18

La chiesa in cui vado ha una funzione di prima mattina, senza musica, e una funzione alle 10.30 con musica. A me piace arrivare presto e rimanere seduto nel silenzio, guardando la luce entrare dai vetri multicolori delle finestre. Ancora una volta, dunque, oggi siedo nella quiete della chiesa e penso a Don e a Marjory.

Non dovrei pensare a Don e a Marjory, ma a Dio. Fissate la mente su Dio, diceva un sacerdote che veniva qui, e non potrete sbagliarvi. Però è difficile fissare la mente su Dio quando l’immagine scolpita nella mia mente è quella della canna della pistola di Don. La sua estremità era rotonda e nera come un buco nero. Ne sentivo l’attrazione come se il buco, l’apertura, possedesse una massa capace di attirarmi all’interno, nel buio eterno. La morte. Il nulla.

Non so cosa viene dopo la morte. Le Scritture mi dicono una volta una cosa, una volta un’altra. Alcuni sostengono che tutti i giusti saranno salvati e andranno in Cielo e altri dicono che il Cielo è riservato solo agli Eletti. Io non immagino il Cielo come qualcosa che si possa descrivere. Quando cerco di pensarci, come ora, lo vedo come una fantasmagoria di luci, intricata e bellissima, come le foto che gli astronomi prendono con i telescopi spaziali o traggono dalle immagini trasmesse da loro, ogni colore una diversa lunghezza d’onda.

Ma adesso, dopo l’attentato di Don, io vedo il buio, più veloce della luce, che fluisce dalla canna della pistola per attirarmi al suo interno, al di là della luce, per sempre.

Sono vivo, però. Sono nella luce. Il buio questa volta non è stato più veloce. Tuttavia io mi sento inquieto, come se mi stesse dando la caccia avvicinandosi sempre più dietro di me, dove non posso vederlo.

Siedo in fondo alla chiesa, ma dietro di me c’è uno spazio aperto. Di solito non mi disturba, però oggi vorrei che lì ci fosse un muro.

Cerco di concentrarmi sulla luce, sul movimento lento dei raggi colorati che si accorciano e scivolano all’indietro man mano che il sole si alza. In un’ora la luce si muove a una distanza che tutti possono vedere, ma in realtà non è la luce che si muove, è il pianeta. Me ne dimentico e uso il modo di parlare comune proprio come tutti gli altri, e provo un brivido di gioia ogni volta che ricordo che la Terra si muove.

Si muove entrando nella luce e uscendo fuori di essa. È la nostra velocità e non la velocità della luce o del buio che crea i nostri giorni e le nostre notti. Fu la mia velocità o quella di Don a portarci ambedue nel buio dove lui voleva farmi del male? È stata la mia velocità a salvarmi?

Cerco di nuovo di pensare a Dio e la luce indietreggia abbastanza da illuminare la croce di ottone sul suo piedistallo di legno. Il bagliore del metallo giallo contro le ombre viola che gli fanno da sfondo è così meraviglioso che per un istante mi manca il fiato.

In questo luogo la luce è sempre più veloce del buio; la velocità del buio non importa.

— Eccoti qui, Lou!

La voce mi sorprende. Sobbalzo ma riesco a sorridere alla donna dai capelli grigi che mi porge un volantino con il testo della funzione. Di solito mi rendo conto meglio del tempo che passa e della gente che arriva. Anche lei mi sorride.

— Non volevo spaventarti — dice.

— Non importa — la rassicuro. — Stavo solo pensando.

Adesso mi sono riscosso e osservo la gente che arriva. Il vecchio che cammina con due bastoni e siede in prima fila. Soleva venire con sua moglie, ma lei è morta quattro anni fa. Le tre vecchie che vengono sempre insieme e siedono in terza fila a sinistra. La gente continua ad arrivare, a gruppi di due o tre o quattro o a uno a uno. Vedo la testa dell’organista sparire dietro l’organo. Poi comincia la musica.

Mia madre diceva che era sbagliato andare in chiesa solo per la musica, ma questa non è la sola ragione che mi spinge ad andarci. Ci vado per imparare a essere una persona migliore. Però la musica è una delle ragioni per cui frequento questa chiesa. Oggi è ancora il turno di Bach (il nostro organista ama Bach) e la mia mente afferra senza sforzo le molte fila dello schema e le segue nello svolgersi della composizione.

Sentire la musica così, dal vivo, è diverso dal sentire una registrazione. Mi fa sentire più consapevole dello spazio in cui ci troviamo: sento il suono rimbalzare dalle pareti formando armonie che sono peculiari di questo ambiente. Ho sentito Bach anche in altre chiese e la sua musica forma sempre armonie e mai disarmonie. Questo è un grande mistero.

La musica s’interrompe. Sento un mormorio dietro di me: il clero e il coro si stanno mettendo in fila. Apro il libro degli inni e trovo il numero dell’inno che accompagna la processione. L’organo riattacca suonando la prima frase e poi le voci si levano. Io leggo le parole e canto come meglio posso.

Dopo l’inno c’è una preghiera che recitiamo tutti. Ne conosco le parole a memoria, le ho conosciute fin da quando ero piccolo. Un’altra ragione per cui frequento questa chiesa è la prevedibilità e l’ordine delle funzioni. Posso pronunciare le parole note senza inciampo, posso esser pronto a sedere o alzarmi o inginocchiarmi, parlare o cantare o ascoltare senza sentirmi impacciato e goffo. Quando vado in altre chiese mi preoccupo più di fare la cosa giusta al momento giusto che di Dio. Qui la routine mi aiuta ad ascoltare meglio ciò che Dio vuole che io faccia.

A casa leggo le letture in anticipo, sul calendario che la chiesa distribuisce ogni anno. Oggi però, quando si arriva alla lettura del Vangelo, vedo che c’è stato un cambiamento: invece di un passo di Matteo ce n’è uno di Giovanni. Seguo sul volantino il passo che il sacerdote legge a voce alta. È la storia dell’uomo che giaceva presso la piscina di Bethesda, l’uomo che voleva guarire ma non aveva nessuno che lo calasse nella piscina. Gesù gli chiese se davvero voleva esser guarito.

A me era sempre sembrata una domanda sciocca. Perché mai l’uomo avrebbe dovuto sostare presso la piscina se non voleva essere guarito? Perché avrebbe dovuto lamentarsi di non aver nessuno che lo calasse nell’acqua se non voleva essere guarito?

Ma Dio non fa domande sciocche. Quindi la domanda non può essere sciocca, e allora cosa significa?

Il nostro sacerdote comincia la predica. Sto ancora cercando d’indovinare quale significato possa avere una domanda in apparenza sciocca quando la sua voce fa eco ai miei pensieri.

— Perché Gesù chiede all’uomo se vuole esser guarito? Non è un nonsenso? L’uomo giace lì in attesa di una possibilità di guarigione… Certo che vuole esser guarito!

Esatto, penso io.

— Se Dio non sta cercando di farci uno scherzo o dicendo sciocchezze, allora cosa significa quella domanda: "Vuoi essere guarito?". Guardate dove troviamo quell’uomo: accanto a una piscina nota per i suoi poteri curativi, dove "un angelo viene e agita l’acqua di tanto in tanto…" e gli ammalati devono calarsi nell’acqua quando si agita. Dove, in altre parole, gli ammalati sono dei pazienti pazientissimi in attesa che la cura si manifesti. Sanno, perché gliel’hanno detto, che il modo di guarire è calarsi nell’acqua quando questa si agita. Non aspettano altro… Si trovano in quel luogo a quell’ora in cerca non solo di guarigione, ma di una guarigione che si verifichi in quel modo particolare.

"Nel mondo di oggi noi potremmo dire che sono come le persone le quali credono che un certo medico, uno specialista di fama mondiale, possa guarirle dal cancro. Vanno quindi all’ospedale dove quel medico esercita, vogliono essere curate da lui, perché sono sicure che solo così potranno riacquistare la salute.

"Così il paralitico si concentra sulla piscina, sicuro che il solo aiuto di cui ha bisogno sia di essere calato nell’acqua al momento giusto.

"La domanda di Gesù, dunque, stimola l’uomo a considerare se davvero vuole star bene o se vuole la particolare esperienza di entrare nella piscina. Se potesse venir guarito senza di essa, accetterebbe la guarigione?

"Alcuni predicatori hanno discusso questa storia come un esempio di paralisi indotta, paralisi isterica… se l’uomo vuol restare paralizzato, tale resterà. Io invece credo che la domanda posta da Gesù prenda di mira un problema cognitivo, non un problema emotivo. Può l’uomo liberarsi dai paraocchi? Può accettare una guarigione che non è quella che si aspetta? Una guarigione che comincerà dentro di lui e farà più che risanargli le gambe e la schiena, una guarigione che passerà dallo spirito e dalla mente al corpo?"

Mi chiedo cosa direbbe l’uomo se non fosse paralitico ma autistico. Andrebbe anche lui alla piscina per guarire? Cameron lo farebbe. Ma io non credo di aver bisogno di essere guarito, non dall’autismo. Altra gente vuole che io guarisca, non io in persona. Mi chiedo se quell’uomo aveva una famiglia che magari era stanca di portarlo in giro in una lettiga. Mi chiedo se aveva genitori che dicevano: "Il meno che puoi fare è cercare di guarire" o una moglie che diceva: "Su, tenta, male non ti può fare" o bambini scherniti dagli altri bambini perché il loro padre non poteva camminare. Mi chiedo se altre persone che andavano in quella piscina non lo facessero perché loro volevano guarire ma perché la loro gente voleva che guarissero e smettessero di essere dei pesi.

Da quando i miei genitori sono morti io non sono un peso per nessuno. Il signor Crenshaw crede che io sia un peso per la compagnia, ma io so che non è vero. Non sto accanto a una piscina pregando che mi ci calino dentro. Sto piuttosto cercando di evitare che mi ci buttino. Ammesso poi che sia una piscina che porta la guarigione, cosa che non credo.

— … così la domanda che dobbiamo porci oggi è: vogliamo davvero il potere dello Spirito Santo nelle nostre vite o stiamo solo fingendo? — Il sacerdote ha detto molte cose che non ho sentito; ma questa la sento e rabbrividisco.

— Stiamo seduti accanto alla piscina in attesa di un angelo che agiti le acque, in attesa paziente ma passiva, mentre accanto a noi sta Dio pronto a darci la vita eterna se solo desideriamo aprire le mani e i cuori e prendere il suo dono?

"Credo che molti di noi stiano facendo proprio questo. Credo che tutti noi lo facciamo, in un’occasione o in un’altra; ma proprio adesso molti di noi siedono, aspettano e si lamentano perché nessuno li cala nell’acqua quando arriva l’angelo. — Fa una pausa e fa scorrere lo sguardo sulla congregazione. — Guardatevi intorno, ogni giorno, in ogni luogo, guardate negli occhi tutti quelli che incontrate. Perché questa chiesa può essere importante nella vostra vita, ma Dio dovrebbe essere più importante… ed Egli è dovunque, sempre, in tutti e in ciascuno. Chiedetevi: "Voglio essere guarito?" e, se non potete rispondervi di sì, cominciate a chiedervi perché non lo volete. Perché io sono certo che Dio sta accanto a ognuno di voi, rivolgendovi questa domanda nelle profondità dell’anima vostra, pronto a guarirvi se sarete pronti a essere guariti.

Resto a guardare il sacerdote e quasi dimentico di alzarmi in piedi e di recitare il Credo.

Dunque la domanda non era sciocca. Io voglio essere guarito? E da che?

L’unico sé che conosco è questo sé, la persona che sono adesso, lo specialista di bioinformatica autistico, schermidore e innamorato di Marjory.

Cos’avrebbe fatto Gesù se l’uomo gli avesse risposto: "No, non voglio essere guarito, sono contento come sono"? Se avesse risposto: "In me non c’è niente che non va, ma i miei parenti e amici mi hanno costretto a venire"?

Forse, anche in questo caso, Gesù avrebbe continuato a pensare che l’uomo aveva bisogno di alzarsi e di camminare.

Forse Dio pensa che io sarei migliore se non fossi autistico. Forse vuole che io mi sottoponga al trattamento.

Di colpo mi sento gelare. Qui mi sono sentito accettato… accettato da Dio, dal sacerdote e dalla congregazione, almeno per la maggior parte. Dio non respinge il cieco, il sordo, il paralitico, il pazzo. Questo mi hanno insegnato e questo io credo. Ma se mi sbagliassi? E se Dio volesse che io fossi qualcosa di diverso da quello che sono?

Siedo durante il resto della funzione. Per la Comunione non mi alzo, e uno dei diaconi mi chiede se sto bene. Annuisco. Lui non sembra convinto, ma mi lascia in pace. A funzione conclusa aspetto finché non sono usciti tutti e poi esco anch’io. Il sacerdote è ancora fuori dalla porta, sta parlando con un diacono. Mi sorride.

— Salve, Lou. Come stai? — Mi stringe la mano, brevemente perché sa che il gesto non mi è gradito.

— Non so se voglio essere guarito — dico.

Lui assume un’aria preoccupata. — Lou, non stavo parlando per te… per quelli che sono come te. Stavo parlando di guarigione spirituale. Sai che noi ti accettiamo come sei…

— Voi sì — dico — ma Dio?

— Dio ti ama come sei e come diventerai — dice il sacerdote. — Mi dispiace se qualcosa nelle mie parole ti ha ferito…

— Non mi sento ferito — dico. — È solo che non capisco. …

— Vuoi che ne parliamo? — chiede.

— Non adesso — dico. Ancora non so bene cosa penso, perciò non desidero chiedere finché non mi sentirò sicuro.

— Tuttavia, Lou, per favore… non lasciare che nessuna delle cose che ho detto si frapponga fra te e Dio.

— Questo non succederà — lo rassicuro. — È solo che… devo riflettere. — Me ne vado e lui mi lascia andare. Questa è un’altra cosa che mi piace della mia chiesa. Nessuno è invadente, nessuno ti soffoca con la scusa di farti del bene.

Torno indietro e mi avvicino al sacerdote. Lui aspetta che io parli.

— Non so perché lei abbia letto quel passo questa settimana — dico. — Non era nel calendario.

— Ah — fa lui, e sorride appena. — Lo sai che il vangelo di Giovanni non appare mai sul calendario? È come un’arma segreta che noi sacerdoti tiriamo fuori quando pensiamo che la nostra congregazione ne abbia bisogno.

Io lo avevo notato, ma non avevo mai chiesto perché.

— Ho scelto quel passo per oggi, a causa di… Lou, tu sei informato di quanto succede in questa parrocchia?

— No — dico.

— Allora forse non sai che ultimamente si sono uniti a noi molti parrocchiani provenienti da un’altra chiesa, dalla quale si sono allontanati perché c’era stato un grosso litigio.

— Un litigio in chiesa? — Mi sento contrarre lo stomaco. È sbagliatissimo litigare in chiesa.

— Queste persone erano molto irritate e avvilite quando sono venute da noi. Io sapevo che ci sarebbe voluto del tempo perché guarissero da quel trauma — continua il sacerdote. — Ho dato loro tempo. Ma loro sono ancora arrabbiati e continuano a discutere, sia con la gente della loro vecchia chiesa sia con gente della nostra congregazione.

Io cerco di orientarmi nella situazione. — Allora lei ha parlato di voler essere guariti perché loro portano discordia?

— Sì. Dovevo cercare di farglielo capire. Voglio che si rendano conto che insistere sempre nelle solite vecchie dispute non è il modo migliore per lasciare che Dio agisca nelle loro vite e porti loro la guarigione. — Il sacerdote scuote la testa, abbassa gli occhi un momento e poi torna a guardarmi. — Lou, mi sembri ancora un poco turbato. Sei sicuro di non potermi dire perché?

Non desidero parlargli adesso del trattamento, ma è peggio non dire la verità qui in chiesa che in qualunque altro luogo.

— Lei ha detto che Dio ci ama e ci accetta come siamo. Poi però ha detto che la gente dovrebbe cambiare, dovrebbe accettare la guarigione — dico. — Ma se veniamo accettati quali siamo, forse è così che dovremmo essere. Se invece dobbiamo cambiare sarebbe sbagliato essere accettati quali siamo.

Lui annuisce. Non so se questo significhi che approva il mio modo di esporre il problema o se pensa che dovremmo cambiare. — Io davvero non intendevo ferire te quando ho tirato quella freccia, Lou, e me ne dispiace. Ho sempre creduto che tu fossi una persona ben adattata e contenta entro i limiti che Dio ha posto alla tua vita.

— Non credo sia stato Dio — dico. — I miei genitori dicevano che era un incidente. Ma se è stato Dio, allora sarebbe errato cambiare, no?

Il sacerdote pare sorpreso.

Continuo: — Però tutti hanno sempre voluto che io cambiassi quanto e come potevo, che io diventassi il più normale possibile, e se questo è bene, allora non possono credere che i limiti… l’autismo… vengano da Dio. È questo che non riesco a capire. Devo sapere quale delle due ipotesi è la vera.

— Ehm… — Il sacerdote si dondola sui calcagni e per un lungo istante guarda lontano. — Non ho mai considerato la questione da questo punto di vista, Lou. In verità, se si pensa agli handicap come letteralmente mandati da Dio, allora aspettare accanto alla piscina è l’unica risposta sensata. Non si butta via qualcosa che Dio ti ha dato. Ma d’altra parte io sono d’accordo con te. Non riesco a vedere un Dio che vuole che la gente nasca con handicap.

— Quindi io dovrei desiderare di guarirne, anche se non esiste cura?

— Credo che noi dobbiamo volere quel che Dio vuole; solo che la maggior parte delle volte non sappiamo cosa sia — dice lui.

— Lei lo sa — dico.

— Solo in parte. Dio vuole che noi siamo onesti, cortesi, e che ci aiutiamo l’un l’altro. Ma se Dio voglia che cerchiamo qualsiasi benché minima possibilità di cura per i nostri mali… questo non lo so. Forse è giusto farlo solo se la cosa non ostacola il nostro progresso quali figli di Dio, suppongo. Poi ci sono mali che non è umanamente possibile curare, e allora il meglio che possiamo fare è sopportarli. Santo cielo, Lou, mi hai sottoposto un problema davvero difficile! — Mi sorride, ed è un vero sorriso che gli illumina gli occhi e tutta la faccia. — Saresti stato uno studente interessante in seminario.

— Non avrei potuto andarci — dico. — Non posso nemmeno imparare le lingue…

— Non ne sono proprio sicuro — obietta. — Rifletterò molto su quanto mi hai detto, Lou. Se vorrai riparlarne.

Ciò significa che per ora non desidera parlarne oltre. Gli dico — Buon giorno — e me ne vado.

L’autobus è in ritardo, per cui non l’ho perduto. Aspetto all’angolo della strada e ripenso alla predica. Poca gente prende il bus di domenica, così mi trovo un sedile isolato e guardo fuori gli alberi, tutti bronzo e rame nella luce autunnale. Quando ero piccolo le foglie ancora diventavano rosse e oro, ma quegli alberi sono morti e quelli che abbiamo adesso, se cambiano colore, ne assumono uno più spento.

In casa ricomincio a leggere. Vorrei finire Cego e Clinton prima di domani mattina. Sono certo che mi chiameranno per parlarmi del trattamento e chiedermi la mia decisione. Non sono pronto a prendere una decisione.


— Pete — disse una voce che Aldrin non riconobbe. — Sono John Slazik. — La mente di Aldrin diventò di gelo, il suo cuore si fermò e poi cominciò a pulsare violentemente. Era il generale a riposo John Slazik, in quel momento direttore generale della compagnia.

Aldrin ebbe un singulto, quindi ritrovò la voce. — Sì, signor Slazik. — Un istante dopo pensò che forse avrebbe dovuto dire "Sì, generale", ma ormai era tardi.

— Senti mi stavo giusto chiedendo cosa puoi dirmi a proposito del progettino di Gene Crenshaw. — La voce di Slazik era profonda, calda e liquida come un buon brandy e altrettanto potente.

Aldrin poteva sentire il calore diffonderglisi nelle vene. — Sì, signore. — Cercò di mettere ordine nei suoi pensieri. Non si era aspettato una chiamata dal direttore generale in persona. Fece, come meglio poté, una relazione che includeva la ricerca, la sezione degli autistici, la necessità di tagliare le spese, la sua preoccupazione che il piano di Crenshaw potesse avere conseguenze negative sia per la compagnia che per gli impiegati autistici medesimi.

— Vedo — disse Slazik. Aldrin trattenne il fiato. Poi Slazik continuò con la stessa voce calma e strascicata: — Mi dispiace un poco che tu non sia ricorso a me immediatamente. Va bene che sono nuovo da queste parti, però mi piacerebbe davvero molto sapere cosa bolle in pentola prima che la patata bollente mi finisca in faccia.

— Mi dispiace, signore — si scusò Aldrin. — Non lo sapevo. Stavo cercando di lavorare entro la catena di comando…

— Uhm… — Un lungo sospiro. — Be’, capisco il tuo punto di vista, ma il fatto è che a volte capita… di rado ma capita… che uno cerchi di salire un gradino e rimanga col piede in aria, e allora gli conviene sapere quando è il momento di scavalcarli, i gradini. E questo era proprio il momento in cui la cosa sarebbe stata utile… a me.

— Mi dispiace, signore — ripeté Aldrin, col cuore che galoppava.

— Be’, penso che dopo tutto siamo arrivati in tempo — disse Slazik. — Per lo meno la faccenda non è giunta ai media. Mi ha fatto piacere sentire che ti sei preoccupato per il benessere dei tuoi ragazzi almeno come per quello della compagnia. Spero che tu ti renda conto, Pete, che io non permetterei mai nessuna azione illegale o immorale contro i nostri impiegati o i soggetti di ricerca. Sono davvero sorpreso e dispiaciuto che uno dei miei subordinati abbia cercato di fare il fesso in questo modo. — Durante l’ultima frase la voce strascicata s’indurì e assunse il gelo dell’acciaio. Involontariamente Aldrin rabbrividì.

Poi la voce ritornò normale. — Ma questo non è problema tuo. Pete, noi ci troviamo in alto mare con quei tuoi ragazzi. Gli hanno promesso un trattamento e li hanno minacciati di licenziarli, e adesso tu devi salvare la situazione. L’ufficio legale manderà qualcuno a raddrizzare le cose, ma io desidero che tu li prepari.

— Qual è la situazione adesso, signore? — chiese Aldrin.

— È ovvio che il loro posto di lavoro non è in pericolo, se vogliono mantenerlo — disse Slazik. — Qui non si costringe nessuno a fare il volontario; non siamo nell’esercito e questo io lo capisco, anche se qualcun altro non lo capisce. Non dovranno accettare il trattamento per forza. Se però vorranno sottoporvisi, bene. A stipendio intero e senza perdita di anzianità.

Aldrin avrebbe voluto sapere cosa ne sarebbe stato di Crenshaw e di lui stesso, ma non osò.

— Adesso chiamerò Crenshaw per un’intervista — riprese Slazik. — Non parlarne con nessuno, tranne che per rassicurare la tua sezione. Capito?

— Sì, signore.

— Niente pettegolezzi con Shirley della Contabilità o con Bart delle Risorse umane, intesi?

Ad Aldrin mancò il fiato. Quante cose sapeva Slazik? — Sì, signore.

— Dovremo vederci di persona, Pete, quando questa grana sarà risolta.

— Sì, signore.

— Se potrai imparare a sbrigartela un po’ meglio con le complicazioni del sistema, la tua dedizione alla compagnia e al personale… e anche la tua coscienza dei pericoli di certe iniziative per le nostre pubbliche relazioni… potrebbero esserci molto utili. — Slazik riattaccò prima che Aldrin potesse dire qualcosa.

Aldrin tirò un respiro profondo, che gli parve il primo da parecchio tempo. Poi si diresse verso la sezione A.


Non ho più visto Cameron da quando ci ha lasciati la settimana scorsa. Non so quando potrò vederlo ancora. Non mi piace vedere il posto vuoto della sua macchina davanti alla mia. Non mi piace non sapere dov’è e come sta.

I simboli sullo schermo che guardo sono privi di significato, e questa è una cosa che non mi è mai successa. Accendo il ventilatore. Il movimento delle girandole e i bagliori della luce riflessa mi fanno dolere gli occhi. Spengo il ventilatore.

Ho letto un altro libro ieri sera, e vorrei non averlo letto.

Il libro dice che gli autistici tendono a ruminare eccessivamente su questioni filosofiche astratte quasi nello stesso modo in cui lo fanno alcuni psicotici. Facendo riferimento ad altri testi i quali sostengono che gli autistici non hanno un vero senso della propria identità personale, dice che non mancano di autodefinizione, ma che essa è limitata e determinata da regole.

Mi dà un senso di nausea pensare a questo, al chip che metteranno nel cervello di Don e a quanto sta succedendo a Cameron.

Se la mia autodefinizione è limitata e determinata da regole, se non altro è la mia autodefinizione e non quella di qualcun altro. A me piacciono i peperoni sulla pizza e non mi piacciono le acciughe. Se mi costringeranno a cambiare, continueranno a piacermi i peperoni e non le acciughe? E se coloro che mi cambieranno volessero farmi piacere le acciughe… potrebbero farlo?

Il libro sulle funzioni cerebrali dice che le preferenze sono il risultato d’interazioni tra elaborazioni innate degli stimoli e condizionamenti sociali. Se la persona che vuole farmi piacere le acciughe non ha avuto successo con il condizionamento sociale e ha accesso alla mia elaborazione degli stimoli, allora potrebbe rendermi le acciughe gradevoli.

Ricorderò allora che le acciughe non mi piacciono… non mi piacevano?

Il Lou che non ama le acciughe sarà scomparso, e il nuovo Lou che le ama esisterà senza passato. Ma il mio sé è anche il mio passato, e questo include le mìe preferenze a proposito delle acciughe.

Se i miei bisogni verranno soddisfatti, fa differenza di che bisogni si tratterà? C’è differenza tra l’essere una persona che ama le acciughe o una che non le ama? Se ognuno amasse le acciughe o ognuno non le amasse, che differenza farebbe?

Per le acciughe, molta. Se ognuno amasse le acciughe, molte più acciughe morirebbero. Per le persone che vendono acciughe, molta. Se ognuno amasse le acciughe, quelle persone farebbero molti più soldi vendendole. Ma per me, il me che sono ora o il me che potrei diventare, che differenza farebbe? Sarebbe più o meno salubre, più o meno piacevole, più o meno intelligente da parte mia amare le acciughe? Io ho visto altra gente a cui piacciono o non piacciono le acciughe e ho visto che la cosa non incide molto sulla loro personalità. Sotto molti rispetti non importa quali cose piacciano alla gente, quali colori, quali sapori, quale musica.

Chiedermi se desidero essere guarito è come chiedermi se voglio farmi piacere le acciughe. Non riesco a immaginare cosa significherebbe per me amare le acciughe, quale gusto sentirei ad averle in bocca. Gente che ama le acciughe mi dice che hanno un gusto gradevole; gente normale mi dice che essere normale dà una bella sensazione. Ma non possono descrivere quel gusto e quella sensazione in un modo che abbia senso per me.

Ho davvero bisogno di essere guarito? A chi faccio male se non sarò guarito? A me, però solo se mi sentissi a disagio essendo quello che sono, mentre io non mi sento a disagio tranne quando gli altri dicono che non sono uno di loro, che non sono normale. Si suppone che agli autistici non importi ciò che gli altri pensano di loro, ma non è vero. A me importa, e mi ferisce che la gente provi antipatia per me perché sono autistico.

Perfino i fuggiaschi che scappano con null’altro che gli abiti che hanno indosso non perdono i loro ricordi. Possono essere confusi e spaventati, ma hanno sempre se stessi come termine di paragone. Forse non assaggeranno mai più i cibi che amavano, ma possono ricordare quanto erano buoni. Forse non rivedranno mai più la terra che conoscevano, ma possono ricordare di averci vissuto. Possono giudicare se la loro vita è migliore o peggiore paragonandola con le proprie memorie.

Io vorrei sapere se Cameron ricorda il Cameron che era, se pensa che la terra dove ha messo piede è migliore di quella che ha lasciato.

Questo pomeriggio avremo di nuovo una riunione per discutere gli effetti del trattamento. Chiederò chiarimenti su questo.

Guardo l’orologio. Sono le 10.37.18 e finora non ho combinato niente. Ma non voglio portare a termine il progetto al quale sto lavorando. È il progetto di un venditore di acciughe e non il mio.

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