Siamo a venerdì pomeriggio, ma il signor Crenshaw ancora non ha detto nulla circa il trattamento sperimentale. Forse il signor Aldrin si è sbagliato, o forse è riuscito a persuadere il suo capo a lasciarci in pace. Su Internet si vanno svolgendo un sacco di discussioni, per lo più nelle nostre chat-line, ma nessuno sembra sapere se e quando si sia deciso di passare a esperimenti sugli esseri umani.
Io non ho detto nulla di ciò che ci ha comunicato il signor Aldrin. Lui non si è raccomandato di non parlarne, ma a me sembra giusto così. Se il signor Crenshaw ha cambiato idea, lui certo andrà in collera. Già sembra in collera anche adesso, comunque, ogni volta che viene a controllare il nostro lavoro.
Al planetario proiettano il documentario Esplorazione dei pianeti esterni e dei loro satelliti. È già qualche giorno che lo danno, e ciò significa che non ci sarà molta folla, anche se oggi è sabato. Io vado presto, alla prima proiezione che è sempre quella meno affollata, anche nei giorni di pienone. Infatti solo un terzo dei posti è occupato, così io, Eric e Linda possiamo avere un’intera fila tutta per noi.
La parte più noiosa dello spettacolo è la lunga introduzione, dove si parla di quanto sapevamo cent’anni fa, cinquant’anni fa eccetera. A me interessa sapere ciò che sappiamo oggi, non ciò che è stato detto ai miei genitori quando andavano a scuola. Che differenza fa se in passato si credeva che ci fossero canali su Marte?
Finalmente il programma abbandona la storia e viene al presente. Le ultime foto dei pianeti esterni trasmesse dalle sonde spaziali sono spettacolari; le riprese in alta quota mi danno l’impressione di stare per cadere dal mio sedile nel pozzo gravitazionale di un pianeta dopo l’altro. Oh, quanto vorrei essere lì. Da piccolo, quando vidi per la prima volta documentali di gente nello spazio, desiderai essere un astronauta; ma so che è impossibile. Anche se mi sottoponessi al nuovo trattamento chiamato "Lungavita" e potessi vivere abbastanza a lungo, rimarrei sempre autistico. Mia madre diceva sempre: "Non piangere sulle cose che non puoi cambiare".
Il documentario non mi dice nulla che non sapessi già, però mi piace lo stesso. Dopo lo spettacolo sento fame: è già passata la mia solita ora di pranzo.
— Potremmo mangiare qualcosa — dice Eric.
— Io vado a casa — rispondo. — Ho della buona carne a casa, e mele che non si manterranno fresche ancora a lungo.
Eric annuisce e se ne va.
La domenica vado in chiesa. L’organista suona Mozart prima che cominci il servizio, e la musica s’intona perfettamente al cerimoniale del rito. Il coro canta una gradevole antifona di Rutter. Rutter non mi piace quanto Mozart, però almeno non mi fa dolere la testa.
Lunedì fa più fresco: tira una brezzolina fredda di nordest. La temperatura non è abbastanza bassa da dover mettere un maglione o una giacca, ma si capisce ormai che il peggio dell’estate è passato.
Martedì fa di nuovo caldo. Tutti i martedì io vado a fare la spesa. I supermercati sono meno affollati il martedì, anche se esso coincide con il primo del mese.
Quando ero bambino, ci dicevano che presto i supermercati sarebbero spariti, che tutti avrebbero ordinato la spesa su Internet e l’avrebbero ricevuta a domicilio; ma non è andata così. Ci sono ancora posti che ricevono le ordinazioni e fanno le consegne in questo modo, ma dalle nostre parti i negozi adibiti alla spesa in rete sono scomparsi uno dopo l’altro. Mia madre comunque diceva che per me era importante l’esperienza di andare a far compere.
Quando le persone nei supermercati fanno la spesa da sole, spesso hanno un’aria preoccupata e concentrata, e ignorano chi sta loro intorno. La mamma mi ha insegnato l’etichetta sociale del mercato, e adesso la padroneggio con sufficiente disinvoltura nonostante il rumore e la confusione. Siccome nessuno si sogna di fermarsi a chiacchierare con estranei, tutti evitano il contatto visivo e quindi è facile guardarli di sottecchi senza che loro se ne offendano. Però è cortesia guardare per un momento negli occhi la persona che prende il tuo denaro o la carta di credito. È educato inoltre fare qualche commento sul tempo, anche se la persona che si ha accanto nella fila ha detto quasi la stessa cosa, ma tanto nessuno ci fa caso.
Certe volte io mi chiedo quanto sono normali le persone normali, e ciò mi capita più spesso del solito nei supermercati. Quando ci tenevano lezioni di pratica della vita quotidiana, c’insegnavano a fare una lista e a passare direttamente da una corsia all’altra acquistando uno dopo l’altro tutti gli articoli di cui avevamo preso nota. Il nostro insegnante ci consigliava di controllare prima i prezzi sui giornali, piuttosto che paragonare i costi dei vari articoli tirandoli fuori dagli scaffali direttamente nel supermercato. Lui ci diceva, e io lo credevo, che ci stava insegnando il modo in cui la gente normale fa la spesa.
Ma all’uomo che blocca la corsia di fronte a me non è stata fatta questa lezione. Sembra una persona normale, eppure sta tirando fuori uno per uno i vasetti di varie marche di sughi per pasta, confrontando i prezzi e leggendo le etichette. Dietro di lui una donnetta dai capelli grigi e con gli occhiali sta cercando di esaminare lo stesso scaffale sbirciando di lato. Credo che lei voglia uno dei vasetti che stanno dalla mia parte, ma l’uomo si è messo di mezzo e la donna non vuole disturbarlo. Io nemmeno. Ha la faccia imbronciata, è accigliato e quasi torvo. Probabilmente è irritato. Io e la donna dai capelli grigi sappiamo che una persona che ha quell’aspetto potrebbe fare una scenata se disturbata.
Di colpo l’uomo alza gli occhi e coglie il mio sguardo. Arrossisce e sembra ancor più irritato. — Lei avrebbe potuto dire qualcosa! — sbotta tirando da parte il suo carrello e bloccando ancor di più la donna dai capelli grigi. Io le sorrido e mi sposto; lei gli gira intorno col carrello e finalmente posso passare.
— Ma è idiota — sento l’uomo brontolare. — Perché non li fanno tutti dello stesso formato?
Mi astengo dal rispondergli, benché ne senta la tentazione. Se la gente parla, si aspetta che qualcuno ascolti. A me hanno insegnato a far attenzione e ad ascoltare quando mi parlano, e mi sono addestrato a farlo quasi sempre. Ma in un supermercato spesso la gente non si aspetta una risposta e magari si arrabbia se uno risponde. Quell’uomo è già abbastanza in collera. Mi sento battere il cuore.
Adesso davanti a me ci sono due bambini che ridacchiano e tirano fuori dallo scaffale pacchetti di condimenti. Una giovane donna in jeans si volta da poco più in là e strilla: — Jackson! Misty! Smettetela! — Io sobbalzo. Lo so che lei non sta parlando con me, ma il suo tono di voce basta a farmi rabbrividire. Uno dei bambini, proprio accanto a me, si mette a strepitare e l’altro dice: — No! — La donna, col viso contratto dalla collera, si precipita verso di loro passandomi vicino. Sento uno dei bambini frignare, ma non mi volto. Vorrei dire: — State buoni, state buoni — ma non sono affari miei. Non sta bene dire a estranei di star buoni se non si è un genitore o un insegnante. Adesso sento altre voci, prevalentemente femminili. Qualcuno sgrida la donna con i bambini. Io sgattaiolo in una corsia laterale, col cuore in tumulto.
Arrivo in una corsia dove sono esposte diverse marche di vino e mi rendo conto che ho oltrepassato la corsia che volevo. Guardo con precauzione da tutte le parti prima di tornare indietro.
Io vado sempre nel reparto delle spezie, sia che ne abbia bisogno o no. Quando non c’è gente… e oggi non ce n’è… mi soffermo e mi permetto di assaporare le fragranze. Posso sentire il gradevole miscuglio di profumi delle spezie e delle erbe aromatiche, che coprono perfino gli odori dei detersivi e quello di gomma americana di alcuni bambini non lontani. Canella, cumino, chiodi di garofano, maggiorana, noce moscata… perfino i nomi sono deliziosi. Mia madre in cucina adoperava sia spezie che erbe e mi lasciava odorarle tutte. Alcune in verità non mi piacevano, ma per la maggior parte sapevano di buono. Oggi mi serve il chili, e non ho bisogno di cercarlo: so dove si trova sullo scaffale, una scatoletta bianca e rossa.
Mi sento di colpo madido di sudore: Marjory è proprio davanti a me, ma non mi ha notato perché sta osservando qualcosa con molta attenzione. Ha aperto un contenitore di spezie… quale, mi chiedo, finché una corrente d’aria mi porta l’inconfondibile fragranza dei chiodi di garofano. I miei preferiti. Mi volto in fretta e cerco di concentrarmi sugli scaffali di colori da pasticceria, frutta candita e articoli per la decorazione di torte. Non capisco perché li abbiano messi nella stessa corsia delle spezie, ma stanno lì.
Lei mi vedrà? E se mi vede, mi parlerà? O dovrei essere io a parlarle? Mi sento la lingua gonfia. Qualcuno mi si sta avvicinando. Sarà lei o qualcun altro? Se davvero stessi meditando di far spese non mi volterei. Però non ho nessun bisogno di decorazioni da torte o di ciliegie candite.
— Ciao, Lou — dice la voce di Marjory. — Vuoi fare un dolce?
Mi giro a guardarla. Non l’ho mai vista tranne che in casa di Tom e Lucia o nell’automobile quando siamo andati all’aeroporto. Non l’avevo mai vista prima in questo supermercato. Non è questo lo sfondo che le si addice… o forse lo è, ma io non lo sapevo. — Stavo solo guardando — dico. Mi è difficile parlare. Odio il sudore che ancora mi sprizza dai pori.
— Quella roba ha dei bei colori — dice lei con voce non molto interessata… ma almeno non si è messa a ridere. — Ti piace la torta di frutta candita?
— No — rispondo, inghiottendo il grosso nodo che ho in gola. — Credo… credo che i suoi colori siano più belli del sapore. — Ho usato la parola sbagliata: i sapori non sono belli o brutti… ma ormai è troppo tardi per scegliere un altro termine.
Lei annuisce con espressione seria. — Anch’io la penso così. La prima volta che ho mangiato la torta di frutta candita, quando ero piccola, mi aspettavo che avesse un sapore speciale perché era così bella e variopinta. Invece… non mi piacque.
— Fai… fai spesso la spesa qui? — chiedo.
— Di solito no — risponde Marjory. — Ma sto andando a casa di un’amica che mi ha chiesto di comprare qualcosa per lei. — Mi guarda, e di nuovo mi rendo conto di quanto sia difficile parlare. È difficile perfino respirare, e mi sento tutto appiccicoso per il sudore che mi gocciola giù per la schiena. — Tu invece vieni qui regolarmente?
— Sì — dico.
— Allora forse mi sai dire dove posso trovare il riso e la carta di alluminio — chiede lei.
Per un momento la mia mente si svuota, poi ricordo. — Il riso è a metà della corsia tre. E la carta di alluminio è nella diciotto…
— Oh, per favore — dice lei sorridendo — fammeli vedere. Ho l’impressione di essere andata in giro qui intorno per almeno un’ora.
— Farteli vedere? Ah… accompagnarti. — Per un istante mi sono sentito sbalestrato: ma naturalmente è questo che lei voleva dire. — Vieni — la invito, girando il mio carrello e prendendomi un’occhiataccia da parte di una donna con un carrello straripante di roba. — Scusi — le dico, ma lei mi sorpassa senza rispondere.
— Ti vengo dietro, così non daremo fastidio a nessuno — propone Marjory.
Io annuisco e mi dirigo prima verso il riso che è più vicino, visto che siamo nella corsia sette. Marjory mi segue e sapere questo mi dà un senso di calore alla schiena, come se la illuminasse un raggio di sole. Sono contento che lei non possa vedere la mia faccia: sento un gran calore anche lì.
Mentre Marjory passa in rassegna le confezioni di riso… riso in sacchetti, in scatole, a grani lunghi e corti, integrale e in combinazione con altre cose, e lei non sa con precisione quale tipo di riso le serve… io la guardo. Ha le ciglia molto lunghe e quasi nere. I suoi occhi hanno screziature di diversi colori intorno all’iride, e ciò li rende più interessanti.
La maggior parte degli occhi hanno più di un colore, spesso diverse sfumature di uno stesso colore: gli occhi azzurri possono essere insieme azzurro chiaro e azzurro scuro, o azzurro e grigio, o azzurro e verde, e a volte possono avere perfino qualche screziatura marrone. La maggior parte della gente non ci fa caso. La prima volta che andai a chiedere la mia carta d’identità, il modulo a un certo punto chiedeva di che colore avessi gli occhi. Io cercai di descrivere tutti i colori dei miei occhi, ma lo spazio non era sufficiente. L’impiegato mi disse di scrivere "castani", e io lo feci, ma non è quello l’unico colore dei miei occhi. È solo il colore che la gente vede perché non guarda veramente gli occhi degli altri.
Mi piacciono gli occhi di Marjory perché sono i suoi occhi e perché mi piacciono tutti i colori che hanno. Mi piacciono anche tutti i colori dei suoi capelli. Probabilmente lei scrive "castani" nei moduli che richiedono il colore dei suoi capelli, ma essi hanno tanti colori differenti, più ancora dei suoi occhi. Sotto le luci del supermercato ne hanno meno che alla luce del giorno… per esempio perdono le sfumature color mogano, ma io so che ci sono.
— Ecco qui — dice, scegliendo una scatola di riso a grani lunghi e a cottura rapida. — E adesso cerchiamo l’alluminio! — Sorride.
Le restituisco il sorriso. Le faccio da guida alla corsia diciotto, che verso la metà ospita piatti di plastica, rotoli di pellicola, carta oleata e carta di alluminio.
— Fatto — dice Marjory. Ha fatto più in fretta a scegliere la carta che a scegliere il riso. — Grazie, Lou, sei stato proprio bravo.
Devo indirizzarla alla cassa veloce? Credo di sì, lei ha detto di avere fretta. Gliela indico, e lei annuisce.
— Adesso devo correre, Lou — dice. — Avevo appuntamento con Pam per le sei e un quarto. — Sono le 18.07: se Pam abita lontano, Marjory farà tardi.
— Arrivederci — la saluto, e la guardo mentre si allontana in fretta lungo la corsia, evitando agilmente gli altri compratori.
— Così questa è lei — dice qualcuno dietro di me. Mi volto: è Emmy. Sembra arrabbiata, come al solito. — Non è poi così bella.
— Io credo che sia bella — dico.
— Si capisce — dice Emmy. — Sei arrossito.
Mi sento ardere la faccia. Può darsi che sia arrossito, ma Emmy non doveva dirlo. Non è educato fare commenti in pubblico sull’espressione di qualcuno. Non rispondo.
— Suppongo penserai che lei è innamorata di te — insiste Emmy con voce ostile. Io posso capire che lei pensa sia vero ciò che ha detto e pensa anche che io mi sbagli, cioè che Marjory non sia affatto innamorata di me. Mi dispiace che Emmy pensi questo, ma sono anche contento di aver capito il significato di ciò che lei pensa da quello che ha detto e da come lo ha detto. Anni fa non lo avrei compreso.
— Non saprei — rispondo mantenendo la voce bassa e calma. Poco lontano da noi, una donna si è fermata con una mano su un pacco di piatti di plastica e ci guarda. — Tu non sai quello che penso — dico a Emmy — e non sai nemmeno quello che pensa lei. Stai cercando di leggere nella nostra mente e questo è sbagliato.
— Tu credi di essere tanto furbo solo perché lavori con i computer e la matematica — replica Emmy. — Ma non sai proprio nulla della gente.
So che la donna più in là nella corsia si sta avvicinando e ci ascolta. Mi sento inquieto. Noi non dovremmo parlare così in pubblico, non dovremmo farci notare. Dovremmo confonderci con l’altra gente, sembrare persone normali. Ma se cerco di dire questo a Emmy, lei si arrabbierà ancora di più. Potrebbe perfino alzare la voce. — Devo andare — dico. — Ho fatto tardi.
— Per che cosa, per un appuntamento? — domanda lei. Pronuncia la parola "appuntamento" più forte delle altre e con un’inflessione pesantemente interrogativa: questo significa che vuol essere sarcastica.
— No — dico con voce calma. Se rimango calmo lei forse mi lascerà in pace. — Devo guardare la TV. Guardo sempre la TV il… — Di colpo la mia mente si vuota: non riesco a ricordare in che giorno della settimana ci troviamo. Mi volto, come se avessi finito la frase. Emmy scoppia in una risata aspra, ma non dice altro che io possa sentire. Ritorno in fretta allo scaffale delle spezie e prendo la mia confezione di chili. Vado alle casse e vedo che ci sono file dappertutto.
Nella mia ci sono davanti a me cinque persone, tre donne e due uomini: uno ha capelli chiari e quattro li hanno scuri. Un uomo ha un pullover celeste, quasi dello stesso colore di una scatola che ha nel carrello. Cerco di pensare solo ai colori, ma c’è troppo rumore e le luci del supermercato fanno sembrare i colori diversi da come sono in realtà… cioè, da come sono alla luce del giorno. Anche il supermercato fa parte della realtà. Le cose che non mi piacciono fanno parte della realtà proprio come le cose che mi piacciono.
Però è più facile pensare alle cose che mi piacciono piuttosto che alle altre. Pensare a Marjory e al Te Deum di Haydn mi rende felice; invece se mi permetto di pensare a Emmy, anche per un istante, la musica diventa stridula e sgradevole e io ho voglia di scappare. Fisso la mia mente su Marjory, come fosse una pratica di lavoro, e la musica danza, lieta e spensierata.
— Quella è la sua ragazza?
M’irrigidisco e faccio per voltarmi. È la donna che stava guardando me ed Emmy: si trova dietro di me nella fila. I suoi occhi luccicano sotto il neon del supermercato, il rossetto le si è seccato agli angoli delle labbra in crosticine di un arancione scuro. Mi sorride, ma il suo non è un bel sorriso: è duro e si limita alla bocca. Non dico nulla e lei riprende a parlare.
— Non ho potuto fare a meno di notarvi. La sua amica era talmente irritata. Lei è un po’… diversa, vero? — Mette in mostra un po’ più di denti.
Non so cosa rispondere. Ma dovrei dire qualcosa, altra gente nella fila ci sta guardando.
— Non vorrei essere scortese — insiste la donna, strizzando gli occhi. — Solo che… ho notato il modo in cui lei parlava.
La vita di Emmy è la vita di Emmy. Non è la vita di questa donna. Lei non ha il diritto di sapere cosa c’è in Emmy che non va… ammesso che ci sia qualcosa.
— Dev’essere dura per gente come voi — dice la donna. Volge la testa, fissa le persone della fila che ci stanno guardando e fa un risolino. Non so cosa trovi di buffo in questa situazione. Io non credo ci sia nulla di buffo. — Gestire un rapporto è già difficile per il resto di noi — continua la donna, che adesso non sorride più. Ha invece la stessa espressione della dottoressa Fornum quando mi sta spiegando qualcosa che vuole farmi fare. — Per voi dev’essere peggio.
L’uomo dietro di lei ha in viso una strana espressione, ma non potrei dire se è d’accordo con la donna o no. Vorrei che qualcuno le dicesse di star buona. Se glielo dicessi io, sarebbe scortesia.
— Spero di non averla disturbata — insiste lei a voce più alta, alzando le sopracciglia. Sta aspettando che io le dia la risposta giusta.
Io penso che non ci sia una risposta giusta. — Io non la conosco — dico, mantenendo la mia voce molto bassa e calma. Ciò che voglio dire è: "Io non la conosco e non voglio parlare di Emmy o Marjory o di argomenti personali con qualcuno che non conosco".
La faccia della donna si contrae, e io mi volto in fretta. Dietro di me sento un — Però! — soffocato, e ancora più dietro una voce maschile che mormora: — Le sta bene. — Credo sia l’uomo dietro la donna, ma non voglio volgermi a guardare. Prima di me adesso ci sono solo due persone: io tengo gli occhi fissi in avanti senza vedere nulla in particolare e cerco di sentire di nuovo la musica, ma non ci riesco. Non sento altro che rumori.
Quando esco, il caldo e l’umidità sembrano più opprimenti di quando sono entrato. Sento tanti, troppi odori: delle confezioni di dolcetti buttate via, delle bucce di frutta, dei deodoranti e dei profumi della gente, dell’asfalto rovente, dei tubi di scarico delle macchine. Appoggio i miei sacchetti sul cofano dell’auto mentre apro lo sportello per salire.
— Ehi — dice qualcuno. Sobbalzo e mi volto: è Don. Non mi aspettavo di vederlo qui. Non mi aspettavo di vedere neanche Marjory. Mi chiedo se altri colleghi della scuola di scherma facciano la spesa qui. — Ciao, amico — dice lui. Porta una camicia di maglia a righe e calzoni scuri. Non ho mai visto Don vestito così: quando viene da Tom porta o una T-shirt e i jeans o il costume.
— Ciao, Don — saluto. Non desidero parlare con lui, anche se è un amico. Fa troppo caldo e devo portare la mia spesa a casa e riporla. Prendo il primo sacchetto e lo metto sul sedile posteriore.
— È qui che vieni a far la spesa? — chiede lui. È una domanda sciocca, visti i sacchetti delle cose che ho acquistate. O pensa che le abbia rubate?
— Vengo tutti i martedì — dico.
Assume un’espressione disapprovante. Forse pensa che martedì non sia un giorno adatto per fare la spesa… ma allora lui cosa ci fa qui? — Verrai a esercitarti alla scherma domani? — domanda.
— Sì — dico. Carico l’ultimo sacchetto e chiudo lo sportello posteriore.
— Andrai a quel torneo? — Mi sta guardando in un modo da farmi desiderare di distogliere gli occhi dai suoi.
— Sì — rispondo — ma adesso devo andare a casa. Il latte dovrebbe essere mantenuto a una temperatura di cinque gradi o meno, e qui nel parcheggio ce ne saranno più di trenta. Il mio latte potrebbe rovinarsi.
— Segui un’autentica routine, eh? — dice Don.
Non concepisco cosa potrebbe essere una routine falsa.
— Fai le stesse cose tutti i giorni?
— Non le stesse cose tutti i giorni — spiego — ma piuttosto le stesse cose negli stessi giorni.
— Oh, davvero? Bene, ci vediamo domani, ragazzo metodico — dice, e scoppia a ridere. È una risata strana, come se Don non si stesse divertendo affatto. Io apro lo sportello ed entro in auto; lui non aggiunge altro e non se ne va. Quando accendo il motore si stringe nelle spalle, una contrazione brusca come se qualcosa lo avesse punto.
— Arrivederci — dico io educatamente.
— Già, ciao. — Rimane ritto lì mentre io parto. Nello specchio retrovisore lo vedo rimaner fermo finché non svolto nella strada. Dopo la svolta torno a guardare e vedo che Don non c’è più.
Il mio appartamento è più calmo che fuori, ma non è completamente silenzioso. Sotto di me il poliziotto Danny Bryce ha la TV accesa e sta seguendo un programma di quiz. Al piano di sopra la signora Sanderson sta trascinando sedie nella cucina: lo fa tutte le sere. Sento anche il ticchettio della mia sveglia e il ronzio del computer. Entrano anche rumori da fuori: lo sferragliare di un treno, il rombo attenuato del traffico, voci dal cortile.
Quando sono depresso mi è difficile ignorare i rumori. Se metto la mia musica, essa li coprirà, ma i rumori resteranno sempre lì, come giocattoli spinti sotto un tappeto. Ripongo in frigo le cose deperibili, dopo aver asciugato con cura l’esterno del contenitore del latte; poi metto la mia musica. Molto piano, non devo disturbare i vicini. È Mozart, e di solito non manca di fare il suo effetto. Sento infatti la tensione abbandonarmi pian piano.
Non so perché quella donna mi abbia rivolto la parola: non avrebbe dovuto farlo. Un supermercato è terreno neutrale, non si parla con gli estranei. Io ero al sicuro finché lei non mi ha notato; ma se Emmy non avesse parlato così forte, la donna non avrebbe fatto attenzione a noi. È stata lei a dirlo. Io già non avevo molta simpatia per Emmy, ma adesso mi sento davvero turbato se penso a ciò che lei ha detto e a ciò che ha detto quella donna.
I miei genitori dicevano che non avrei dovuto biasimare la gente quando notava che io ero diverso. Quindi non dovrei biasimare Emmy: dovrei invece osservare me stesso e pensare a quanto è successo.
Ma non desidero farlo. Io non ho fatto nulla di male. Avevo bisogno di fare la spesa, quindi ero al supermercato per il giusto motivo. Mi stavo comportando bene: non parlavo con estranei e non parlavo a voce alta con me stesso. Non prendevo nelle corsie più spazio di quello che mi spettava. Marjory è mia amica, perciò non era sbagliato da parte mia parlare con lei e aiutarla a trovare il riso e la carta di alluminio.
È stata Emmy a sbagliare. Ha parlato a voce troppo alta e per questo si è fatta notare dalla donna. Ma anche così, la donna avrebbe dovuto badare ai fatti suoi. E se Emmy ha parlato a voce troppo alta, non è stata colpa mia.