17

Nel parcheggio del mio palazzo c’è posto per tutte le macchine dei miei visitatori, perché la maggior parte dei residenti non possiede automobili.

Aspetto nel parcheggio fino all’arrivo degli altri, poi li precedo su per le scale. Tutti quei piedi fanno rumore sui gradini; non sapevo che avrebbero fatto tanto rumore. Danny apre la porta.

— Oh… ciao, Lou. Mi chiedevo chi fosse.

— Sono miei amici — dico.

— Bene, bene — annuisce Danny. Non chiude la porta. Io non so cosa voglia. Gli altri mi seguono alla mia porta, io l’apro e li faccio entrare.

È così strano avere altra gente nell’appartamento. Cameron si aggira intorno e infine sparisce nel bagno. Lo posso sentire là dentro. È come quando vivevo in una residenza di gruppo: non mi piaceva molto. Alcune cose dovrebbero essere private: non è piacevole sentire qualcun altro nel bagno. Cameron scarica e io sento l’acqua scorrere nel lavandino; poi lui esce. Chuy mi guarda e io annuisco. Anche lui va nel bagno. Bailey sta guardando il mio computer.

— Io non ne ho uno a casa — dice. — Adopero il palmare per collegarmi con il computer del mio ufficio.

— A me piace avere questo — dico.

Chuy ritorna nel soggiorno. — E adesso?

Cameron mi guarda. — Lou, tu stai leggendo documenti su questo argomento, vero?

— Sì. — Vado a prendere Funzioni del cervello dallo scaffale dove lo ripongo. — Una mia… un’amica mi ha prestato questo libro. Mi ha detto che per cominciare era il migliore.

— È la donna di cui parla Emmy?

— No, un’altra. È medico. È sposata con un uomo che conosco.

— È medico del cervello?

— Non lo so.

— Perché ti ha dato il libro? Le hai chiesto chiarimenti sul trattamento?

— Le ho chiesto un testo sulle funzioni cerebrali. Voglio sapere cosa vogliono fare dei nostri cervelli.

— Chi non ha studiato non sa nulla di come lavora il cervello — dice Bailey.

— Nemmeno io lo sapevo finché non ho cominciato a leggere — mi oppongo. — Solo quello che ci avevano insegnato a scuola, e non era molto. Ma volevo imparare.

— Lo hai fatto? — chiede Cameron.

— Ci vuole molto tempo per imparare tutto ciò che si sa sul cervello — dico. — Adesso io conosco più di quanto sapessi prima, ma non so se ho imparato abbastanza. Vorrei sapere quali effetti loro pensano che il trattamento abbia e per quali eventuali cause possa non funzionare.

— È complicato — dice Chuy.

— Tu sai qualcosa delle funzioni del cervello? — chiedo.

— Non molto. La mia sorella maggiore era medico, prima che morisse. Io cercai di leggere qualcuno dei suoi testi quando lei andava a scuola di medicina. Allora io vivevo a casa con la mia famiglia. Avevo solo quindici anni, però.

— Vorrei sapere se tu credi che loro possano fare ciò che dicono di poter fare — dice Cameron.

— Non lo so — rispondo. — Volevo controllare quel che il dottore stava dicendo oggi. Non sono sicuro che dicesse la verità. Le diapositive che ha mostrato sono come le illustrazioni di questo libro… — Lo mostro. — Lui ha detto che significavano qualcosa di diverso. Questo non è un testo recente, e le cose cambiano. Ho bisogno di trovare nuove illustrazioni.

— Facci vedere le illustrazioni — dice Bailey.

Apro il libro al punto dove si parla delle attività del cervello e lo depongo su un tavolino basso. Tutti guardano. — Qui dice che questa illustrazione mostra l’attività del cervello quando qualcuno vede un viso umano — dico. — Io penso che somigli esattamente alla diapositiva che secondo il dottore mostrava cosa succede quando si vede un viso conosciuto in una folla.

— Infatti è la stessa — dice Bailey dopo un istante.

— Le sagome hanno le stesse proporzioni e le macchie colorate sono agli stessi posti. Se non è la stessa illustrazione, è una copia.

— Forse per i cervelli normali lo schema di attivazione è lo stesso — dice Chuy.

A questo non avevo pensato.

— Lui ha detto che la seconda diapositiva raffigurava un cervello autistico che guardava un viso conosciuto — dice Cameron. — Il libro invece dice che riproduce lo schema di attivazione quando si guarda il fotomontaggio di un viso sconosciuto.

— Non capisco cosa sia un fotomontaggio — domanda Eric.

— È una faccia generata dal computer usando lineamenti di diverse facce reali — gli spiego.

— Se è vero che lo schema di attivazione per cervelli autistici che guardano un viso conosciuto è uguale a quello di cervelli normali che guardano un viso sconosciuto, allora qual è lo schema di attivazione autistico quando si guarda un viso ignoto? — chiede Bailey.

— Io ho avuto sempre dei problemi a riconoscere gente che si supponeva conoscessi — dice Chuy. — Mi ci vuole sempre più tempo degli altri per familiarizzarmi con i visi della gente.

— Sì, però lo fai — dice Bailey. — Tu riconosci tutti noi, no?

— Sì — dice Chuy. — Ma mi ci è voluto molto tempo, e prima vi riconoscevo dalla voce, dalla taglia eccetera.

— Il punto è che adesso ci riconosci, e questo è l’importante. Anche se il tuo cervello riconosce in modo diverso, almeno lo fa.

— Una volta mi dissero che il cervello può aprirsi diverse strade per fare la stessa cosa — dice Cameron.

— Come quando qualcuno ha un incidente e rimane disabile, e allora gli danno quel farmaco che non ricordo e lo fanno addestrare, e lui può imparare di nuovo a fare quel che faceva prima, ma usando un’altra parte del cervello.

— Questo lo dissero anche a me — dico. — Io chiesi perché non dessero quel farmaco anche a me, ma mi risposero che con me non avrebbe funzionato. Però non mi spiegarono perché.

— E questo libro lo spiega? — chiede Cameron.

— Non lo so. Ancora non l’ho letto tutto — dico.

— È difficile? — domanda Bailey.

— In alcuni punti sì, ma non tanto quanto credevo io — rispondo. — Però ho cominciato leggendo prima altre cose. Questo mi ha aiutato.

— Quali? — chiede Eric.

— Alcuni dei corsi che tengono su Internet — spiego. — Biologia, anatomia, chimica organica, biochimica. — Lui mi fissa, io abbasso gli occhi. — Non sono difficili come sembrano.

Nessuno dice parola per diversi minuti. Io sento il loro respiro e loro possono sentire il mio.

— Io mi sottoporrò al trattamento — dice all’improvviso Cameron. — Voglio farlo.

— Perché? — domanda Bailey.

— Voglio essere normale — dice Cameron. — L’ho sempre desiderato. Odio essere diverso. È troppo difficile, ed è troppo difficile fingere di essere come gli altri quando non lo si è. Ne sono stanco.

— Ma non sei orgoglioso di ciò che sei? — Il tono di Bailey rende chiaro che sta citando lo slogan del Centro: "Noi siamo orgogliosi di ciò che siamo".

— No — dice Cameron. — Fingevo di esserlo. Ma in verità… cosa siamo da doverne essere orgogliosi? Io desidero non dover sforzarmi sempre così duramente di apparire normale. Voglio essere normale e basta.

— Essere normale ti sembra tanto una gran cosa?

— Essere normale è essere come gli altri. — Il braccio di Cameron sobbalza e lui fa spallucce con violenza: a volte questo lo ferma. — Questo… questo stupido braccio… Sono stanco di doverlo sempre nascondere. — La sua voce si è alzata di molto, e io mi chiedo se s’irriterà di più in caso gli chiedessi di abbassarla. — Comunque io mi sottoporrò al trattamento e voi non potete impedirmelo.

— Io non sto cercando d’impedirtelo — dico.

— Linda non lo farà — annunciò Bailey. — Dice che lascerà il lavoro.

— Io non capisco perché gli schemi devono essere gli stessi — dice Eric, che sta guardando il libro. — Non è sensato.

— Cosa non lo è?

— Che gli schemi di attivazione dei cervelli normali per i visi sconosciuti siano uguali a quelli dei cervelli autistici per i visi conosciuti.

— Le persone normali prestano più attenzione alle facce — dice Chuy.

— Le persone normali si occupano degli altri — dice Cameron. — Ecco perché io voglio essere normale.

— Le persone normali hanno a cuore le persone normali — dice Eric. — E gli autistici hanno a cuore gli autistici.

— Non è proprio vero — ribatte Cameron, e si guarda intorno. — Guardate noi. Eric sta disegnando sagome con le dita, Bailey si sta mordendo le labbra, Lou si sta sforzando talmente di sedere composto che sembra fatto di legno e io agito il mio dado che lo voglia o no. Voi accettate che io agiti il dado che ho in tasca, ma non vi occupate di me. Quando la scorsa primavera ho avuto l’influenza, nessuno di voi mi ha chiamato o mi ha portato da mangiare.

Non dico nulla. Non c’è nulla da dire. Io non ho chiamato e non ho portato cibo perché non sapevo se Cameron voleva che lo facessi. Credo non sia giusto da parte sua lagnarsene ora. Non sono sicuro del resto che le persone normali chiamino sempre e portino sempre cibo quando qualcuno sta male. Guardo gli altri. Nessuno di loro guarda Cameron. A me è simpatico Cameron, sono abituato a lui. Che differenza c’è tra avere simpatia per qualcuno ed essere abituati a lui? Non lo so con chiarezza, e questo non mi piace.

— Neppure tu ti occupi di noi — obietta infine Eric. — È più di un anno che non ti fai vedere alle riunioni del Centro.

— Già, è vero — ammette Cameron. — Continuo a vedere… non so come esprimermi… quelli più anziani, quelli che sono peggio di noi. I giovani no: adesso li curano tutti appena nascono o prima. Quando avevo vent’anni era diverso. Ma adesso… noi siamo gli unici del nostro genere. Gli autistici più anziani, quelli che non hanno avuto neppure l’addestramento che abbiamo avuto noi… non mi piace vedermeli intorno. Mi incutono la paura di tornare indietro, di diventare come loro. E non abbiamo più nessuno da aiutare, perché autistici giovani non ce ne sono più.

— Tony — dice Bailey guardandosi le ginocchia.

— Sì, Tony. Lui è il più giovane e ha… quanto, ventisette anni? È l’unico sotto i trenta. Tutti gli altri più giovani al Centro sono… diversi.

— A Emmy piace Lou — dice Eric. Io lo guardo. Non so cosa voglia dire.

— Se fossi normale, non dovrei più andare dallo psichiatra — dice Cameron. Penso alla dottoressa Fornum e mi dico che non vederla più è quasi una ragione sufficiente per sottoporsi al trattamento. — Potrei sposarmi senza certificato di stabilità. Avere bambini.

— Tu vuoi sposarti — dice Bailey.

— Sì — annuisce Cameron. La sua voce è alta di nuovo, ma non più tanto alta, e il suo viso è rosso. — Voglio sposarmi. Voglio avere bambini. Voglio abitare in una casa normale in un quartiere normale e viaggiare sui trasporti pubblici e vivere il resto della mia vita come una persona normale.

— Anche se non sarai più la stessa persona? — chiede Eric.

— Certo che sarò la stessa persona — si oppone Cameron. — Però sarò normale.

Io non sono sicuro che questo sia possibile. Quando penso ai vari modi in cui io non sono normale, non riesco a immaginare di essere normale e di rimanere la stessa persona. L’essenza di questo trattamento è di cambiarci, di renderci altri da noi, e certo ciò coinvolge anche la personalità, il sé.

— Lo farò da solo se non vorrà farlo nessun altro — insiste Cameron.

— La decisione è tua — dice Chuy.

— Sì — mormora Cameron — sì.

— Mi mancherai — dice Bailey.

— Puoi venire anche tu — propone Cameron.

— No. Non ancora, comunque. Voglio saperne di più.

— Ora vado a casa — dice Cameron. — A loro lo dirò domani. — Si alza e io vedo la sua mano nella tasca che manipola il dado, su e giù, su e giù.

Non ci salutiamo, non ne abbiamo bisogno tra di noi. Cameron esce e chiude piano la porta alle sue spalle. Gli altri mi guardano e poi distolgono gli occhi.

— A certe persone non piace ciò che sono — dice Bailey.

— Certe persone sono diverse da ciò che altre persone credono — dice Chuy.

— Cameron era innamorato di una donna che non era innamorata di lui — dice Eric. — Lei gli disse che tra loro non avrebbe mai funzionato. Successe quando lui era al liceo. — Mi chiedo come fa Eric a saperlo.

— Emmy dice che Lou è innamorato di una donna normale che gli rovinerà la vita — dice Chuy.

— Emmy non sa di cosa parla — protesto. — Emmy dovrebbe occuparsi dei fatti suoi.

— Cameron pensa che quella donna potrebbe amarlo se lui fosse normale? — chiede Bailey.

— Lei ha sposato un altro — spiega Eric. — Cameron pensa che potrebbe innamorarsi di qualcuna che potrebbe ricambiarlo. Credo che questa sia la ragione per cui vuole il trattamento.

— Io non lo farei per una donna — commenta Bailey. — Se lo farò, lo farò per me. — Mi chiedo cosa direbbe se conoscesse Marjory. Se io fossi certo che il trattamento mi facesse amare da Marjory, acconsentirei? Quest’idea mi mette a disagio: l’allontano.

— Io non so che effetto faccia la normalità. Le persone normali non sembrano sempre felici. Forse essere normali è brutto quanto essere autistici. — La testa di Chuy si agita, su e giù, su e giù.

— Io vorrei provare — dice Eric. — Ma vorrei anche poter tornare indietro al mio vecchio io, se la cosa non funzionasse.

— Non si può — dico. — Ricordi ciò che il dottor Ransome ha detto a Linda? Una volta che si sono formate le connessioni tra i neuroni, esse restano formate a meno che un accidente o qualcosa del genere non rompa la connessione.

— È questo ciò che vogliono fare, istituire nuove connessioni?

— E cosa ne sarà di quelle vecchie? — Bailey agita le braccia. — Non succederà qualcosa come quando le cose vanno in collisione? Confusione? Caos?

— Non lo so — dico. Di colpo mi sento inghiottito dalla mia ignoranza, una non-conoscenza così vasta. Da tanta vastità potrebbero sgorgare tante cattive conseguenze. Poi mi torna in mente una foto scattata da un telescopio basato su una stazione spaziale: l’immensa oscurità illuminata dalle stelle. Anche la bellezza, dunque, può scaturire dall’ignoto.

— Io credo che dovrebbero spegnere i circuiti che stanno lavorando adesso, costruire nuovi circuiti e poi attivare questi ultimi. In questo modo solo le connessioni valide dovrebbero lavorare.

— E i ricordi? — domanda Chuy. — Cancellerebbero i ricordi?

— In che modo? — domanda Bailey.

— I ricordi sono immagazzinati nel cervello. Se spengono i circuiti, i ricordi si cancelleranno.

— Forse no. Non ho letto ancora i capitoli sulla memoria — dico io. — Li leggerò tra poco, ci sono quasi arrivato. — Qualche nozione sulla memoria è già stata discussa nel libro, ma ancora non ne capisco abbastanza. — Inoltre, quando uno spegne un computer non si perde tutta la memoria.

— La gente non è conscia durante le operazioni, però non perde la memoria — dice Eric.

— Ma non ricorda l’operazione, e poi ci sono dei farmaci che interferiscono con la formazione dei ricordi — dice Chuy. — E se possono interferire con la formazione dei ricordi, forse possono rimuovere i vecchi ricordi.

— Questa è una cosa che si può cercare on-line — suggerisce Eric. — Lo farò io.

— Rimuovere le connessioni e crearne di nuove è come l’hardware — dice Bailey. — Imparare a usare le connessioni nuove è come il software. È già stato abbastanza difficile imparare il linguaggio la prima volta. Non voglio passare di nuovo per una simile esperienza.

— I bambini normali imparano più in fretta — dice Eric.

— Però impiegano sempre anni — dice Bailey. — A noi parlano di sette-otto settimane di riabilitazione. Questo magari basterà per uno scimpanzè, ma uno scimpanzè non parla.

— Non è che prima non abbiano mai commesso errori — dice Chuy. — Sul conto nostro si credevano ogni sorta di cose sbagliate. Potrebbe essere sbagliata anche questa.

— Adesso si sa di più sulle funzioni cerebrali — li informo. — Ma non si sa tutto.

— Non mi piace far qualcosa senza sapere cosa accadrà — dice Bailey.

Chuy ed Eric non dicono nulla ma sono d’accordo. Anch’io sono d’accordo. È importante conoscere le conseguenze prima di agire. A volte le conseguenze non sono evidenti.

Anche le conseguenze del non agire spesso non sono evidenti. Se io non mi sottoporrò al trattamento, le cose non resteranno le stesse: me lo ha provato Don, con i suoi vandalismi e il suo attentato contro di me. Non importa cosa io faccia, non importa quanto prevedibile io cerchi di rendere la mia vita, essa continuerà a non essere più prevedibile del resto del mondo… che è caotico.

— Ho sete — dice Eric all’improvviso. Si alza. Anch’io mi alzo e vado in cucina. Prendo un bicchiere e lo riempio d’acqua. Lui fa una smorfia nell’assaggiarla: allora ricordo che lui beve acqua minerale. Ma io non ho la marca che preferisce.

— Ho sete anch’io — dice Chuy. Bailey tace.

— Vuoi acqua? — chiedo. — È tutto ciò che ho, a parte una bottiglia di succo di frutta. — Spero che non mi chieda succo di frutta, è quello che preferisco per colazione.

— Voglio acqua — dice. Bailey alza una mano. Riempio altri due bicchieri d’acqua e li porto in soggiorno.

Mi sembra tanto strano avere gente nel mio appartamento. Lo spazio sembra più piccolo e l’aria più densa. I colori cambiano a causa dei colori che i miei ospiti indossano e di quelli che sono loro stessi.

Mi chiedo di colpo come sarebbe se io e Marjory vivessimo insieme: che impressione mi farebbe vederla occupare spazio qui in soggiorno, in camera da letto, nel bagno. A me non piaceva la residenza di gruppo dove sono vissuto appena lasciata la mia casa. Il bagno odorava di estranei, anche se lo pulivamo tutti i giorni. E c’erano cinque dentifrici diversi, cinque preferenze diverse per lo shampoo, il sapone e il deodorante.

— Lou, stai bene? — Bailey sembra preoccupato.

— Stavo pensando a… qualcosa — dico. Non voglio pensare che potrebbe non piacermi Marjory nel mio appartamento, che forse me lo renderebbe sgradevole, che potrebbe sembrarmi affollato o rumoroso o puzzolente.


Cameron non è al lavoro. È dove gli hanno detto di andare per dare inizio al trattamento. Linda non è al lavoro. Io non so dove sia. Vorrei piuttosto preoccuparmi di dove Linda può essere che pensare a quanto sta accadendo a Cameron. Conosco Cameron com’è adesso… com’era due giorni fa. Riconoscerò la persona col viso di Cameron che emergerà dal trattamento?

Oggi ci dicono qualcosa di più sulla procedura.

— Le ecotomografie di base ci permettono di mappare le vostre funzioni cerebrali individuali — spiega il dottore. — Vi assegneremo cose da fare durante l’esame per identificare in che modo il vostro cervello elabora le informazioni. Quando lo confronteremo con quello di un cervello normale, sapremo come modificare il vostro…

— Non tutti i cervelli normali sono uguali — obietto.

— Si somigliano, comunque — dice lui. — Le differenze tra i vostri cervelli e una media tra parecchi cervelli normali sono ciò che desideriamo modificare.

— Quale effetto avrà questo sulla mia intelligenza? — chiedo.

— Non dovrebbe averne nessuno. L’intera nozione di un’intelligenza centrale è stata smentita praticamente del tutto nel secolo scorso, con la scoperta della modularità dell’elaborazione… è questo che rende la generalizzazione così difficile… e siete stati voi autistici che in un certo modo avete provato come si possa essere molto intelligenti in matematica, diciamo, e molto al di sotto della media nel linguaggio espressivo.

"Non dovrebbe averne" non ha lo stesso significato di "non ne avrà". Io non so con precisione quale grado d’intelligenza possiedo, ma so che non sono uno sciocco e non voglio esserlo.

— Se ti preoccupi della tua abilità nell’analisi degli schemi — mi tranquillizza lui — sappi che non è quella la parte del cervello sulla quale influirà il trattamento. Sarà piuttosto un conferire a quella parte del tuo cervello un accesso a dati nuovi, dati socialmente importanti, senza che tu devi sforzarti per acquisirli.

— Come le espressioni facciali — dico.

— Sì, cose del genere. Ricognizione dei visi, espressioni facciali, sfumature dei toni della voce nel linguaggio… e una spintarella nell’area del controllo dell’attenzione, in modo che ti sia più facile notare quei particolari e ti sia piacevole farlo.

— Piacevole? Intendete collegare quel processo ai liberatori interni delle endorfine?

Lui di colpo si fa rosso. — Se vuoi dire che avrai degli orgasmi nel trovarti in mezzo alla gente, assolutamente no. Ma gli autistici non trovano gradevoli le interazioni sociali, e il trattamento le renderà se non altro meno minacciose. — Io non sono bravo nell’interpretare le sfumature tonali della voce, ma so che il dottore non mi sta dicendo tutta la verità.

Se loro possono controllare il livello di piacere che noi possiamo ottenere dall’interazione sociale, allora possono controllare anche il livello di piacere che la gente normale trae da essa. Penso agli insegnanti nelle scuole… se fossero in grado di controllare il piacere che gli allievi traggono dagli altri allievi… facendoli diventare tutti autistici così che preferiscano studiare anziché chiacchierare… Penso al signor Crenshaw, con sezioni piene di lavoratori che ignorano tutto tranne il lavoro.

Mi si annoda lo stomaco e mi sale in bocca un gusto amaro. Se dicessi che percepisco queste possibilità, cosa mi succederebbe? Due mesi fa, mi sarei lasciato sfuggire tutto quanto avevo pensato, tutto quanto mi preoccupava; adesso sono più prudente. Il signor Crenshaw e Don mi hanno insegnato la prudenza.

— Non devi diventare paranoico, Lou — dice il dottore. — Per quelli che si trovano al di fuori delle correnti principali della società è una perpetua tentazione pensare che gli altri complottino contro di loro, ma questo genere di pensieri non è salubre.

Sto zitto. Penso alla dottoressa Fornum, al signor Crenshaw e a Don. A gente come loro non piaccio io e non piacciono quelli come me. A volte persone che non amano me e quelli come me possono cercare di farmi veramente del male. Sarebbe stata paranoia se io fin dal principio avessi sospettato che era stato Don a tagliarmi le gomme? Non credo. Sarebbe stata corretta identificazione di un pericolo.

— Tu devi aver fiducia in noi, Lou, perché il trattamento funzioni. Posso darti qualcosa che ti rilassi…

— Io non sono nervoso — mi oppongo. E non lo sono davvero. Sono contento di me perché ho riflettuto su quello che lui andava dicendo e ne ho scoperto il significato nascosto, benché quel significato recondito mi avverta che lui mi sta manipolando. Se lo so, la manipolazione in un certo modo fallisce. — Sto cercando di capire, ma non sono nervoso.

Lui si tranquillizza. — Vedi, Lou, questo è un argomento molto complicato. E tu sei un uomo intelligente, ma non ti trovi nel tuo campo. Ci vogliono anni di studio per capirlo veramente. Una conferenza affrettata e magari qualche consultazione sui siti Internet non possono farti fare molta strada. Anch’io, se volessi fare quel che fai tu, non combinerei nulla. Quindi, perché non lasci a noi di fare il nostro lavoro come tu fai il tuo?

Perché è il mio cervello e la mia personalità che voi volete cambiare. Perché non mi state dicendo tutta la verità, e io non sono sicuro che abbiate a cuore i miei migliori interessi… o perfino i miei interessi, quanto a questo.

— Quel che io sono è importante per me — dico.

— Vuoi dire che ti piace essere autistico? — Il disprezzo rende un po’ aspra la sua voce: il dottore non può immaginare nessuno che desideri essere come me.

— A me piace essere me — dico. — L’autismo è parte di quello che sono, non è la mia intera personalità. — Spero che questo sia vero, che io sia qualcosa di più che la mia diagnosi.

— Perciò, se ci sbarazziamo dell’autismo, tu sarai la stessa persona, solo non più autistica.

Lui spera che ciò sia vero; può anche darsi che creda di credere che sia vero; ma non crede con ferma fede che sia vero. La paura che non sia vero esala da lui come l’afrore della paura fisica.

Ciò che mi terrorizza di più è che loro potrebbero… e certamente lo vorranno… pasticciare con la mia memoria, non solo con le connessioni correnti. Devono sapere al pari di me che tutta la mia esperienza passata parte da una prospettiva autistica. Cambiare le connessioni non può cambiare questo, ed è questo che ha fatto di me ciò che sono. E se perderò il ricordo di questo, di chi sono, allora avrò perduto tutto ciò per cui ho lavorato e che ho costruito in trentacinque anni di vita. Non voglio perderlo. Non voglio ricordare le cose solo come si ricorda ciò che si è letto nei libri; non voglio che Marjory diventi come un’immagine vista su uno schermo TV. Io voglio conservare i sentimenti che accompagnano i ricordi.

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