7

Mi sto battendo contro il mio secondo avversario. Questo secondo incontro è tutto diverso dal primo, perché non è a sorpresa. L’uomo prima portava un cappello simile a una pizza con piume; adesso porta una maschera che sul davanti è trasparente invece di avere un reticolato metallico. Quel tipo di maschera costa molto. Tom mi ha detto che il mio avversario è molto bravo ma onesto: riconoscerà sempre i colpi ricevuti. Vedo chiaramente la sua espressione: sembra quasi sonnolento, ha le palpebre calate sugli occhi azzurri.

L’arbitro lascia cadere il fazzoletto; il mio avversario mi sferra un assalto fulmineo e sento il suo tocco sulla spalla. Alzo una mano. L’espressione sonnolenta dell’uomo non significa che sia lento. Vorrei chiedere a Tom cosa fare, ma devo rimanere concentrato sul combattimento.

Questa volta ci giriamo intorno. La spada dell’uomo balza in avanti così rapida che sembra sparire… poi ricompare toccandomi il petto. Non so come faccia il mio avversario a muoversi così in fretta; io mi sento rigido e goffo. Ancora un altro tocco e perderò l’incontro. Mi lancio all’attacco e sento la mia spada contro la sua: ho parato con successo stavolta. Ancora e ancora… e infine avvento una stoccata e la mano mi dice che ho toccato. Subito l’uomo fa un passo indietro e alza una mano. — Sì — dice. Lo guardo: sta sorridendo. Non ce l’ha con me perché l’ho toccato.

Di nuovo ci giriamo intorno, in una girandola di attacchi e parate. Comincio a distinguere il suo schema, che è rapidissimo ma comprensibile. Lui però mi tocca per la terza volta prima che io possa mettere a profitto la mia scoperta.

— Grazie — mi dice l’uomo. — È stato un bel combattimento.

— Hai fatto un bel lavoro, Lou — dice Tom. — Probabilmente lui vincerà il torneo: lo vince quasi sempre.

— L’ho toccato una volta — dico.

— Sì, un bel colpo. E sei andato vicino a toccarlo diverse volte.

— Abbiamo finito ora? — chiedo.

— No — risponde Tom. — Hai perso solo un incontro, perciò adesso sei nel girone di quelli che hanno vinto una volta e dovrai sostenere almeno un altro incontro. Ti senti a posto?

— Sì — dico. Mi manca un po’ il fiato e sono stanco del rumore e del movimento, però non ho più tanta voglia di andare a casa come prima.

— Vuoi mangiare qualcosa? — chiede Tom.

Scuoto la testa. Vorrei trovare un posto tranquillo dove sedere.

Tom mi guida attraverso la calca. Diverse persone che non conosco mi stringono la mano o mi danno colpetti sulla spalla e dicono: — Sei stato bravo! — Io vorrei che non mi toccassero, ma so che lo fanno amichevolmente.

Lucia siede sotto un albero con una donna che non ho mai visto. Batte una mano a terra e io so che significa "siedi qui". Mi siedo.

— Gunther ha vinto, ma Lou lo ha toccato una volta — dice Tom.

La donna sconosciuta batte le mani. — Benone! — esclama. — Praticamente nessuno riesce a toccare Gunther al primo combattimento.

La donna è più alta e più grossa di Lucia; porta un costume di fantasia con la gonna lunga. Tiene nelle mani un piccolo telaio e le sue dita vanno avanti e indietro. Sta tessendo una stretta striscia di tessuto con un disegno geometrico in bianco e marrone. Lo schema è semplice ma io non avevo mai visto nessuno tessere, e così la guardo con attenzione finché non ho capito come fa la donna a lavorare quel disegno.

— Tom mi ha detto di Don — dice Lucia lanciandomi un’occhiata. Rabbrividisco. Non voglio ricordare quanto era in collera. — Tutto bene? — domanda.

— Tutto bene — rispondo.

— Don il superuomo? — domanda l’altra donna a Lucia.

Lucia fa una smorfia. — Già. Si comporta davvero come un cretino, a volte.

— Cos’ha combinato di nuovo?

Lucia mi guarda. — Oh… niente di nuovo. Ha parlato a vanvera come al solito.

Sono lieto che lei non abbia spiegato. Non credo che Don sia cattivo come deve averlo definito Tom. Mi sento infelice all’idea che Tom sia ingiusto con qualcuno.

Tom ritorna e mi dice che ho un altro incontro alle 13.45. — Ti batterai con un altro novellino — aggiunge. — Ha perso il suo incontro questa mattina presto. Tu dovresti mangiare qualcosa. — Mi tende un panino imbottito di carne. Ha un buon profumo e io ho fame. Ne assaggio un boccone e il sapore mi piace, perciò lo mangio tutto.

Nel terzo incontro, il mio avversario è tutto vestito di nero con guarnizioni rosse e porta anche lui una di quelle maschere col davanti trasparente. Non si muove bene: è lento e non conclude mai un assalto. Agita la spada avanti e indietro senza mai avvicinarsi. Lo tocco una volta e lui non lo riconosce; lo tocco una seconda volta più duramente e stavolta lo riconosce. Dalla sua espressione si vede che è preoccupato e irritato. Io mi sento piuttosto stanco, ma so che posso vincere se voglio.

Non è bello far andare in collera la gente, però mi piacerebbe vincere. Gli giro intorno e lui reagisce con troppa lentezza. Lo tocco un’altra volta. Vedo che ha la bocca semiaperta e la fronte aggrottata. Non è bello far sì che la gente si senta stupida. Rallento di parecchio, ma lui non ne approfitta. Il suo schema di combattimento è molto semplice, come se avesse imparato solo due parate e due attacchi. Però è noioso star qui a scambiarsi colpi senza costrutto. Siccome lui non cerca nemmeno di combinare qualcosa, io esco in tempo da una delle sue deboli parate e vado a fondo. Toccato. L’uomo diventa rosso in faccia e dice un sacco di brutte parole. So che dovrei stringergli la mano e ringraziarlo, ma lui se n’è già andato. L’arbitro si stringe nelle spalle.

— Bravo — dice Tom. — Ho visto che rallentavi per offrirgli una possibilità… peccato che l’idiota non sapesse cosa farsene. Adesso capisci perché non mi va che i miei studenti partecipino ai tornei troppo presto. Quello non era pronto.

Non era pronto davvero.

Quando vado a far convalidare la mia vittoria vedo che ora faccio parte di un gruppo che ha un record di 2:1. Solo otto non hanno subito alcuna sconfitta. Adesso mi sento molto stanco, ma non voglio deludere Tom e perciò non mi ritiro. Il mio nuovo incontro avviene quasi subito, con una donna alta e bruna, che porta un semplice costume azzurro cupo e una maschera con il frontale di rete. Attacca immediatamente e dopo pochi colpi il primo tocco è suo. Io tocco a mia volta, poi lei, poi di nuovo io. Il suo schema di combattimento non è facile da scoprire. Sento gli spettatori commentare che il nostro è un bel combattimento. Mi sento di nuovo leggero e felice. Poi avverto il tocco della donna sul petto e l’incontro è finito. Non me ne dispiace: sono proprio stanco e sudato.

— Buon combattimento! — dice lei, e mi stringe il braccio.

— Grazie — rispondo.

Tom è contento di me, lo vedo da come sorride. C’è anche Lucia: non mi ero accorto che era venuta a vedermi. I due si tengono a braccetto e io mi sento ancora più contento. — Vediamo a che punto della classifica ti trovi adesso — dice lui.

— Classifica?

— Tutti gli schermidori sono classificati a seconda dei risultati ottenuti — mi spiega. — I novellini hanno una classifica a parte. Credo che tu abbia conseguito un buon punteggio. Ci sarà ancora qualche altro incontro, ma penso che i novellini ormai abbiano finito tutti.

Questo non lo sapevo. Sul cartellone il mio nome è al diciannovesimo posto, ma nell’angolo in basso a destra, dove c’è l’elenco di quelli che hanno gareggiato per la prima volta, il mio nome è al primo posto. — Lo sapevo! — dice Tom. — Claudia… — Una delle donne intente a scrivere nomi sul cartellone si volta. — I novellini hanno finito tutti?

— Sì… è questo Lou Arrendale? — chiede guardandomi.

— Sì — rispondo. — Sono Lou Arrendale.

— Per un principiante lei è stato davvero bravo — si complimenta.

— Grazie — rispondo.

— Ecco la sua medaglia — dice lei aprendo un cassetto e tirando fuori un sacchettino di pelle con qualcosa dentro. — Oppure può aspettare e riceverla alla cerimonia della premiazione. — Non sapevo che avrei ricevuto una medaglia: credevo ne ricevesse una solo la persona che avesse vinto tutti gli incontri.

— Purtroppo dobbiamo ripartire — dice Tom.

— Allora… eccola qui. — Mi consegna il sacchetto, che mi sembra di pelle autentica. — E buona fortuna per la prossima volta.

— Grazie — dico.

Non so se deve aprire il sacchetto, ma Tom dice: — Vediamo… — e allora tiro fuori la medaglia. È un pezzo di metallo rotondo con una spada in rilievo e un buco accanto all’orlo. La ripongo nel sacchetto.

Durante la strada verso casa ricostruisco ciascun incontro nella mia mente. Posso ricordarli in ogni dettaglio e riesco perfino a rivederli al rallentatore, specialmente quello con Gunther, così la prossima volta (mi sorprende sapere che ci sarà una prossima volta e che desidero ripetere ancora quell’esperienza) potrò far meglio contro di lui.

Comincio a capire perché Tom pensava che partecipare al torneo mi avrebbe fatto bene, in caso dovessi affrontare il signor Crenshaw. Sono andato in un posto dove nessuno mi conosceva e ho gareggiato come una persona normale. Non c’era bisogno che vincessi il torneo per rendermi conto di aver ottenuto un buon risultato.

Appena a casa, mi tolgo gli abiti che Lucia mi ha prestato: sono bagnati di sudore. Lei mi ha detto di non lavarli, perché hanno bisogno di un trattamento speciale; devo invece appenderli ad asciugare e riportarli da loro mercoledì, quando andrò di nuovo a lezione. Non mi piace l’odore che hanno, preferirei ridarli indietro stasera o domani, ma Lucia ha detto mercoledì. Così li appendo allo schienale del divano in salotto e vado a fare la doccia.

L’acqua calda mi è particolarmente gradita. Ho addosso qualche segno blu: lividi lasciati da qualcuno dei colpi che ho subito. Dopo indosso la tuta più morbida che ho. Ho un gran sonno, ma prima devo vedere se i miei compagni mi hanno mandato qualche notizia della loro riunione.

Ho ricevuto e-mail sia da Cameron che da Bailey. Cameron dice che hanno parlato ma non hanno preso nessuna decisione. Bailey dice che alla riunione hanno partecipato tutti tranne me e Linda, e che hanno chiesto a uno dei consulenti del Centro quali fossero le regole sulla sperimentazione umana. Il consulente se ne informerà.

Vado a letto presto.


Lunedì e martedì non abbiamo ulteriori notizie dal signor Crenshaw o dall’azienda. Forse quelli che dovrebbero somministrare il trattamento non sono pronti a provarlo sugli esseri umani, o forse il signor Crenshaw non è ancora riuscito a persuaderli. Vorrei saperne di più: mi sento come mi sentivo al torneo prima che iniziasse il primo incontro. La non conoscenza decisamente sembra più rapida della conoscenza.

Vado a rileggere l’articolo di giornale che mi hanno mandato per e-mail, ma continuo a non capire la maggior parte dei termini tecnici. Anche cercandone la definizione, non capisco quali effetti abbia il trattamento e come faccia a ottenerli. Dopo tutto non sono obbligato a comprendere certi argomenti, non rientrano nel mio campo.

Ma qui si tratta del mio cervello e della mia vita, perciò voglio capire. Quando cominciai a tirare di scherma, non capivo nemmeno quella. Non sapevo perché dovessi tenere il fioretto in un certo modo o perché dovessi disporre i piedi in maniera che formassero un angolo retto; non conoscevo nessuno dei termini tecnici, non sapevo come si eseguivano le mosse. Non mi aspettavo di diventare un bravo schermidore, pensavo che il mio autismo me lo avrebbe impedito, e da principio è stato proprio così. Adesso invece ho partecipato a un torneo e mi sono battuto contro persone normali. Non ho vinto, ma sono stato il più bravo tra i principianti.

Forse anche a proposito del cervello posso imparare più di quel che conosco adesso. Non so se ne avrò il tempo, ma ci proverò.

Mercoledì riporto il costume a Lucia. Lei lo prende e io vado nella stanza dove si trovano i nostri equipaggiamenti. Tom è già in cortile e io lo raggiungo. Fa freddo ma non c’è un alito di vento. Tom sta facendo gli stiramenti e io lo imito. Domenica e lunedì ero tutto irrigidito, ma adesso mi sono sciolto e uno solo dei lividi fa ancora male.

Arriva Marjory.

— Stavo raccontando a Marjory come sei stato bravo al torneo — spiega Lucia dietro di lei. Marjory mi sorride.

— Non ho vinto, però — dico. — E ho commesso degli errori.

— Hai vinto due incontri e la medaglia dei principianti — ribatte Lucia. — Non hai commesso poi tanti errori.

— Simon è rimasto sbalordito — dice Tom. Adesso si è seduto e sta ripassando la lama della sua spada con la carta vetrata per eliminare eventuali intaccature. Io tasto la mia, ma non ci trovo nulla. — Parlo dell’arbitro, sai: ci conosciamo da anni. Lo ha colpito specialmente il modo in cui ti sei comportato quando quel tizio non ha riconosciuto di essere stato colpito.

— Ma tu mi avevi detto di comportarmi così — dico.

— Be’, sai, non succede spesso che i miei allievi seguano tutti i miei consigli — spiega Tom. — E dimmi, adesso che è passato qualche giorno, ti è piaciuto il torneo?

— Sì, in alcune parti mi è piaciuto molto. — Era un piacere, in effetti, ma anche una sfida: solo che non so descrivere questo miscuglio di sentimenti. — Certe volte provo piacere a fare cose nuove — dico.

Qualcuno sta aprendo la porticina: è Don. Di colpo sento una certa tensione in cortile.

— Ciao — saluta lui seccamente.

Io gli sorrido, ma lui non ricambia.

— Ciao, Don — dice Tom.

Lucia tace e Marjory lo saluta con un cenno.

— Prendo solo le mie cose — spiega lui, ed entra in casa.

Lucia lancia un’occhiata a Tom che si stringe nelle spalle. Marjory mi si avvicina.

— Vuoi fare un incontro? — chiede. — Stasera posso trattenermi poco. Ho da lavorare.

— Certo — dico io. Mi sento di nuovo leggero.

Adesso che mi sono battuto al torneo, mi sento molto rilassato a battermi qui. Non penso a Don, penso solo a Marjory. Di nuovo mi pervade la sensazione che toccare la sua lama somigli molto a toccare lei: che attraverso l’acciaio io possa sentire i suoi movimenti, perfino i suoi stati d’animo. Vorrei che l’incontro si prolungasse, perciò rallento un poco, non cerco di mettere a segno colpi, in modo da continuare così il più possibile.

Finalmente lei fa un passo indietro; ha il respiro affannoso. — È stato divertente, Lou, ma non ce la faccio più. Devo riprender fiato.

— Grazie — dico.

Ci sediamo l’uno a fianco dell’altro: siamo affannati tutti e due. Io accordo il ritmo del mio respiro al suo e mi sento più leggero che mai.

Don esce da casa portando le sue armi in una mano e la maschera nell’altra. Mi lancia un’occhiataccia e se ne va con passo rigido e affrettato. Tom esce di casa anche lui e allarga le braccia stringendosi nelle spalle.

— Ho cercato di farlo ragionare — dice a Lucia. — Lui si ostina a credere che io lo abbia insultato a bella posta, al torneo. Inoltre si è piazzato al ventesimo posto, parecchio dopo Lou. Anche questo è avvenuto per colpa mia, così adesso andrà a prendere lezioni da Gunther.

— Oh, non durerà — commenta Lucia allungando le gambe. — Don non sopporterà la disciplina.

— Si è offeso per causa mia? — domando.

— Si è offeso perché il mondo non accetta di adeguarsi supinamente ai suoi capricci — dice Tom. — Tra un paio di settimane Don sarà di nuovo qui, vedrai, facendo finta che non sia avvenuto niente.

— E tu lo riprenderai? — chiede Lucia con una certa asprezza.

Di nuovo Tom si stringe nelle spalle. — Se si comporterà bene, sì. Capita che le persone crescano, Lucia.

— Alcune di loro certo crescono, ma storte — ribatte lei.

Arrivano Max, Susan, Cindy e gli altri, tutti insieme, e tutti parlano con me. Non li ho visti al torneo, ma loro mi hanno visto. Mi sento imbarazzato per non averli notati, ma Max mi spiega la situazione.

— Non volevamo disturbarti, avresti potuto perdere la concentrazione. In occasioni del genere uno non vuole avere intorno più di una persona, massimo due — dice. Questo può essere vero solo se anche altra gente trova difficile concentrarsi. Io non sapevo che loro la pensavano così: credevo che volessero sempre intorno a sé un mucchio di gente.

Se le cose che mi hanno detto sul conto mio non sono tutte vere, forse anche le cose che mi hanno detto sulle persone normali non sono tutte attendibili.

Faccio un incontro con Max e poi uno con Cindy e vado a sedere accanto a Marjory finché lei dice che deve andare. Le porto lo zaino fino alla macchina. Mi piacerebbe passare più tempo con lei, ma non so come poterlo fare. Se incontrassi qualcuna come lei… qualcuna che mi piacesse… a un torneo, e lei non sapesse che sono autistico, sarebbe più facile chiedere a quella persona di venire a cena con me? Cosa risponderebbe quella persona? Cosa risponderebbe Marjory se glielo chiedessi? Rimango ritto accanto alla macchina dopo che lei si è seduta alla guida e vorrei aver già detto quelle parole ed essere in attesa della sua risposta. La voce rabbiosa di Emmy mi risuona nelle orecchie. Io non credo a ciò che ha detto, non credo che Marjory mi veda solo come un possibile soggetto di ricerca. Però non sono nemmeno tanto sicuro del contrario da poterle chiedere di uscire con me.

Marjory mi guarda e di colpo mi sento pietrificare dalla timidezza. — Buona sera — dico.

— Arrivederci — dice lei. — Alla prossima settimana. — Accende il motore e io indietreggio.

Torno in cortile e siedo accanto a Lucia. — Se una persona chiede a un’altra di andare a cena con lei — domando — e la persona alla quale lo chiede non vuole andarci, la persona che chiede ha modo di accorgersene prima di chiedere?

Lucia non risponde per un periodo di circa quaranta secondi, poi dice: — Se una persona si comporta in modo amichevole con un’altra, potrebbe esser contenta di ricevere una simile richiesta pur senza desiderare di accettarla. Oppure quella sera potrebbe avere qualche altra cosa da fare. — Fa una pausa. — Hai mai chiesto a qualcuno di cenare con te, Lou?

— No — dico. — L’ho chiesto solo alle persone con cui lavoro, quelli che sono come me. Questo è diverso.

— Vero — annuisce lei. — Stai pensando di chiedere a qualcuno di uscire con te?

Mi si serra la gola e non posso parlare, ma Lucia non insiste: si limita ad aspettare.

— Stavo pensando di chiederlo a Marjory — dico finalmente a bassa voce. — Ma non vorrei disturbarla.

— Non credo che la disturberesti, Lou — risponde Lucia. — Non so se verrebbe a cena con te, però non credo proprio che sarebbe seccata dalla tua richiesta.

A casa quella sera, e quando vado a letto, penso a Marjory che siede a tavola davanti a me. Ho visto scene come questa alla TV. Ma non sono ancora pronto a chiedere.


Giovedì mattina esco di casa e guardo la mia macchina. Ha un aspetto strano: tutt’e quattro le gomme sono appiattite a terra. Non capisco. Le ho comprate solo pochi mesi fa, e quando faccio benzina controllo sempre la pressione. Non capisco come abbiano fatto a sgonfiarsi. Ho solo una ruota di scorta, e benché tenga in macchina una pompa a pedale so che non posso gonfiare tre gomme abbastanza in fretta. Farò tardi al lavoro e il signor Crenshaw si arrabbierà. Sento già il sudore gocciolarmi lungo le costole.

— Cosa succede, amico? — È Danny Bryce, il poliziotto che abita nel mio palazzo.

— Ho le gomme sgonfie — dico. — Non so perché. Le ho controllate l’altro giorno.

Si avvicina. È in uniforme. Odora di menta e limone e la sua uniforme profuma di pulito. Ha le scarpe lucidissime. Sulla camicia ha una targhetta color argento su cui è scritto il suo nome DANNY BRYCE in nero.

— Qualcuno le ha squarciate — spiega. Ha l’aria seria ma non è in collera.

— Squarciate? — Ho letto di simili cose, ma a me non era mai accaduto. — Perché?

— Malignità — risponde lui, chinandosi a guardare. — Sì. Decisamente è un atto di vandalismo.

Dà un’occhiata anche alle altre macchine, ma nessuna di loro ha le gomme sgonfie. — No, l’unica danneggiata è la tua. Qualcuno ce l’ha con te?

— Ancora no, oggi non ho visto ancora nessuno. Il signor Crenshaw si arrabbierà con me — dico. — Farò tardi al lavoro.

— Non avrai che da riferirgli quel che è successo — mi tranquillizza lui.

Il signor Crenshaw si arrabbierà ugualmente, penso, ma taccio. Non bisogna contraddire un poliziotto.

— Chiamerò la polizia per te — dice. — Manderanno qualcuno…

— Ma io devo andare al lavoro — ribatto. Sento che sto sudando ancora di più. Non so cosa fare. Non conosco l’orario dei mezzi pubblici, anche se so dove si fermano. Dovrei trovare un orario. E dovrei anche chiamare l’ufficio, però non so se sarà già arrivato qualcuno.

— Devi davvero denunciare l’accaduto, sai — dice il signor Bryce molto serio. — E poi puoi chiamare il tuo capo e informarlo…

Non conosco il numero dell’ufficio del signor Crenshaw. Penso che se lo chiamo, lui non farà altro che prendersela con me. — Lo chiamerò dopo — decido.

Dopo solo sedici minuti arriva un’auto della polizia e Danny Bryce rimane con me, invece di andare al lavoro. Io mi sento meglio con lui, qui. Dall’auto esce un uomo in calzoni avana e giacca sportiva marrone. Non ha una targhetta col nome. Il signor Bryce gli va incontro e io sento l’altro uomo chiamarlo Dan.

I due mi si avvicinano. — Lou, questo è l’agente Stacy — fa le presentazioni il signor Bryce sorridendomi. Guardo l’altro uomo. È più basso del signor Bryce, e più magro; ha capelli neri e lisci che odorano di qualcosa di oleoso e profumato.

— Mi chiamo Lou Arrendale — dico. La mia voce suona strana, come succede quando sono spaventato.

— Quando ha visto per l’ultima volta la sua macchina? — chiede l’agente.

— Alle nove e quarantasette di ieri sera — rispondo. — Lo so per certo, perché ho guardato l’orologio.

Lui digita qualcosa sul suo palmare.

— Parcheggia sempre nello stesso posto?

— Di solito sì, ma non sempre — spiego. — Il parcheggio non ha posti numerati e certe volte qualcuno si è già messo qui quando ritorno dal lavoro.

— Lei è tornato dal lavoro alle nove e quarantasette di ieri sera?

— No, signore — dico. — Sono tornato dal lavoro alle cinque e cinquantadue e poi sono andato… — Non voglio dire "a lezione di scherma". Se lui pensasse che c’è qualcosa di male nella scherma? O in me che imparo la scherma? — Sono andato a casa di amici — dico invece.

— Questi amici li visita spesso?

— Sì, tutte le settimane.

— C’erano altre persone lì?

Naturale che c’erano altre persone. Perché dovrei andare a far visita a qualcuno se lì ci fossi soltanto io? — C’erano i miei amici che vivono in quella casa — dico. — E altre persone che non abitano in quella casa.

L’agente socchiude gli occhi e lancia un’occhiata al signor Bryce. Non capisco cosa significhi quell’occhiata. — Ah… e lei conosce queste altre persone? Quelle che non abitano nella casa? C’era un ricevimento?

Troppe domande, e non so a quale rispondere per prima. "Queste altre persone…" Lui si riferisce alle persone in casa di Tom e Lucia che non erano Tom e Lucia? "Quelle che non abitano nella casa…" Ma la maggior parte della gente non abita in quella casa. Tra i miliardi di persone che ci sono al mondo soltanto due vivono in quella casa e ciò rappresenta… meno di un milionesimo dell’uno per cento.

— Non c’era un ricevimento — rispondo, perché questa era la domanda più facile.

— Io so che tu esci ogni mercoledì sera — dice il signor Bryce. — Certe volte porti uno zaino… io pensavo che andassi in palestra.

Se i poliziotti parleranno con Tom e Lucia, verranno a sapere della scherma. Devo parlarne ora. — Vado… vado a lezione di scherma — dico. Odio quando mi viene da balbettare.

— Scherma? Non ti ho mai visto con i fioretti — commenta il signor Bryce con aria piuttosto sorpresa e interessata.

— Io… io tengo il mio equipaggiamento in casa dei miei amici — spiego. — Loro sono anche i miei istruttori. Non mi va di avere le mie cose nell’automobile o in casa.

— Così… lei è andato in casa di amici a lezione di scherma — dice l’altro poliziotto. — Da quanto tempo prende queste lezioni?

— Da cinque anni.

— Così chiunque volesse danneggiare la sua macchina lo saprebbe? Saprebbe dove lei va il mercoledì sera?

— Forse sì… — Ma in realtà non lo credo. Penso che se qualcuno voleva danneggiare la mia auto, doveva sapere dove abito e non dove vado quando esco.

— Lei va d’accordo con quelle persone?

— Sì. — Questa mi pare davvero una domanda sciocca. Non avrei continuato ad andare da Tom e Lucia per cinque anni se loro non fossero persone simpatiche.

— Avrei bisogno dei loro nomi e numeri di telefono.

Glieli fornisco, benché non capisca a cosa gli servono. La mia auto è stata danneggiata qui e non a casa di Tom e Lucia.

— Probabilmente si tratta di un vandalo — dice l’agente. — Questo è un quartiere abbastanza calmo, ma dall’altra parte del fiume cose del genere succedono in continuazione. Qualche ragazzino avrà pensato di spingersi fin qui, tanto per cambiare. E magari qualcosa lo avrà spaventato prima che si desse da fare anche con altre macchine. — Si volge al signor Bryce. — Se ci saranno altri danni fammelo sapere, d’accordo?

— Certo.

Il palmare dell’agente fischia ed emette una striscia di carta. — Ecco, per lei: rapporto, numero del caso, agente investigatore, tutto ciò che le serve per la denuncia all’assicurazione. — Mi porge il foglietto. Mi sento sciocco: non ho idea di cosa farne. Poi l’agente se ne va.

Il signor Bryce mi guarda. — Lou, sai chi chiamare per le gomme?

— No… — Sono più preoccupato per il lavoro che per le gomme. Se non posso usare la macchina ci sono sempre i mezzi pubblici, ma se perdo il lavoro a causa dei ritardi non mi rimane più nulla.

— Devi metterti in contatto con l’assicurazione e trovare qualcuno che rimpiazzi le gomme.

Cambiare le gomme sarà una bella spesa. Ma come farò ad andare in un’officina con le ruote tutte sgonfie?

— Vuoi aiuto?

Non so cosa dire e non so nemmeno cosa fare. Certo ho bisogno di aiuto.

— Se non hai mai fatto una denuncia all’assicurazione, la cosa potrebbe sembrarti complicata. Ma non voglio essere indiscreto se non hai bisogno di me.

— Non ho mai fatto una denuncia — dico. — Ho bisogno d’imparare come si fa.

— Allora andiamo a casa tua e colleghiamoci con l’assicurazione — decide lui. — Ti farò vedere come si fa.

Per un istante non posso né parlare né muovermi. Portare qualcuno nel mio appartamento? Nel mio spazio privato? Ma ho davvero bisogno che qualcuno mi mostri come si fa una denuncia. Il signor Bryce sta cercando di aiutarmi: non mi aspettavo che lo facesse.

M’incammino in silenzio, ma dopo qualche passo ricordo che avrei dovuto dire qualcosa. Il signor Bryce è ancora ritto vicino alla mia macchina. — È gentile da parte sua — dico.

Le mie mani tremano mentre apro la porta di casa, e l’ambiente dove avevo creato tanta serenità mi sembra adesso colmo di tensione e di paura. Accendo il computer e mi collego con la compagnia di assicurazioni. Il sistema sonoro comincia a trasmettere Mozart. Lo spengo. Avrei bisogno della musica, ma non so cosa ne penserebbe il signor Bryce.

— Bel posticino — dice lui alle mie spalle. Ho un leggero sobbalzo, benché sappia che lui è lì. Adesso si muove di fianco, dove posso vederlo: così è meglio. — Ora ciò che devi fare è…

— Dire al mio capo che farò tardi — lo interrompo. — Devo far questo prima di tutto.

Devo trovare l’indirizzo elettronico del signor Aldrin nel sito Web della compagnia per cui lavoro. Gli espongo la situazione semplicemente.

"Farò tardi perché sono state tagliate le gomme della mia auto ed è venuta la polizia. Arriverò appena potrò."

Il signor Bryce non guarda lo schermo mentre digito il messaggio. Mi riporto alla rete pubblica e dico: — Fatto.

— Bene. Allora senti. Se sei in contatto con un’agenzia locale, cerca il suo sito, altrimenti mettiti in contatto direttamente con la compagnia.

Lo faccio subito, perché non ho un agente locale. Navigo tra il "servizio clienti", le "polizze auto" eccetera e infine mi fermo su "denunce". Sullo schermo compare un modulo.

— Bravo! — esclama il signor Bryce, e sembra un po’ sorpreso.

— È molto chiaro — dico. Digito il mio nome e indirizzo, il numero della polizza ricavato dal mio file personale, la data, e scrivo "sì" nella casella che chiede se l’incidente è stato notificato alla polizia.

Seguono altre caselle che non capisco. — Qui devi scrivere il numero del rapporto dell’incidente registrato dalla polizia — spiega il signor Bryce indicandomelo sul foglietto che mi ha dato l’agente. — Questo è il numero di codice dell’agente investigativo, da scrivere qui, e questo il suo nome da scrivere - continua. Poi devo scrivere "con parole mie" il resoconto dell’incidente che non ho visto. La sera ho parcheggiato la mia macchina e la mattina dopo tutt’e quattro le gomme erano state tagliate. Il signor Bryce dice che va bene così.

Adesso che ho compilato la denuncia dovrò trovare qualcuno che mi cambi le gomme.

— Non posso dirtelo io, chi chiamare — mi spiega il signor Bryce. — L’anno scorso avemmo un pasticcio e dei tizi accusarono la polizia di prendere bustarelle da officine di servizio. — Io non so cosa significhi "bustarelle". Mentre scendiamo, la gerente dello stabile, signora Tomasz, ci ferma e dice che conosce lei un’officina affidabile. Me ne dà il numero. Come fa a sapere quanto è successo? Forse mi ha sentito parlare nel parcheggio? L’idea mi disturba un poco.

— Ti darò un passaggio per la stazione della metropolitana — dice il signor Bryce. — Non posso accompagnarti al lavoro perché altrimenti farei troppo tardi anch’io.

È già molto gentile a darmi un passaggio. Si sta comportando come un amico. — Grazie, signor Bryce — dico.

Lui scuote la testa. — Ti avevo già detto di chiamarmi Danny, Lou. Siamo vicini di casa.

— Grazie, Danny — dico.

Lui sorride e apre lo sportello della sua macchina. Vedo che è molto pulita, come la mia. Danny accende la radio; la musica è troppo forte e con un ritmo troppo marcato, e mi fa rabbrividire. Non mi piace, però mi piace non dover andare a piedi alla stazione della metropolitana.

Sia la stazione che i treni sono affollati e chiassosi. Mi è difficile rimanere abbastanza calmo e concentrato da leggere i cartelli che mi dicono quale biglietto comprare e quale treno aspettare.

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