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Il signor Crenshaw è il nuovo dirigente di sezione. Il signor Aldrin, il nostro capo, lo ha accompagnato da noi il primo giorno. Non mi è piaciuto, perché ha la stessa voce falsamente cordiale di un insegnante di educazione fisica che avevamo alla scuola media. Lui pensava che insegnare a noi fosse inutile e sciocco, date le nostre limitazioni, e noi lo odiavamo tutti. Io non odio il signor Crenshaw, ma non provo alcuna simpatia per lui.

Oggi, andando al lavoro, mi fermo a un semaforo rosso a un incrocio; davanti a me c’è un furgoncino blu notte con targa della Georgia. La luce passa al giallo e il furgoncino parte sparato. Prima che io possa pensare "Non farlo!", due altri veicoli saettano dalla direzione opposta, un altro furgone beige con una striscia marrone e un’automobile avana, e il furgone più grande sbatte in pieno contro la fiancata del furgoncino. Il fracasso è spaventoso, i due veicoli girano su se stessi, vetri rotti volano dappertutto… Vorrei sparire entro me stesso, chiudo gli occhi.

Il silenzio torna lentamente, interrotto dai claxon delle macchine che non sanno perché il traffico si è fermato. Apro gli occhi: il semaforo è verde. La gente è uscita dalle automobili, i guidatori dei veicoli coinvolti nell’incidente stanno parlando.

Il codice della strada dice che una persona coinvolta in un incidente deve fermarsi e prestare assistenza; ma io non sono stato coinvolto e ci sono anche troppe persone a dare assistenza. Così do un’occhiata alle mie spalle e lentamente aggiro la scena dell’infortunio. Non sto facendo niente di male: con l’incidente non c’entro e se mi fermassi arriverei tardi al lavoro.

Quando arrivo al campus sono ancora scosso, perciò invece di andare in ufficio vado prima in palestra. Metto su la Polka e Fuga da Schwanda lo Zampognaro, perché ho bisogno di fare grandi rimbalzi per calmarmi. Sono già più rilassato quando entra il signor Crenshaw con la faccia lucida e arrossata.

— Be’, be’, Lou — dice. La sua voce è incerta, come se volesse suonare gioviale mentre in realtà è irritato. — Ti piace molto la palestra, eh?

— Sì, mi piace — rispondo.

— Hai bisogno di qualcosa che qui manca?

— No. — Mi servono tante cose che qui mancano, come cibo, acqua e un posto dove dormire, ma lui intende se mi manca qualcosa di quanto dovrebbe essere in questa palestra e che invece non vi si trova.

— Hai bisogno di quella musica?

Quella musica. Laura mi ha insegnato che quando la gente mette "quello" davanti a un nome implica un certo atteggiamento rispetto al nome stesso. Sto cercando d’immaginare quale atteggiamento abbia il signor Crenshaw rispetto alla musica quando lui continua, come succede spesso, senza aspettare che io risponda.

— È difficile cercar di mantenere un simile assortimento di musiche — dice. — Sarebbe più semplice se accendeste la radio e basta.

— La radio non va bene — rispondo. La sua faccia s’indurisce e capisco che sono sembrato brusco. Cerco di spiegare. — La musica deve adattarsi a me e deve essere quella giusta per produrre l’effetto giusto; e poi dev’essere solo musica strumentale, senza intervento di voce umana. Questo vale per tutti noi. Abbiamo tutti bisogno del tipo di musica che accontenti le nostre esigenze.

— Sarebbe molto bello se tutti potessimo avere la musica che più ci piace — dice il signor Crenshaw. — Ma la maggior parte della gente… — Dal suo tono si capisce che "la maggior parte della gente" per lui significa "la gente normale"… — … la maggior parte della gente si deve accontentare di quello che c’è.

— Capisco — dico, ma in realtà non capisco affatto. Chiunque potrebbe portarsi un player e qualche disco e mettere auricolari quando lo sente, proprio come facciamo noi. — Noi però… noi, gli autistici, gli handicappati… abbiamo bisogno della musica giusta.

Adesso è arrabbiato davvero, ha la faccia contratta e ancora più rossa e lucida. — Benissimo — dice. Ma in realtà vuol dire che deve lasciarci sentire la nostra musica, però se potesse cambierebbe la situazione. Il nostro contratto basta a impedirglielo? Devo chiederlo al signor Aldrin.

Mi occorre altro tempo per calmarmi, e quando finalmente mi siedo alla scrivania vedo che è passata un’ora e quarantasette minuti da quando avrei dovuto cominciare a lavorare. Mi tratterrò dopo l’ora di uscita per recuperare.

Il signor Crenshaw ritorna all’ora di uscita e mi trova a lavorare. Apre la porta senza bussare. Non so quanto tempo è rimasto qui prima che io lo notassi, ma sono sicuro che non ha bussato. Quando dice. — Lou! — io sobbalzo e mi volto.

— Cosa stai facendo? — domanda.

— Lavoro — dico. Cos’altro dovrei fare, lì?

— Lasciami vedere — dice, e si ferma alle mie spalle. Sento i nervi arricciarmisi sotto la pelle: odio avere qualcuno dietro di me. — Questa cos’è? — Indica una linea di simboli separati dai blocchi superiori e inferiori da una riga vuota.

— Dovrà essere il tratto di unione tra questo — indico il blocco superiore — e questo. — Indico il blocco inferiore.

— E quelli cosa sono?

Davvero non lo sa? Allora forse s’irriterà ancora di più quando si accorgerà che io sospetto la sua ignoranza.

— È il terzo livello di un sistema di sintesi a tre livelli.

— Oh, vedo — dice con voce grondante di sarcasmo. Crede forse che io stia mentendo?

— Questo sistema a tre livelli verrà inserito nei codici di produzione — spiego, costringendomi a rimanere calmo. — Così saremo sicuri che l’utente finale potrà definire i parametri di produzione ma non potrà trasformarli in qualcosa di dannoso.

— E tu capisci queste cose? — domanda.

— Sì — rispondo.

— Bene — dice, in un tono falso come quello della mattina. — Hai cominciato tardi oggi — aggiunge.

— Perciò sono rimasto oltre l’orario — spiego. — Ero in ritardo di un’ora e quarantasette minuti. Ho lavorato durante la pausa del pranzo: trenta minuti. Perciò dovrò rimanere per un’altra ora e diciassette minuti.

— Sei onesto — dice, chiaramente sorpreso.

— Sì — rispondo. Non mi volto a guardarlo, non desidero vedere la sua faccia. Dalla porta lancia l’ultima parola.

— Le cose non possono continuare così, Lou. Devono cambiare.

Nove parole. Nove parole che mi fanno rabbrividire dopo che la porta si è chiusa.

Accendo il ventilatore e nell’ufficio cominciano a turbinare riflessi ammiccanti. Continuo a lavorare per un’ora e diciassette minuti. Questa volta non provo la tentazione di trattenermi. È mercoledì, e ho da fare.

Fuori il tempo è abbastanza caldo, un poco umido. Guido con cautela verso casa, mi cambio e mangio una fetta di pizza fredda.


Una delle cose di cui non parlo mai con la dottoressa Fornum è la mia vita sessuale. Lei non crede che io ne abbia una perché quando mi chiede se ho una ragazza o un ragazzo io dico di no. Non mi domanda mai altro, e a me va bene, perché non voglio parlare di quell’argomento con lei.

Mentre finisco la pizza penso a Marjory. Marjory non è la mia compagna, ma io vorrei che fosse la mia ragazza. L’ho incontrata alla scuola di scherma, e questa è un’altra cosa di cui non parlo alla dottoressa. Se si preoccupava delle mie tendenze alla violenza quando le avevo detto del tiro a segno laser, l’idea che io maneggi armi bianche le procurerebbe una crisi isterica. Non dico nulla alla dottoressa di Marjory perché lei allora mi farebbe domande alle quali non voglio rispondere. Così ho due grandi segreti, le spade e Marjory.

Dopo mangiato salgo in macchina per andare a lezione di scherma, in casa di Tom e Lucia; e ci sarà anche Marjory. Vorrei chiudere gli occhi e pensare a lei, ma sto guidando e non è prudente. Penso invece alla musica, alla corale della Cantata n.39 di Bach.

Tom e Lucia hanno una grande casa con un cortile recintato sul retro, molto vasto. Non hanno bambini, benché siano più anziani di me. Hanno molti amici e otto o nove di loro di solito si riuniscono là per praticare la scherma. Non so se Lucia abbia detto a qualcuno, all’ospedale dove lavora, che lei pratica la scherma o che talvolta invita alcuni pazienti a venire da lei per impararla. Credo che l’ospedale non approverebbe. Io non sono l’unica persona sottoposta a supervisione psichiatrica che vada da Tom e Lucia per imparare a battersi con le armi bianche. Una volta glielo domandai e lei rise e disse: — Quello che non si sa non fa male.

Sono cinque anni che pratico la scherma qui. Ho aiutato Tom a pavimentare la zona destinata alla scherma e a costruire, in una stanza sul retro, la rastrelliera dove appendiamo le nostre armi. Io non voglio avere le mie nell’automobile o a casa, perché so che farebbe paura a qualcuno. Tom mi ha detto tante volte che è importante non spaventare nessuno. Ecco perché lascio tutto il mio equipaggiamento in casa di Tom e Lucia, e tutti sanno che il secondo scompartimento a sinistra sulla parete è mio, e anche la mia maschera ha il suo posto abituale nel ripostiglio.

Prima di tutto faccio gli esercizi di stiramento: non li trascuro mai, e Lucia dice che sono un modello per gli altri. Don, per esempio, li fa raramente e poi si lamenta perché gli viene il mal di schiena o gli capita uno stiramento muscolare.

Poi vado a indossare la mia giacca di pelle con le maniche tagliate all’altezza dei gomiti e la mia gorgiera di metallo. Prendo la maschera con dentro i guanti che metto in tasca. Stacco con cura la spada e lo stocco dalla rastrelliera.

Arriva Don di corsa come al solito, tutto sudato e con la faccia rossa. — Ciao, Lou — dice. Io mi faccio da parte perché possa prendere le sue armi dalla rastrelliera. Lui è normale e potrebbe portare la spada in automobile se volesse, senza far paura a nessuno, ma è molto distratto. La dimentica sempre ed è costretto a farsi prestare le armi dagli altri, così Tom gli ha detto di lasciare le sue cose qui.

Esco nel cortile. Marjory non è ancora arrivata. Cindy e Lucia stanno per cominciare un incontro alla spada e Max si sta mettendo l’elmetto di acciaio. Non credo che a me piacerebbe portarne uno; risuonerebbe troppo quando qualcuno lo colpisse.

Viene fuori anche Dan, con portamento spavaldo, la spada sotto il braccio. Si sta abbottonando il suo bel farsetto di pelle. A volte vorrei averne uno anch’io, ma credo che per me sia meglio preferire le cose semplici.

— Hai fatto gli stiramenti? — gli domanda Lucia.

Lui fa spallucce. — Quanto basta.

Lei scuote il capo. — Affari tuoi. — Lei e Cindy danno inizio all’incontro. Mi piace guardarle e rendermi bene conto di quanto stanno facendo. Sono così veloci che fatico a seguirle, ma questo succede anche alle persone normali.

— Ciao, Lou — dice Marjory dietro di me. Mi sento tutto caldo e leggero, come se la gravità fosse diminuita. Per un istante chiudo gli occhi. Lei è bellissima, ma mi è difficile guardarla.

— Ciao, Marjory — dico voltandomi. Lei mi sorride e ha il viso lucido. In principio mi turbava il fatto che quando la gente è molto felice il suo viso diventi lucido, perché anche quando va in collera la gente ha il viso lucido, e io non riuscivo mai a capir bene quale dei due sentimenti provassero. I miei genitori hanno cercato tante volte di spiegarmi la differenza, e alla fine io ho concluso che il modo migliore per orientarsi è fare attenzione alla posizione delle sopracciglia e degli angoli degli occhi. Il viso di Marjory è quello di una persona felice. Lei è felice di vedermi e io sono felice di vederla.

— Ciao, Marj — dice Don, e anche il suo viso è lucido: lui pure pensa che lei sia bella. Io so che quanto provo si chiama gelosia, l’ho letto in un libro. È un sentimento cattivo, e significa che posso diventare invadente. Mi tiro indietro, cercando di essere più discreto, e Don si fa avanti. Marjory però guarda me, non lui.

— Vuoi giocare? — chiede Don, dandomi un colpetto col gomito: vuol dire se voglio esercitarmi con lui. All’inizio non lo capivo, ma adesso sì. Annuisco col capo e ci troviamo un posto per batterci.

Ci giriamo intorno, eseguendo una serie di finte e parate, poi vedo il suo braccio cadere lungo il fianco. Anche questa è una finta? Comunque è un’apertura, e io con una stoccata lo colpisco al petto.

— Mi hai preso — dice lui. — Però il braccio mi fa male davvero.

— Mi dispiace — mi scuso. Lui rotea la spalla, poi di colpo balza in avanti e avventa un affondo contro il mio piede. Non è la prima volta che lo fa, così salto all’indietro e non mi lascio toccare. Continuiamo l’incontro, ma dopo che io l’ho colpito altre tre volte lui fa un sospirone e dice che è stanco. Io sono contento di smettere: preferisco parlare con Marjory.

Lei adesso è seduta accanto a Lucia, che si sta riposando e le sta mostrando delle fotografie. La fotografia è il suo hobby. Mi tolgo la maschera e guardo le due donne; il viso di Marjory è più ovale di quello di Lucia. Don si mette tra me e lei e comincia a parlare.

— Ci stai interrompendo — dice Lucia.

— Oh, spiacente — dice lui, ma rimane dove sta.

— E inoltre stai in mezzo come un palo — continua lei. — Fa’ il piacere di toglierti da davanti agli altri.

Don si volta a guardarmi, sbuffa e si sposta di lato. — Non avevo visto Lou — si scusa.

— Io sì — dice Lucia, e torna a mostrare le foto a Marjory. Don di tanto in tanto la interrompe con commenti. Alla fine Lucia chiude l’album e lo mette sotto la sedia.

— Vieni, Don — dice. — Vediamo come te la cavi con me. — Don fa spallucce e la segue verso uno spazio libero.

— Siediti, Lou — mi invita Marjory. Io siedo sulla sedia lasciata libera da Lucia. — Com’è andata la tua giornata? — chiede Marjory.

— Ho assistito a un incidente — racconto. Lei non mi fa domande, mi lascia parlare. Adesso che ne parlo con lei mi sembra meno accettabile il fatto che me ne sia andato in quel modo dalla scena dell’incidente, ma non volevo far tardi al lavoro.

— Sono cose spiacevoli — commenta lei. Ha una voce calda, distensiva: non una di quelle voci professionalmente rassicuranti, solo una voce gentile e gradevole alle mie orecchie.

Vorrei raccontarle del signor Crenshaw, ma ecco che arriva Tom e mi domanda se voglio fare un incontro. Mi piace battermi con lui. È alto quasi come me, e benché sia più anziano è molto in forma. Di tutto il gruppo, è lo schermidore più bravo.

— Ho visto il tuo incontro con Don — dice. — Eludi i suoi trucchi molto bene, però lui sta peggiorando. Quindi fammi il piacere di esercitarti con qualcuno degli elementi migliori ogni settimana: con me, con Lucia, con Cindy o con Max. Almeno con due di noi per volta, va bene?

"Almeno" vuol dire "non meno di". — D’accordo — dico. Ambedue abbiamo due armi, la spada e lo stocco. La prima volta che cercai di usare due lame non facevo che batterle l’una contro l’altra. Poi cercai di tenerle parallele: in quel modo non s’incrociavano, ma a Tom era facile batterle da parte tutt’e due. Adesso invece so come impugnarle a differenti angolature e altezze.

Giriamo l’uno intorno all’altro, prima in un senso e poi nell’altro. È come una danza: passo, passo, stoccata, parata, passo. Tom dice sempre che non bisogna seguire uno schema nell’attacco, che bisogna essere imprevedibili; ma l’ultima volta che l’ho visto battersi con un altro di noi, mi è sembrato di distinguere uno schema nel suo modo di attaccare apparentemente casuale. Se riesco a restargli fuori portata abbastanza a lungo, forse riuscirò a distinguerlo di nuovo.

Di colpo mi sorge nella mente la musica del balletto Romeo e Giulietta di Prokofiev. I miei movimenti si accordano col suo ritmo e rallentano. Anche Tom rallenta. E adesso posso vederlo, il lungo schema che lui ha elaborato, perché nessuno può mantenere a lungo uno schema davvero irregolare. Continuo a muovermi a tempo con la mia musica e contemporaneamente in sintonia con l’avversario, parando i suoi assalti e osservando le sue parate. Così di colpo so ciò che lui vuol fare, e senza pensarci tiro una botta rovescia e lo colpisco a un lato della testa. Il colpo mi si ripercuote nella mano e nel braccio.

— Ben fatto! — dice Tom. La musica s’interrompe. — Diamine! — esclama scuotendo la testa.

— Ho colpito troppo duro, mi dispiace — dico.

— No, no, è stato un colpo stupendo, dritto attraverso la mia guardia. Non mi è stato possibile nemmeno abbozzare una parata. — Dietro la maschera sta sorridendo beato. — Te l’ho detto che vai migliorando di continuo. Ricominciamo.

La luce occhieggia lungo le lame di Tom, ambedue alzate nel saluto. Per un momento mi abbaglia il suo brillio, la velocità della danza della luce.

Poi ricomincio a muovermi nel buio al di là della luce. Quanto è veloce il buio? L’ombra non può essere più veloce della cosa che la proietta, ma non tutto il buio è ombra… o no? Questa volta non sento musica ma vedo uno schema di luci e ombre che scivolano e ammiccano, archi e spirali di luce su uno sfondo oscuro.

Sto danzando al bordo della luce quando sento un contraccolpo sulla mia mano e nello stesso tempo il colpo della lama di Tom sul mio petto. Dico: — Ben fatto! — quasi all’unisono con lui e ambedue facciamo un passo indietro. Ci siamo uccisi a vicenda.

— Ahi! — Mi volto e vedo Don che si piega in avanti premendosi una mano contro la schiena. Zoppica verso le sedie, ma Lucia ci arriva prima e siede di nuovo accanto a Marjory. Don si ferma, sempre piegato in avanti. Adesso non ci sono più sedie libere, visto che sono arrivati altri schermidori. Infine Don si accoccola sul lastricato, grugnendo e gemendo.

— Dovrò smetterla con questo sport — dice. — Sto diventando troppo vecchio.

— Non sei vecchio, sei pigro — replica Lucia. Non capisco perché si mostri sempre così aspra con Don. Lui è un amico: non è giusto dire cose cattive a un amico, tranne che per scherzo. Don detesta fare gli stiramenti e si lamenta di continuo, ma rimane sempre un amico.

— Vieni, Lou — dice Tom. — Ci siamo ammazzati a vicenda; adesso voglio la rivincita. — Le parole potrebbero esprimere collera, ma la sua voce è gentile e vedo che sorride. Alzo di nuovo le mie armi.

Questa volta Tom fa una cosa che non ha mai fatto: carica. Non sapendo cosa fare, mi giro, defletto la sua spada con la mia e cerco di tirare un affondo con lo stocco. Ma lui si sta muovendo troppo rapidamente, quindi lo manco. Tom alza lo stocco, esegue un allungo e mi colpisce alla sommità della testa.

— Toccato! — dice.

— Come hai fatto? — chiedo.

— È il colpo segreto che riserbo per i tornei — risponde Tom spingendo indietro la maschera. — Qualcuno lo inflisse a me dodici anni fa e io tornai a casa e mi allenai finché non riuscii a farlo bene… adesso però lo uso solo per le gare. Ma tu sei pronto per impararlo. Non è poi tanto difficile. Il trucco è uno solo.

— Ehi, non ho visto bene! — grida Don dall’altra parte del cortile. — Fallo di nuovo!

— Qual è il trucco? — domando.

— Lo dovrai capire da te. Te l’ho fatto vedere, no? Sarò felice se imparerai il mio colpo, ma la dimostrazione che te ne ho fatto basta e avanza.

— Tom, a me però non l’hai mostrato bene. Rifallo — dice Don.

— Tu non sei pronto — risponde Tom. — Dovrai guadagnartelo. — Adesso sembra in collera, come prima Lucia. Cos’ha fatto Don per farli irritare?

Mi tolgo la maschera e vado vicino a Marjory. Dall’alto vedo le luci che si riflettono nei suoi capelli. Mi chiedo cosa si proverebbe a toccarli.

— Prendi il mio posto — dice Lucia. — Voglio fare un altro incontro.

Mi siedo, molto conscio della vicinanza di Marjory. — Oggi non ti batti? — chiedo.

— No, dovrò andarmene presto. La mia amica Karen arriva all’aeroporto e devo andare a prenderla. Sono passata di qui solo per vedere… qualcuno.

Vorrei dirle che sono felice che l’abbia fatto, ma le parole mi restano in gola. — Da dove viene Karen? — domando alla fine.

— Da Chicago. È andata a far visita ai genitori. — Si volge a guardarmi. — Ti fermi molto qui, stasera?

— Non molto — dico. Se lei se ne va, io tornerò a casa.

— Vuoi venire all’aeroporto con me? Poi ti riporterei qui per prendere la tua macchina. Però farai un po’ tardi, l’aereo arriva alle dieci e un quarto.

Andare in auto con Marjory? Sono così sorpreso e felice che per un lungo istante non riesco a muovermi. — Sì — dico. — Sì. — Sento un gran caldo alla faccia.


Mentre andiamo all’aeroporto guardo dal finestrino. Mi sento leggero come se potessi fluttuare nell’aria. — Quando si è felici sembra che la gravità si riduca — dico.

— Leggeri come piume? — Marjory sorride. — È così che ci si sente?

— Non proprio come una piuma, piuttosto come un palloncino — dico.

— Conosco questa sensazione — annuisce lei. Però non dice che si sente così adesso. Io non so come si sente. Le persone normali lo capirebbero, ma io non posso. Più la conosco, più cose non capisco di lei. Non so neppure perché Tom e Lucia sono così cattivi con Don.

— Tom e Lucia sembravano irritati con Don — dico. Marjory mi lancia uno sguardo in tralice.

— Don a volte è una viperetta — risponde.

Don non è una vipera: è una persona. Le persone normali si esprimono così, cambiando il significato delle parole all’improvviso, eppure si capiscono. Io so, perché qualcuno me lo ha detto anni fa, che "vipera" certe volte vuol dire "persona cattiva". Ma se una persona è cattiva e uno vuol dire che è cattiva, perché non lo dice? Perché la chiama "vipera"?

Io però più che altro vorrei sapere perché Tom e Lucia sono in collera con Don. — Ce l’hanno con lui perché non fa gli stiramenti? — domando.

— No. — Adesso anche Marjory sembra irritata e io mi sento desolato. Cosa ho fatto? — Lui è… certe volte è proprio maligno, Lou. Fa dell’umorismo a spese di altri, e non fa ridere nessuno.

Un isolato dopo lei aggiunge a bassa voce: — Fa dell’umorismo su di te, e a noi questo non piace.

Non so cosa dire. Don scherza su tutto, anche su Marjory. A me non piacciono i suoi scherzi, ma non reagisco. Avrei dovuto farlo? Marjory torna a guardarmi e capisco che vuole che io dica qualcosa. Ma cosa?

— I miei genitori dicevano che arrabbiarsi con una persona non la fa comportare meglio — dico infine.

Marjory fa un suono buffo; non so cosa significhi. — Lou, a volte penso che tu sia un filosofo.

— No — dico. — Non sono abbastanza intelligente per essere un filosofo.

Marjory fa di nuovo quel suono.

Siamo arrivati all’aeroporto. Marjory si ferma al parcheggio a breve termine e ci dirigiamo al terminale.

Quando sono solo, mi diverto a vedere i cancelli automatici aprirsi e chiudersi, ma questa sera non ci faccio caso. Marjory si ferma a leggere il cartello degli arrivi e delle partenze. Io ho già visto il volo che dobbiamo aspettare: da Chicago, atterraggio previsto per le 10.15, porta diciassette.

All’entrata di sicurezza per gli arrivi mi sento un poco inquieto. So come si fa, me lo hanno insegnato i miei genitori e l’ho fatto altre volte. Bisogna vuotare le tasche di tutti gli oggetti metallici e metterli in un canestrino, poi si aspetta il proprio turno e si passa sotto un arco. Se nessuno mi fa domande, la cosa è facile. Ma se mi parlano non sempre posso sentir bene ciò che mi dicono: qui c’è troppo rumore, troppi echi rimbalzano in questo ambiente cavernoso.

Marjory passa per prima: mette la borsetta sul nastro trasportatore e le chiavi nel canestrino. Passa sotto l’arco e nessuno le dice niente. Io metto le mie chiavi, il portafogli e il portamonete nel canestrino e passo sotto l’arco. Tutto tranquillo. L’uomo in uniforme mi guarda mentre riprendo le mie cose e me le rimetto in tasca. Mi volto verso Marjory che aspetta qualche metro più in là. Ma l’uomo parla.

— Posso vedere il suo biglietto, per favore? E un documento d’identità?

Un brivido freddo mi scuote. Sono entrate diverse altre persone prima di me e lui non ha chiesto niente a nessuno. E poi non c’è bisogno di un biglietto per entrare nella parte dell’aeroporto riservata agli arrivi; il biglietto si esibisce solo all’entrata riservata alle partenze.

— Non ho un biglietto — dico.

— E un documento d’identità? — insiste l’uomo. Mi fissa e la sua faccia comincia a diventare lucida. Tiro fuori il portafogli e lo apro allo scomparto riservato alla carta d’identità. Lui le dà un’occhiata e poi torna a guardarmi. — Se non ha un biglietto, cosa sta facendo qui? — domanda.

Sento il mio cuore battere forte e un gran calore alla nuca. — Io… io… io…

— Parli, su — dice l’uomo accigliandosi. — O forse è balbuziente?

Io so che non sarò capace di parlare per diversi minuti, ormai. Frugo nel taschino della camicia e tiro fuori un cartoncino che tengo sempre lì. Lo porgo all’uomo che lo legge.

— Autistico, eh? Però lei prima parlava: un secondo fa mi ha risposto. Chi deve incontrare?

Marjory si è mossa e sta arrivando alle spalle dell’uomo. — Qualcosa non va, Lou?

— Non s’impicci, signora — la zittisce l’uomo senza guardarla.

— Quest’uomo è un mio amico — dice lei. — Dobbiamo incontrarci con una persona che arriverà col volo tre-otto-due alla porta diciassette. Non ho sentito suonare l’allarme… — Nella sua voce si sente una vibrazione di collera.

Adesso l’uomo si volge a guardarla e sembra rilassarsi. — Quest’uomo è con lei?

— Sì. C’è qualche problema?

— No, signora… lui sembrava solo un po’ strano. Credo che questo… — alza il cartoncino che ha ancora in mano — spieghi tutto. Ma se è con lei…

— Io non sono la sua guardiana — dice Marjory con lo stesso tono che ha usato quando ha definito Don "una viperetta". — Lou è mio amico.

L’uomo alza le sopracciglia e fa una smorfia; poi mi restituisce il cartoncino e si volta. Io mi allontano con Marjory, che cammina con un passo un po’ troppo veloce. Non diciamo nulla finché non arriviamo al salone d’aspetto per le porte da quindici a trenta.

Dalle grandi finestre si vede la pista che scintilla di luci: luci verdi e rosse sulle punte delle ali degli aeroplani, file di luci quadrate e più opache lungo i loro fianchi, a indicare dove sono i finestrini, fari dei piccoli veicoli che tirano i carrelli dei bagagli. Luci ferme e luci ammiccanti.

— Adesso puoi parlare? — chiede Marjory mentre io guardo le luci.

— Sì. — Posso sentire il suo calore… lei mi è molto vicina. Socchiudo gli occhi un momento. — Vedi, talvolta rimango confuso. — Indico un aereo che si sta dirigendo verso una porta. — È quello il nostro?

— Credo di sì. — Fa un passo di lato e adesso mi sta davanti. — Stai bene?

— Sì. Sai… certe volte mi succede così. — Mi imbarazza il fatto che mi sia accaduto stasera, la prima volta che sono solo con Marjory. Ricordo quando mi succedeva al liceo, le volte che volevo parlare con qualche ragazza che non voleva parlarmi. Adesso anche Marjory se ne andrà? Potrei prendere un taxi per tornare da Tom e Lucia, ma non ho molto denaro con me.

— Sono contenta che tu stia bene — dice lei, e poi la porta si apre e la gente comincia a uscire dall’aeroplano. Lei cerca con gli occhi Karen e io guardo lei. Eccola: Karen è una donna piuttosto anziana, dai capelli grigi. Presto siamo di nuovo fuori e in macchina, diretti a casa di Karen. Io siedo zitto sul sedile posteriore e ascolto Marjory che parla con l’amica: le loro voci fluiscono e mormorano come acqua sulle rocce. Non posso seguire ciò che dicono, parlano troppo in fretta per me e poi non conosco le persone e i luoghi di cui parlano. Ma sono felice lo stesso, perché posso guardare Marjory senza bisogno di dover parlare.

Quando torniamo alla casa di Tom e Lucia, dov’è la mia macchina, Don se n’è andato e gli ultimi schermidori si stanno congedando. Io ricordo che non ho riposto le mie armi e la maschera ed esco in cortile per prenderle, ma Tom mi dice che sono state già rimesse al loro posto. Non sapeva precisamente quando io e Marjory saremmo tornati e non voleva lasciare la mia roba fuori al buio.

Saluto Tom, Lucia e Marjory e mi dirigo verso casa.

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