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Dalla strada Tom guardava Marjory Shaw e Don Poiteau attraversare il cortile. Lucia pensava che Marjory si stesse affezionando a Lou Arrendale, e invece eccola lì insieme a Don. Va bene che Don le aveva tolto di mano lo zaino, ma… se lui non le piaceva, perché non se l’era ripreso?

Sospirò, facendosi scorrere una mano tra i capelli piuttosto radi. Lui adorava la scherma, gli piaceva avere allievi, ma il peso dei continui intrighi del gruppo, i suoi complicati intrecci di simpatie e antipatie, lo stancavano sempre più man mano che avanzava negli anni. Avrebbe voluto che la casa sua e di Lucia fosse un posto in cui i giovani potessero raggiungere il loro pieno potenziale fisico e morale, ma certe volte gli pareva di avere intorno una masnada di eterni adolescenti. Presto o tardi tutti ricorrevano a lui con i loro lamenti, i loro rancori, le loro sensibilità offese.

Oppure andavano da Lucia: per lo più le donne. Le sedevano accanto fingendo d’interessarsi ai suoi ricami o alle sue fotografie, e sfogavano le loro pene. Lui e Lucia passavano ore a discutere quello che andava succedendo, quale appoggio dare a chi ne aveva bisogno, come porgere aiuto senza assumersi responsabilità troppo gravose.

Mentre Don e Marjory si avvicinavano, Tom notò che lei era irritata. Don, al solito, non se ne accorgeva: parlava in fretta agitando avanti e indietro lo zaino della ragazza nel suo entusiasmo per quanto le andava dicendo. Quei due erano un perfetto esempio di ciò che accadeva continuamente, pensò Tom. Prima di sera, era certo che avrebbe saputo da Marjory cos’aveva fatto Don per mandarla in collera, e da Don avrebbe sentito che Marjory non aveva per lui un briciolo di comprensione.

— Lui deve tenere per forza le sue cose sempre esattamente allo stesso posto — stava dicendo Don.

— Perché è ordinato — rispose Marjory. Il tono duro della sua voce faceva capire che era molto irritata. — Non ti piace l’ordine?

— Non mi piace l’ossessione — disse Don. — Tu, mia cara, sei versatile: parcheggi sia da una parte che dall’altra della strada e porti abiti diversi. Lou porta gli stessi vestiti una settimana via l’altra… puliti, certo, ma insomma… e quanto alla fissazione su dove riporre le sue cose…

— Tu le hai messe al posto sbagliato e Tom te le ha fatte togliere, non è vero? — chiese la ragazza.

— Già, perché se no Lou ci sarebbe rimasto male — disse Don in tono imbronciato. — Non è giusto…

Tom vedeva benissimo che Marjory avrebbe voluto sgridare Don. Anche lui. Ma sgridare Don non serviva mai a niente. Per otto anni Don aveva avuto una brava e buona ragazza che aveva cercato di instillargli un po’ di giudizio, però alla fine aveva dovuto rassegnarsi.

— Anche a me piace che l’ambiente sia in ordine — intervenne Tom cercando di parlare con calma. — È tutto molto più semplice quando ognuno sa dove trovare le sue cose. E poi, lasciare la propria attrezzatura un po’ qua e un po’ là può essere ossessionante quanto volerla sempre allo stesso posto.

— Su, su, Tom: essere smemorati è esattamente l’opposto di essere ossessionati. - Non sembrava nemmeno irritato, solo divertito, come se Tom fosse stato un ragazzino ignorante. Tom si chiese se Don si comportasse così anche sul posto di lavoro. Se lo faceva, si spiegava perché cambiasse impiego tanto di frequente.

— Non biasimare Lou per le mie regole — disse. Don fece spallucce ed entrò in casa per prendere il suo equipaggiamento.

Pochi minuti di pace… Tom sedette accanto a Lucia che aveva cominciato gli stiramenti. Marjory si mise dall’altra parte di Lucia e si piegò in avanti, cercando di toccarsi le ginocchia con la fronte.

— Lou dovrebbe venire stasera — disse Lucia dando un’occhiata in tralice a Marjory.

— Mi chiedevo se non lo abbia disturbato chiedendogli di venire con me all’aeroporto — osservò la ragazza.

— Oh, non credo — la rassicurò Lucia. — Direi anzi che era molto contento. È successo qualcosa?

— No. Abbiamo incontrato la mia amica e io poi ho riaccompagnato qui Lou, nient’altro. Don ha detto qualcosa sulla sua attrezzatura…

— Oh, Tom gli aveva fatto riporre un mucchio di cose, e Don si stava preparando a buttare tutto sulle rastrelliere come capitava. Tom gliele ha fatte disporre in ordine. Don lo ha visto fare tante volte che ormai dovrebbe farlo a occhi chiusi, ma… è inutile, non vuole imparare. Adesso che non sta più con Helen, sta ritornando il ragazzotto confusionario che era anni fa. Quanto vorrei che si decidesse a crescere.

Tom ascoltava senza metter bocca. Finì gli esercizi e si alzò proprio mentre Lou arrivava svoltando l’angolo di casa.


Tom guardava Lou che stava eseguendo gli stiramenti: metodico come sempre, preciso. Alcuni potevano giudicare Lou monotono, Tom invece lo trovava estremamente interessante. Trent’anni prima, non avrebbe mai potuto condurre una vita normale: cinquant’anni prima avrebbe passato la vita in un’istituzione. Ma i miglioramenti nell’intervento precoce, nei metodi d’insegnamento e nelle tecniche specifiche di apprendimento guidato gli avevano conferito l’abilità di trovare un buon lavoro, di condurre una vita indipendente e di inserirsi nel mondo normale quasi alla pari.

Era un miracolo di adattamento, e secondo Tom anche un poco triste. Persone più giovani di Lou, nate con lo stesso handicap neurologico, potevano venir curate perfettamente con la terapia genetica nei primi anni di vita. Non dovevano affrontare le faticose terapie che Lou aveva padroneggiato con tanta pena e fatica.

E adesso lui era lì e si esercitava alla scherma. Tom ricordò per quanto tempo era sembrato che la scherma di Lou potesse essere soltanto una parodia della scherma autentica. A ogni stadio di sviluppo lui aveva dovuto affrontare gli stessi inizi lenti ed estenuanti e i progressi altrettanto lenti e ancora più estenuanti… nei passaggi dal fioretto alla spada, dalla spada allo stocco, dall’arma singola alle combinazioni di fioretto e daga, spada e daga, stocco e daga e così via.

Si era impadronito di ciascuna tecnica per puro sforzo, non per talento innato. Eppure, ora che aveva acquisito le capacità fisiche, le attitudini mentali che costavano anni di esercizio agli altri schermidori sembravano diventargli familiari in pochi mesi.

Tom intercettò lo sguardo di Lou e gli fece cenno di avvicinarsi. — Ricorda quel che ti ho detto: da ora in poi dovrai esercitarti solo con i migliori.

— Certo — assentì Lou, ed eseguì il saluto. Lui e Tom si girarono intorno. Tom cambiava direzione, parava, sfalsava, inquartava e fingeva di abbassare la guardia, ma Lou non perdeva una battuta. C’era uno schema nei suoi movimenti, oltre alla risposta a quelli di Tom? Tom non avrebbe saputo dirlo. Ma sempre più spesso vedeva che Lou era vicino a penetrare la sua guardia… e ciò significava, pensò Tom, che lui stesso stava seguendo uno schema e che Lou lo aveva identificato.

— Analisi degli schemi — disse a voce alta, proprio nel momento in cui la lama di Lou eludeva la sua e lo toccava al petto. — Avrei dovuto capirlo!

— Mi dispiace — si scusò Lou. Lo diceva quasi sempre, e assumeva un’aria imbarazzata.

— No, mi hai toccato legittimamente — disse Tom. — Stavo cercando di capire cosa stavi facendo, invece di concentrarmi sull’incontro. Tu stai usando l’analisi degli schemi, vero?

— Sì — disse Lou. La sua voce esprimeva una certa sorpresa, e Tom si chiese se non stesse pensando: "Perché, non è questo che fanno tutti?".

— Io non sono in grado di farlo in tempo reale — spiegò Tom. — A meno che qualcuno usi uno schema proprio elementare.

— Quello che faccio non è giusto, allora? — chiese Lou.

— È giustissimo, se sei capace di farlo — rispose Tom. — Inoltre è la caratteristica del bravo schermidore… o anche del bravo giocatore di scacchi. Tu giochi a scacchi?

— No.

— Be’… allora vediamo se riesco a mantenere la mia attenzione fissa sull’incontro e prendermi la rivincita. — I due ricominciarono, ma Tom trovò difficile concentrarsi. A un certo punto gli parve di trovare una falla nella guardia di Lou e attaccò, ma solo per sentire sul suo petto il colpo di un altro tocco.

— Diamine, Lou, se continui a fare così, dovrò promuoverti ai tornei — disse, scherzando solo a metà. Lou s’irrigidì. — L’idea non ti garba?

— Io… io non credo che dovrei tirar di scherma in un torneo — rispose Lou.

— Dipende solo da te. — Tom eseguì di nuovo il saluto e si chiese perché Lou si era espresso in quel modo. Non aver voglia di entrare nelle competizioni era un conto, pensare che non avrebbe dovuto farlo era un altro. Se Lou fosse stato normale, avrebbe potuto partecipare ai tornei già da tre anni. Tom cercò di pensare solo all’incontro e di rendere i suoi attacchi più casuali.

Infine però gli mancò il fiato e dovette fermarsi, ansimando. — Ho bisogno di un intervallo, Lou. Vieni qui e rivediamo… — Lou lo seguì e sedette sul muretto che bordava il cortile mentre Tom prendeva una delle sedie. Osservò che Lou era sudato, ma non aveva affatto il respiro affannoso.


Tom infine si ferma, ansimando, e si dichiara troppo stanco per continuare. Mi conduce in disparte mentre altri due salgono sulla pedana. Il suo respiro è molto affannoso, tanto che lo costringe a spaziare le parole, così lo capisco meglio. Sono contento che lui mi creda tanto bravo.

— Ma guarda… tu non hai ancora il fiatone. Va’ a fare un altro incontro, così io mi riposo un poco e poi potremo parlare.

Guardo Marjory che siede accanto a Lucia; avevo visto che lei mi osservava mentre mi battevo con Tom. Adesso lei ha abbassato gli occhi e ha la faccia rosea. Mi si serra lo stomaco, ma mi alzo e mi avvicino a lei.

— Ciao, Marjory — dico.

Lei alza gli occhi e mi offre un sorriso radioso. — Ciao, Lou — risponde. — Come ti va, stasera?

— Bene — dico. — Vorresti… vuoi fare un incontro con me?

— Ma certo. — Si china a raccogliere la maschera e se la infila. Anch’io rimetto la mia e adesso posso guardarla senza esser visto; il mio cuore riprende a battere normalmente.

Cominciamo con una ricapitolazione di sequenze dal manuale di scherma di Saviolo: passo passo, avanti e indietro, ci giriamo intorno e ci esploriamo. L’incontro è insieme rituale e conversazione. Io compenso le sue stoccate con le mie parate e le sue parate con le mie stoccate. I movimenti di Marjory sono più morbidi e meno scattanti di quelli di Tom. Giro, passo, domanda, risposta, il nostro è un dialogo in acciaio al ritmo di una musica che mi risuona nella mente.

La tocco quando lei fa una mossa che non mi aspetto. Non volevo colpirla. — Mi dispiace — dico. La mia musica esita e tace. Faccio un passo indietro.

— No… era un buon colpo — dice lei. — Non avrei dovuto abbassare la guardia…

— Ti ho fatto male?

— No… continuiamo.

Vedo lampeggiare i suoi denti dietro la maschera: un sorriso. Saluto e lei risponde; riprendiamo la danza. Cerco di muovermi con cautela e attraverso il tocco delle lame sento che lei è più ferma, più concentrata… si muove più in fretta. Io mantengo lo stesso ritmo; lei mi tocca sulla spalla. Dopo di ciò cerco di seguire il suo tempo, in modo che l’incontro duri il più a lungo possibile.

Anche troppo presto però sento che il suo respiro si fa più pesante. Marjory è pronta a smettere e a riposare. Ci ringraziamo a vicenda e ci stringiamo la mano. Mi sento felice.

— È stato bello — dice lei. — Però io dovrei smetterla di cercare scuse per non esercitarmi. Se non avessi trascurato tanto i miei pesi non mi farebbe così male il braccio.

— Io mi esercito ai pesi tre volte alla settimana — dico.

— Lo dovrei fare anch’io — dice lei. — E avevo l’abitudine di farlo, ma adesso ho un nuovo impegno che mi sta divorando tutto il tempo.

Probabilmente è la ricerca di cui parlava Emmy.

— Davvero? Che impegno? — domando, e rimango quasi senza respiro in attesa della risposta.

— Sai, il mio campo sono i sistemi di segnalazione neuromuscolari — dice Marjory. — Stiamo lavorando su possibili terapie per alcune malattie genetiche neuromuscolari che si sono rivelate non suscettibili alle terapie genetiche.

Io annuisco: — Come la distrofia muscolare? — chiedo.

— Sì, quella è una — dice Marjory. — È da lì, anzi, che è nato il mio interesse per la scherma.

— Come mai?

— Anni fa stavo andando a una riunione interdipartimentale e passai per un cortile dove Tom stava dando una dimostrazione di scherma. Vedi, fino allora io avevo pensato alle funzioni muscolari da un punto di vista medico, non dal punto di vista di chi esercita i muscoli… Così rimasi lì a guardare gli schermidori e a pensare alla biochimica delle cellule muscolari, quando Tom all’improvviso mi chiese se mi sarebbe piaciuto provare. Credo avesse interpretato la mia aria assorta per interesse alla scherma, mentre invece io stavo osservando la muscolatura delle gambe.

— Pensavo che tu avessi cominciato all’università — dico.

— Ero all’università, infatti. Ero una studentessa allora.

— Oh… e ti sei sempre interessata ai muscoli?

— In un certo senso, sì. Adesso però la ricerca si sta orientando sempre più verso il campo neuromuscolare… o piuttosto ci si stanno orientando i nostri datori di lavoro. Sai, non sono io a dirigere le ricerche. — Mi guarda negli occhi a lungo; io devo distogliere i miei perché non riesco a sostenere le mie sensazioni. — Spero che non ti sia dispiaciuto accompagnarmi all’aeroporto, Lou. Mi sentivo più al sicuro in tua compagnia.

Mi sento arrossire. — Io non… non mi sono sentito… — M’interrompo e inghiotto. — Sono stato contento di venire con te — dico, riprendendo il controllo della mia voce.

— Ne sono stata contenta anch’io — dice Marjory.

Non dice altro. Sediamo vicini, e vorrei tanto rimanere così tutta la notte, se fosse possibile. Mi guardo intorno. Max, Tom e Susan si stanno battendo due contro uno. Don si è seduto su una sedia dall’altra parte del cortile: mi sta fissando, ma distoglie gli occhi quando lo guardo.


Tom salutò con la mano Max, Susan e Marjory che se ne stavano andando insieme. Quando si voltò, Lou era ancora lì.

— C’è una ricerca — disse. — Una ricerca nuova. Forse un trattamento.

Tom percepì più l’imbarazzo e la tensione nella voce di Lou che il significato delle sue parole. Lou aveva paura: usava quel tono solo quando era inquieto.

— È ancora allo stadio sperimentale o è arrivata a quello operativo?

— È sperimentale… ma loro, all’ufficio, vogliono… il mio capo ha detto… vogliono che io mi ci sottoponga.

— A un trattamento sperimentale? Strano. Di solito non sono disponibili ai privati.

— È… vedi… è qualcosa che è stata sviluppata al centro di Cambridge — spiegò Lou, e la sua voce era ancora più meccanica e incolore. — Adesso è di loro proprietà. Il mio capo dice che il suo capo vuole che tutti noi la proviamo. Lui non è d’accordo, ma non riesce a cambiare la situazione.

Tom provò un forte desiderio di prendere a pugni qualcuno. Lou era spaventato: qualcuno stava facendo il prepotente con lui. E Tom era suo amico: ciò gli conferiva una certa responsabilità nella faccenda.

— Sai come funziona il trattamento? — chiese.

— Ancora no. — Lou scosse la testa. — Ne ho avuto notizia per posta elettronica la settimana scorsa. Alla società per l’autismo hanno tenuto una riunione, ma nemmeno loro ne sanno molto… Il signor Aldrin… il mio supervisore… dice che può essere applicata e il signor Crenshaw… il suo capo… vuole che noi la proviamo.

— Non possono costringervi a sottoporvi a cure sperimentali, Lou: è contro la legge.

— Ma loro potrebbero licenziarmi…

— Stanno minacciando di farlo se non collaborate? Non è permesso! — Credeva davvero che non fosse permesso? All’università non lo era, ma il settore privato era diverso. Però… diverso fino a quel punto? — Lou, tu hai bisogno di un avvocato — disse.

— No… sì… non lo so. Sono preoccupato. Il signor Aldrin ha detto che dovevamo cercare aiuto… forse un avvocato…

— E ha ragione. — Tom pensò se dare a Lou qualcosa d’altro a cui pensare lo avrebbe aiutato o no. — Senti, poco fa ti ho parlato di tornei…

— Oh, non sono abbastanza bravo — disse subito Lou.

— E invece lo sei. E io stavo pensando che forse affrontare un torneo potrebbe aiutarti con quest’altro problema… — Tom cercò di mettere ordine nei suoi pensieri e di spiegare chiaramente perché pensava che quella fosse una buona idea. — Se alla fine sarai costretto a fare causa ai tuoi datori di lavoro, sarà un poco come un incontro di scherma. La fiducia in te stesso che puoi ricavare dalla scherma ti aiuterebbe anche in altri generi d’incontri.

— Quando c’è un torneo?

— Il prossimo torneo locale si svolgerà tra un paio di settimane — disse Tom. — Un sabato. Tu potresti venire con noi: io e Lucia ti accompagneremmo per farti coraggio e assicurarci che incontri persone come si deve.

— Perché, ci sono anche persone poco perbene?

— Certo. Ci sono persone poco perbene dappertutto, e alcune di loro riescono a intrufolarsi anche nel campo della scherma. La maggior parte degli schermidori, però, sono gente simpatica. E tu potresti divertirti. — Non doveva insistere troppo, anche se si sentiva sempre più sicuro che Lou dovesse entrare più a fondo nel mondo normale… ammesso che si potessero chiamare normali dei gruppi impegnati in rievocazioni storiche. Be’, nella loro vita quotidiana erano normali, solo che si divertivano a indossare costumi di fantasia e a far finta di uccidersi l’un l’altro con armi bianche.

— Io non ho un costume — disse Lou, abbassando lo sguardo sulla sua vecchia giacca di pelle con le maniche tagliate.

— Oh, ti troveremo qualcosa — lo rassicurò Tom. A Lou probabilmente sarebbe andato bene qualcuno dei suoi costumi. Ne aveva tanti. — Ci penserà Lucia.

— Non sono sicuro — disse Lou.

— Be’, la settimana prossima mi farai sapere se vuoi provare. Se no, ci saranno altri tornei in seguito.

— Ci penserò — decise Lou.

— Bene. E a proposito dell’altro problema… Sarebbe bene che cercassi informazioni su quali sono i tuoi diritti secondo la legge con un poco di anticipo — disse Tom. — Io di questo non ne so molto. So che le leggi sono cambiate diverse volte, ma nulla nel mio lavoro ha a che fare con soggetti umani, perciò non conosco la situazione legale odierna. A te serve un esperto.

— Temo che costerebbe molto — disse Lou.

— Forse — assentì Tom. — Anche questa è una cosa che è bene sapere. Certamente il Centro potrà fornirti questa informazione.

— Grazie — disse Lou.

Tom lo guardò andar via, calmo, controllato: a volte faceva un po’ paura pur nella sua innocuità. La sola idea che qualcuno potesse fare esperimenti su Lou gli dava la nausea. Lou era Lou, ed era a posto così com’era.

In casa Tom trovò Don sdraiato sul pavimento sotto il ventilatore da soffitto. Come al solito stava arringando Lucia che ricamava e aveva sul viso una chiara espressione di insofferenza. Don vide Tom e si volse a lui.

— Così davvero credi che Lou sia pronto per una competizione, eh?

Tom annuì. — Ci hai sentiti? Sì, lo credo. È migliorato moltissimo. Si batte con i migliori di noi e si mostra all’altezza.

— Ma la tensione potrebbe essere eccessiva per uno come lui — disse Don.

— Uno come lui… cioè autistico?

— Già. Loro non sopportano la folla, il chiasso e cose del genere, no? Lou è un bravo ragazzo, ma io penso che non dovresti spingerlo a battersi in pubblico. Non ce la farà.

Tom inghiottì la prima risposta che gli venne alle labbra e chiese invece: — Ricordi il tuo primo torneo, Don?

— Be’, sì… Ero troppo giovane… Fu un disastro.

— Infatti. Rammenti cosa mi dicesti dopo il primo incontro?

— No… non proprio. So che andò male… Mi persi d’animo.

— Mi dicesti che non eri riuscito a concentrarti per via della gente che ti si muoveva intorno.

— Sì, be’, ma sarebbe peggio per una persona come Lou.

— Don… come potrebbe Lou perdere in modo più disastroso di te?

Don diventò scarlatto. — Be’, io… lui… sarebbe peggio per lui. Perdere, intendo. Per me…

— Andasti in un cantuccio, bevesti sei birre e vomitasti dietro un albero — gli ricordò Tom. — Poi ti mettesti a piangere e dicesti che era il giorno più brutto della tua vita.

— Ero giovane — ripeté Don. — E in quel modo mi sfogai, e dopo non ci pensai più… Lou invece ci rimuginerebbe sopra.

— Mi fa piacere vedere che ti preoccupi per lui — commentò Lucia, e Tom ebbe un brivido sentendo la pesantezza del sarcasmo che vibrava nella sua voce.

Don fece spallucce. — Certo che mi preoccupo — disse. — Lui non è come noi…

— Giusto — approvò Lucia. — È uno schermidore più bravo di molti di noi e un uomo migliore di qualcun altro.

— Diamine, Lucia, sei proprio di cattivo umore — disse Don, in quel tono scherzoso che adottava quando non stava affatto scherzando.

— E tu non me lo rendi migliore — tagliò corto lei ripiegando il ricamo. Si alzò e scomparve prima che Tom potesse dire qualcosa. Naturalmente Don lanciò a Tom uno sguardo complice, invitandolo a condividere con lui un’opinione sulle donne che Tom era ben lontano dall’avere.

— Lucia è per caso in menopausa? — chiese Don.

— No — rispose Tom. — Stava solo esprimendo le sue opinioni. — Erano anche le sue, ma come poteva dirlo? Perché Don non si decideva a crescere e a piantarla di creare problemi? — Senti… sono stanco e domani ho lezione presto.

— Certo, certo, capisco che tu voglia riposare.

Non lo capiva affatto, invece, perché rimase a parlare per un altro quarto d’ora. Tom chiuse la porta e spense la luce prima che Don potesse pensare a qualche altra cosa da dire e tornasse indietro, come faceva spesso. Tom aveva in bocca un sapore amaro. Don era stato un ragazzo simpatico ed entusiasta, anni prima, e lui certo avrebbe dovuto essere in grado di aiutarlo a svilupparsi in una persona migliore e più matura di quello che era diventato. A cosa servivano, se no, gli amici più anziani?

— Non è colpa tua — disse Lucia dall’atrio. — Lui sarebbe peggiore di com’è, se tu non avessi avuto qualche influenza su di lui.

— Ti sembra? — disse Tom. — Io credo invece…

— Sei un insegnante nato, Tom, ma non devi continuare a credere che sia tuo dovere salvare tutti i tuoi allievi da se stessi. Il male che si fanno con le loro mani non è colpa tua.

— Questa sera accetto tutto quello che dici — mormorò Tom. Lucia, illuminata di spalle dalla luce della camera da letto, era circondata da un alone quasi magico.

— Solo quello che dico? — lo provocò lei, e si aprì la vestaglia.


Non mi sembra coerente da parte di Tom chiedermi di nuovo di partecipare a un torneo quando io sto parlando di un trattamento sperimentale per l’autismo. Ci rifletto mentre torno a casa. È chiaro che sto migliorando nella scherma e che sono in grado di affrontare con successo i migliori schermidori del gruppo… ma cosa c’entra questo col trattamento o con i miei diritti legali?

Quelli che si battono nelle competizioni le prendono sul serio. Desiderano vincere. Io non sono sicuro di voler vincere, benché mi piaccia comprendere i loro schemi di combattimento e trovare i punti in cui insinuare un attacco. Forse Tom pensa che dovrei desiderare di vincere? Forse pensa che ho bisogno di voler vincere nella scherma così da desiderare di vincere anche in tribunale?

Ma le due cose non sono connesse. Uno può desiderare di vincere in un gioco o desiderare di vincere una causa senza volere tutt’e due le cose.

In che cosa si somigliano? Ambedue sono competizioni: qualcuno vince e qualcuno perde. Per me tirare di scherma è più divertente quando gli avversari collaborano, cercando di divertirsi insieme. Mettere un colpo a segno per me non significa vincere ma solo condurre il gioco nel modo migliore.

Però io vorrei far piacere a Tom. Quando l’ho aiutato a preparare la pedana per gli incontri e le rastrelliere per l’equipaggiamento, lui è stato contento. Per me è stato come riavere accanto mio padre nei suoi momenti migliori. Vorrei far contento Tom di nuovo, ma non so se partecipare a un torneo avrà questo risultato. E se mi battessi male e perdessi? Lui non resterebbe deluso?

Potrebbe essere divertente battermi con gente mai conosciuta prima, gente di cui non conosco gli schemi. Gente normale che non saprà che io non sono normale. O forse Tom glielo dirà? No, non credo.

Sabato prossimo andrò al planetario con Eric e Linda. Il sabato seguente è il terzo del mese, e io impiego sempre il terzo sabato del mese per una pulizia a fondo del mio appartamento. Il torneo ci sarà il sabato dopo, e per quel giorno non ho fatto alcun progetto.

Tornato a casa, scrivo "Torneo di scherma" sul calendario al quarto sabato del mese. Penso se sia il caso di telefonare a Tom, ma è tardi e poi lui mi ha detto di fargli sapere qualcosa la settimana prossima. Così appiccico al calendario il promemoria: "Dire di sì a Tom".

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