favorevole. Ma prima che io lo tocchi, lui mi colpisce alla spalla destra.

— È proprio una fatica eccessiva — esclama. — Lou, sei uno schermidore di prim’ordine. Lo avevo già capito al torneo: i novellini non vincono mai e tu hai avuto qualche problema tipico di chi si batte per la prima volta, ma era chiaro che sapevi bene quel che facevi. Hai mai considerato l’idea di dedicarti alla scherma classica?

— No — dico. — Io conosco solo Tom e Lucia…

— Dovresti pensarci su. Tom e Lucia sono istruttori migliori di tanti schermidori da cortile… — Simon sorride a Tom che fa una smorfia. — Ma alcune tecniche classiche potrebbero migliorare il tuo lavoro di gambe. Quest’ultima volta ti ho colpito non perché sono stato più veloce di te, ma perché sapevo esattamente dove mettere il piede per ottenere la massima estensione con la minima esposizione. — Simon si toglie la maschera, appende la spada alla rastrelliera esterna e mi tende la mano. — Grazie, Lou, è stato un bell’incontro. Quando avrò ripreso fiato, forse potremo batterci ancora.

— Grazie — dico io, e gli stringo la mano. La stretta di Simon è più ferma di quella di Tom. Sono anch’io a corto di fiato. Appendo la mia spada, metto la maschera sotto una sedia e mi siedo. Mi chiedo se sono risultato simpatico a Simon o se lui farà come Don e mi prenderà in antipatia in seguito. Mi chiedo se Tom gli ha detto che sono autistico.

Загрузка...