L’autopattuglia sbandò da una parte e si fermò contro la parete impersonale dell’autostrada. Cessato il ronzio del motore, il silenzio era fitto e pesante.
Baley guardò il robot accanto a lui e disse in tono stranamente tranquillo: «Cosa?».
Baley aspettava una risposta e i secondi passavano. Una piccola vibrazione solitaria crebbe, raggiunse l’apice e svanì. Era il rumore di un’altra autopattuglia, che arrancava diretta chissà dove, forse a un chilometro e mezzo di distanza. O forse era un carro dei pompieri che si recava al suo appuntamento incendiario.
Una parte del cervello di Baley si chiese se qualcuno conoscesse tutte le strade che si snodavano nelle viscere di New York. A nessun’ora del giorno e della notte dovevano essere completamente deserte, eppure esistevano diramazioni e deviazioni che nessuno percorreva da anni. Con improvvisa, folgorante chiarezza ricordò un racconto che aveva visto da ragazzo.
Riguardava le strade di Londra e cominciava abbastanza tranquillamente con un delitto. L’assassino correva verso un nascondiglio prestabilito, all’angolo di una strada nella cui polvere le impronte dei suoi piedi erano il primo segno lasciato da secoli. In quel buco abbandonato avrebbe potuto aspettare finché le ricerche del colpevole fossero state abbandonate.
Ma aveva svoltato all’angolo sbagliato: nel silenzio e nella solitudine delle strade tortuose aveva mandato una bestemmia giunta fino al cielo, in cui giurava che a dispetto della Trinità e di tutti i santi avrebbe raggiunto ugualmente la sua tana.
Da quel momento in poi aveva sbagliato tutte le strade. I suoi tentativi l’avevano sprofondato in un dedalo di tunnel e corridoi che dal settore di Brighton, sulla Manica, l’avevano sospinto a Norwich e poi a Coventry e a Canterbury. Senza fine aveva errato nelle viscere della grande Città di Londra, percorrendo da capo a capo il settore sudorientale dell’Inghilterra. I vestiti si erano ridotti a stracci e le scarpe a semplici fasce, ma la forza, per quanto ridotta, non lo abbandonava del tutto. Era stanco ma incapace di fermarsi. Poteva solo andare avanti e affrontare un nuovo incrocio, inevitabilmente sbagliato.
A volte sentiva il rumore di un veicolo, ma sempre nel corridoio vicino; e per quanto corresse in fretta (perché si sarebbe costituito volentieri, ormai) i corridoi che raggiungeva erano immancabilmente deserti. A volte vedeva un’uscita e sperava che portasse alla vita, al respiro della Città, ma più si affrettava e più quella si faceva lontana, finché svoltava di nuovo… ed era persa.
A volte i funzionari incaricati di qualche missione nella rete sotterranea vedevano una figura nebbiosa zoppicare silenziosa verso di loro, un braccio semitrasparente alzarsi in preghiera, una bocca aprirsi e muoversi, restando muta. E dopo essersi avvicinata un poco la figura ondeggiava e spariva.
Era un racconto che aveva perso gli attributi della normale narrativa ed era entrato nel folklore. "Il londinese errante" era un personaggio conosciuto in tutto il mondo.
Nelle profondità di New York Baley ricordò la storia e si sentì a disagio.
In quel momento R. Daneel disse qualcosa e le sue parole furono accompagnate da una leggera eco: «Qualcuno potrebbe udirci».
«Qua sotto? Nemmeno per idea. Parlami del questore, adesso.»
«Era sulla scena, Elijah. È un abitante della Città, quindi era logico metterlo fra gli indiziati.»
«Sospettate ancora di lui?»
«No, la sua innocenza è stata provata in modo irrefutabile: non gli si è trovato il fulminatore e non c’è rischio che ci sia sfuggito. Enderby è entrato a Spacetown dalla solita via, e, come sai, le armi vengono tolte a tutti.»
«A proposito, si è rintracciato l’arma del delitto?»
«No, Elijah. Abbiamo controllato tutti i fulminatori esistenti a Spacetown e abbiamo scoperto che nessuno è stato usato da settimane. Un esame dei tamburi radioattivi è stata la prova conclusiva.»
«Quindi chi ha commesso il delitto ha nascosto bene la sua arma, oppure…»
«Non può trovarsi a Spacetown. Le nostre ricerche sono state capillari.»
Spazientito, Baley disse: «Cerco di considerare tutte le eventualità. O è stata nascosta o l’assassino l’ha portata con sé quando se n’è andato».
«Proprio così.»
«E se si ammette la seconda possibilità, il questore è scagionato.»
«Appunto. Come semplice precauzione gli abbiamo fatto un’analisi cerebrale.»
«Una cosa?»
«Per analisi cerebrale intendo l’interpretazione dei campi elettromagnetici delle cellule vive del cervello.»
«Oh» fece Baley, che era al punto di prima: «E cosa vi ha rivelato?»
«L’esame fornisce informazioni sulla stabilità emotiva del soggetto. Nel caso del questore Enderby, ci ha rivelato che sarebbe stato incapace di uccidere il dottor Sarton. Proprio incapace.»
«Già» convenne Baley «non è il tipo. Avrei potuto dirvelo io.»
«È meglio avere informazioni obbiettive. Naturalmente, la popolazione di Spaceto’wn è stata sottoposta allo stesso esame.»
«E scommetto che è risultata tutta incapace.»
«Infatti. Per questo sappiamo che l’assassino dev’essere un abitante della Città.»
«Allora non ci resta che analizzare la popolazione di New York.»
«Non sarebbe molto pratico, Elijah. Potremmo scoprire milioni di individui potenzialmente capaci dell’atto.»
«Milioni» borbottò Baley pensando alla.calca che in giorni lontani si era ammassata sotto la Barriera per gridare maledizioni agli Spaziali; o alla folla minacciosa davanti al negozio di scarpe, la sera prima.
Pensò: "Povero Julius! Un indiziato!".
Gli parve di sentire la voce del questore che descriveva le sue emozioni dopo il ritrovamento del cadavere: "Una cosa brutale, brutale." Nessuna meraviglia che lo shock e il disgusto gli avessero fatto cadere gli occhiali. Nessuna meraviglia che non volesse mettere piede a Spacetown. "Li odio" aveva sibilato fra i denti.
Povero Julius: l’uomo che riusciva a intendersi con gli Spaziali. L’uomo il cui merito maggiore, agli occhi della Città, era la capacità di trattare con quella gente. Quanto aveva contribuito, quella fama, alle sue rapide promozioni?
Nessuna meraviglia che avesse scaricato la faccenda sulle spalle di Baley. Vecchio, fedele Baley, il compagno di scuola! Sarebbe rimasto zitto se avesse scoperto quella piccola discrepanza nell’immagine del superiore. Baley si chiese come venisse fatta l’analisi cerebrale. Immaginò grandi elettrodi, pantografi indaffarati che tracciavano linee nervose sulla carta del grafico, congegni automatici che ticchettavano in posizione.
Povero Julius. Se era terrorizzato come le circostanze facevano supporre, forse si vedeva già davanti al sindaco con una lettera di dimissioni obbligate che l’aspettava.
L’autopattuglia imboccò i sublivelli del Municipio.
Erano le 14,30 quando Baley arrivò al suo tavolo. Il questore era uscito, e R. Sammy, sorridente come al solito, non sapeva dove fosse andato.
Baley passò un po’ di tempo a pensare, senza far caso alla fame.
Alle 15,20 R. Sammy si avvicinò a lui e disse: «Il questore è tornato, Lije».
Baley abbozzò un "Grazie."
Per una volta era riuscito ad ascoltare il robot senza irritarsi.
R. Sammy, dopotutto, era un parente di R. Daneel, e R. Daneel non era una persona — o piuttosto una cosa — che gli provocasse irritazione. Baley provò a immaginare un pianeta dove uomini e automi costruissero una cultura che partiva da quella delle Città. Era un problema che meritava considerazione.
Quando Baley entrò nell’ufficio del superiore, questi stava esaminando un fascio di documenti e ogni tanto s’interrompeva per prendere appunti.
Alzò la testa e disse: «Hai preso un bel granchio, laggiù a Spacetown».
I ricordi lo assalirono improvvisamente. Il duello verbale con Fastolfe…
La faccia lunga di Baley assunse un’aria lugubre e contrita. «Lo ammetto, questore, mi dispiace.»
Enderby lo fissò e attraverso gli occhiali brillò uno sguardo penetrante. Sembrava di nuovo se stesso, come se l’incubo delle trenta ore precedenti si fosse allentato. «Non ha molta importanza, Lije. Fastolfe non ci ha dato peso, quindi dimenticheremo. Imprevedibili, questi Spaziali. Ma non ti meriti la fortuna che hai avuto: la prossima volta parlerai con me prima di comportarti come un eroe della subeterica.»
Baley fece cenno di sì con il capo. Si sentiva sollevato da un peso enorme, come se, provando un salto mortale, si fosse accorto di averlo sbagliato e scoprisse nonostante tutto di essere illeso. Okay, era sorpreso che tutto si fosse sgonfiato tanto facilmente, ma così era.
«Senta, questore, voglio che faccia assegnare un appartamento per uomini a R. Daneel e a me. Non lo porterò a casa, stasera.»
«Come sarebbe?»
«Si è sparsa la notizia che è un robot, ricorda? Forse non succederà niente, ma se ci sono disordini non voglio che la mia famiglia ci vada di mezzo.»
«Sciocchezze, Lije. Ho fatto controllare e ti assicuro che non si è sparsa nessuna notizia.»
«Jessie ha saputo la verità da qualche parte.»
«E io insisto che non c’è niente di cui preoccuparsi. Ho lavorato al problema da quando è finito il collegamento con Spacetown, anzi, ho lasciato il buon Fastolfe proprio per dedicarmi a questo. Dovevo accertare la situazione, e in fretta, così ho incaricato Doris Gillid di farmi un rapporto. Puoi controllare da te: è stata in una decina di Personali per donne in diverse parti della Città e non ha sentito voci allarmanti. Conosci Doris, è una ragazza in gamba, ma non è emerso niente. Proprio niente.»
«Allora come ha fatto Jessie a sentire la storia?»
«C’è una spiegazione. R. Daneel ha dato spettacolo nel negozio di scarpe… ha tirato veramente fuori un’arma, Lije, o hai esagerato un pochino?»
«L’ha tirata fuori e l’ha anche puntata.»
Il questore scosse la testa. «Va bene, qualcuno l’ha riconosciuto. Come robot, intendo.»
«Un momento» fece Baley, indignato. «Nessuno potrebbe capire che non è umano.»
«Perché?»
«Lei ci riesce? Io no.»
«Ma questo cosa prova? Noi non siamo esperti. Supponi che tra la folla ci fosse un tecnico delle fabbriche di Westchester. Un professionista della robotica, un uomo che ha passato la vita con gli automi. Nota qualcosa di strano in R. Daneel, forse nel modo in cui parla o in cui si comporta. Ci pensa su e magari lo racconta a sua moglie, che a sua volta spettegola con un paio di amiche. Ma tutto finisce lì: è una storia troppo fantastica, la gente non ci crede. Jessie l’ha sentita un attimo prima che si estinguesse.»
«Forse» disse Baley, dubbioso. «Ma la prego di farmi assegnare lo stesso un appartamento per uomini.»
Il questore si strinse nelle spalle e prese l’intercom. Dopo un po’ disse: «Settore Q 27, è tutto quello che posso fare. Non è un buon quartiere».
«Andrà benissimo» fece Baley.
«A proposito, dov’è R. Daneel?»
«Allo schedario. Cerca informazioni sui medievalisti facinorosi.»
«Buon Dio, saranno milioni.»
«Lo so, ma lui è contento.»
Baley era sulla porta quando si voltò d’impulso e disse: «Questore, il dottor Sarton le ha mai parlato del programma di Spaceto.wn? Voglio dire, l’idea di introdurre qui da noi una cultura C/Fe…».
«Una che?»
«I robot. Introdurre i robot sulla Terra.»
«Di quando in quando.» Il questore non sembrava particolarmente interessato all’argomento.
«E le ha spiegato qual era lo scopo?»
«Oh, migliorare la salute, alzare il livello di vita, le solite cose. Non m’ha incantato. Naturalmente mi fingevo d’accordo, annuivo: che altro avrei potuto fare? Tutto sta nell’assecondarli e sperare che si mantengano nei limiti della ragione. Forse un giorno…»
Baley aspettò, ma Enderby non specificò quello che un giorno lontano sarebbe potuto avvenire.
«Non le ha mai parlato di emigrazione?»
«Emigrazione! Mai. Far accettare un terrestre sui Mondi Esterni è più difficile che trovare un diamante grosso come un asteroide tra gli anelli di Saturno.»
«Intendevo emigrazione su nuovi mondi.»
Ma il questore si limitò a lanciargli un’occhiata incredula.
Baley rifletté un momento e poi, con faccia tosta, chiese: «Che cos’è l’analisi cerebrale, questore? Ne ha mai sentito parlare?».
Il viso tondo di Enderby non fece una grinza, non batté nemmeno gli occhi. «No, che sarebbe?»
«Niente, una parola che ho sentito.» Baley uscì, tornò alla sua scrivania e rifletté. Impossibile che il questore recitasse, non era un attore così bravo. Quindi…
Alle 16,05 Baley chiamò Jessie e le disse che quella sera non sarebbe tornato a casa, né per qualche sera ancora. Le ci volle un po’ per tranquillizzarla. «Lije, c’è qualche problema? Sei in pericolo?» Un poliziotto è sempre più o meno in pericolo, le spiegò. La cosa non le piacque. «Dove dormirai?» Non glielo disse. «Se pensi di sentirti sola vai da tua madre.» Chiuse la comunicazione di scatto, tanto non cambiava niente.
Alle 16,20 fece una chiamata a Washington. Ci volle un certo tempo per raggiungere l’uomo che voleva e quasi altrettanto tempo per convincerlo a venire a New York con l’aereo del giorno dopo. Alle 16,40 riuscì nell’intento.
Alle 16,55 il questore se ne andò, passandogli davanti con un sorriso incerto. I colleghi del turno di giorno uscirono in massa, mentre la più scarsa popolazione del turno di notte cominciò ad affluire salutando Baley con sorpresa.
R. Daneel si avvicinò alla scrivania con un fascio di carte.
«Che roba è?» chiese Baley.
«Una lista di uomini e donne che probabilmente appartengono a organizzazioni medievaliste.»
«Quanti sono?»
«Più di un milione» rispose l’automa. «Ne ho scelti soltanto una parte.»
«E pensi di controllarli tutti?»
«Non sarebbe pratico, Elijah.»
«Vedi, Daneel, in un certo senso tutti i terrestri sono medievalisti. Il questore, Jessie, io… Prendi il questore con i suoi…» (Stava quasi per dire "occhiali", poi ricordò che i terrestri dovevano fare causa comune e che la faccia del questore andava salvata sia in senso figurato che letterale). Concluse quindi: «… Ornamenti oculari».
«Sì, li ho notati» ammise R. Daneel «ma ho pensato che fosse indelicato parlarne. Non ho visto ornamenti simili agli occhi di altri cittadini.»
«Sono oggetti antiquati.»
«Servono a qualcosa?»
Baley cambiò improvvisamente discorso. «Come hai avuto quella lista?»
«Me l’ha fatta una macchina: basta indicare il tipo di reato che si vuole e lei fa il resto. Ho raccolto tutti i casi di condotta disordinata nei confronti di robot degli ultimi venticinque anni. Un’altra macchina ha controllato tutti i quotidiani della Città per lo stesso periodo e mi ha fornito i nomi di persone che hanno rilasciato dichiarazioni sfavorevoli ai robot o ai Mondi Esterni. È stupefacente quello che si può fare in tre ore. La macchina ha perfino eliminato dalla lista i nomi dei deceduti.»
«Sei stupito? Non dirmi che non avete computer, sui Mondi Esterni.»
«Di molti tipi, certo. E avanzati. Tuttavia nessuno è così grande e complesso come quelli che ho visto qui. Devi ricordare che il più grande dei Mondi Esterni ha una popolazione leggermente inferiore a quella di una Città, e quindi una tale complessità non è necessaria.»
Baley chiese: «Sei mai stato su Aurora?».
«No» rispose R. Daneel. «Sono stato fabbricato sulla Terra.»
«Allora come puoi conoscere i computer dei Mondi Esterni?»
«È ovvio, collega Elijah. La mia banca dati fa capo a quella del dottor Sarton. Puoi star certo che il materiale riguardante i Mondi Esterni è molto ricco.»
«Capisco. Sei capace di mangiare, Daneel?»
«Io sono alimentato dall’energia atomica, Daneel. Credevo lo sapessi.»
«Lo so, infatti. Non ti ho chiesto se hai bisogno di mangiare, solo se ne sei capace. Se puoi mettere del cibo in bocca, masticarlo e inghiottirlo. Credo che sia importante, se devi sembrare un uomo.»
«Capisco. Sì, sono in grado di masticare e inghiottire automaticamente. Naturalmente la mia capacità è limitata e prima o poi devo rimuovere il materiale ingestito da quello che tu chiameresti stomaco.»
«Va bene. Potrai vomitarlo o liberartene come credi nella quiete della nostra stanza, stanotte. Il punto è che io ho fame. Ho saltato il pranzo, maledizione, e voglio che tu stia con me quando andrò a mangiare. Ovviamente non potrai limitarti a guardarmi o desterai i sospetti. Ma visto che il problema non sussiste, andiamo!»
Le mense di settore erano le stesse in tutta la Città. Baley era stato a Washington, Toronto, Los Angeles, Londra e Budapest per lavoro e anche lì erano identiche. Forse nel medioevo il mondo era stato più vario, perché si parlavano lingue diverse e i cibi erano diversi. Ma oggi i prodotti dei lieviti èrano gli stessi da Shangai a Tashkent, da Winnipeg a Buenos Aires; e l’inglese, anche se forse non era più la lingua di Shakespeare o Churchill, era l’idioma corrente in tutti i continenti. Con lievi modificazioni, era parlato anche sui Mondi Esterni.
A parte la dieta e il linguaggio, c’erano altre e più profonde similarità. Ad esempio il particolare, indefinibile odore che si associava così strettamente alle "cucine". E la triplice fila che avanzava lentamente, convergendo verso la porta e poi disperdendosi di nuovo, a destra, a sinistra, al centro. C’era il rumoreggiare dell’umanità che si agitava e parlava, e lo stridulo risuonare della plastica contro la plastica. C’era il luccichio del fintolegno, tirato a specchio, il riflesso sui bicchieri e i lunghi tavoli, l’alito del vapore nell’aria.
Baley avanzava lentamente, in fila come tutti gli altri (questa specie di ginnastica dell’ora di pranzo era inevitabile, e si protraeva per almeno dieci minuti). Disse a R. Daneel, preso da un’improvvisa curiosità: «Sai ridere?».
L’automa, che era immerso in un freddo ma approfondito esame della mensa, replicò: «Come, prego?».
«Mi domandavo, Daneel, se eri capace di ridere.» Parlava a voce bassa, per non farsi sentire.
R. Daneel sorrise. Fu un gesto improvviso e sorprendente: le labbra si curvarono e la pelle, agli angoli, si piegò. Ma solo la bocca rideva, il resto della faccia aveva la solita espressione.
Baley scosse la testa. «Non preoccuparti, R. Daneel. Non è per te.»
Erano sulla porta, adesso. Uomo dopo uomo inseriva la propria piastra in un’apposita fessura perché i sensori la leggessero. Click, click, click…
Qualcuno aveva calcolato che una cucina efficiente poteva permettere l’ingresso di duecento persone al minuto; le piastre di ciascuno venivano lette attentamente per evitare frodi ai danni della mensa e delle razioni. Era stato calcolato quanto doveva essere lunga una fila per consentire la massima efficienza, e quanto tempo si perdeva se un commensale chiedeva un servizio particolare.
Era sempre un guaio interrompere l’ordinato succedersi dei click-click per passare allo sportello manuale, come fecero Baley e R. Daneel per mostrare il loro "pass" speciale.
Jessie, con l’esperienza di assistente dietologa, aveva spiegato una volta il perché.
"Sconvolge tutta la procedura" aveva detto. "Manda all’aria le statistiche dei consumi e le stime inventane. Significa buoni speciali, e quindi aggiornamento dei quadri in modo che corrispondano a quelli delle altre mense cittadine; è necessario mantenere un equilibrio, se capisci ciò che voglio dire. Ogni settimana bisogna riempire un rendiconto completo, e se salta fuori che nella tua cucina si è consumato troppo, sono guai. Non è mai colpa della Città se viene fatta una distribuzione di buoni speciali: la colpa è delle cucine. E quando noi che ci lavoriamo siamo costretti ad annunciare che per quel giorno la libera scelta è sospesa, la gente in fila comincia a bestemmiare. Ti ripeto, è sempre colpa di chi sta dietro il banco…"
Baley sapeva tutto questo e quindi capì lo sguardo velenoso che gli lanciò la donna dietro lo sportello. La funzionaria annotò il settore di appartenenza, il lavoro, la ragione per cui il pasto veniva richiesto in un altro settore; Baley dichiarò che si trattava di "motivi ufficiali", una definizione irritante ma a prova di bomba. La donna piegò la richiesta con rapidi movimenti delle dita e l’infilò in una fessura. Il computer la trattenne, divorò il contenuto e digerì rapidamente le informazioni.
La funzionaria scoccò un’occhiata a R. Daneel, poi Baley dette la mazzata finale: «Il mio amico non appartiene alla Città».
L’espressione della donna era di completo e assoluto livore. Nonostante ciò, disse: «Città di appartenenza, prego».
Ancora una volta Baley intervenne al posto del robot: «È tutto a carico del Dipartimento di polizia. Non sono necessari dettagli, motivi ufficiali.»
La donna prese un blocco di buoni speciali e riempì il formulario con il codice luce-ombra, ottenuto premendovi due dita della mano destra.
Poi chiese: «Per quanto tempo mangerete da noi?»
«Fino a nuovo ordine» rispose Baley.
«Posate le dita qui» disse lei, girando la scheda.
Baley ebbe un brivido quando le dita perfette, di R. Daneel premettero sul formulario; poi si disse che non c’era ragione di temere, perché Daneel era dotato sicuramente di impronte digitali.
La donna prese la scheda e la infilò nella macchina onnivora che le arrivava al gomito. Il buono non fu respinto e Baley cominciò a respirare meglio.
La funzionaria prese due piastre rosse che significavano "commensale temporaneo", quindi annunciò: «Niente scelta, questa settimana. Siamo a corto. Tavolo DF».
Si avviarono al DF.
«Mi pare di capire che la vostra gente mangia sempre alla stessa mensa.» disse R. Daneel.
«Sì, certo. Non fa piacere pranzare in un posto che non si conosce, fra gente che non si conosce. Nella mensa del tuo settore hai un posto tuo, che occupi tutti i giorni; sei fra amici o in famiglia. Quando si è giovani l’ora di pranzo è il clou della giornata.» Baley sorrise, ricordando i giorni in cui era stato scapolo.
Il tavolo DF faceva parte del gruppo assegnato ai temporanei. I commensali già seduti guardavano il piatto a disagio e non parlavano a nessuno, ma alzavano la testa con invidia quando dai gruppi vicini si alzavano scoppi di risa.
Baley pensò che nessuno è più a disagio dell’uomo che mangia fuori-settore. Per piccina che tu sia, diceva un vecchio proverbio, sei la mensa di casa mia. Perfino il cibo aveva un sapore migliore, a casa, benché i chimici si affannassero a ripetere che era esattamente lo stesso da New York a Johannesburg.
Baley prese posto su uno sgabello e R. Daneel si mise accanto a lui.
«Non si può scegliere, oggi» disse Baley muovendo le dita. «Perciò gira quell’interruttore e aspetta.»
Ci vollero due minuti. Una porzione circolare al centro del tavolo scivolò e al suo posto apparve un piatto.
«Patate pressate, salsa di zimovitello, albicocche al forno. Oh, bene.»
Una forchetta e due fette di pan di lievito apparvero in uno scomparto del divisorio che correva in mezzo al tavolo.
R. Daneel disse a bassa voce: «Se vuoi ti do la mia parte».
Per un attimo Baley fu scandalizzato, poi fece mente locale e si limitò a borbottare: «Non sarebbe educato. Avanti, mangia».
Baley mangiò di buon appetito, ma senza il rilassamento che permette di godere il pranzo come si deve. Ogni tanto, e con discrezione, gettava un’occhiata a R. Daneel: l’automa mangiava con precisi movimenti delle mascelle. Troppo precisi. Non sembrava naturale.
Strano! Ora che Baley sapeva per certo che R. Daneel era un robot, tanti piccoli particolari sembravano indicarlo palesemente. Per esempio, quando R. Dàneel inghiottiva non si vedeva il movimento del pomo d’Adamo.
Eppure, a Baley non importava. Si stava abituando alla creatura? Immaginiamo che la gente ricominci daccapo su un altro mondo (un’idea che gli tornava spesso, da quando il dottor Fastolfe gliela aveva suggerita); immaginiamo che Bentley, per esempio, dovesse lasciare la Terra: potrebbe vivere, e lavorare, insieme agli automi? Certo, perché no. Gli spaziali lo facevano.
R. Daneel disse: «Elijah, è cattiva educazione guardare un altro mentre mangia?»
«Se vuoi dire guardarlo direttamente, la risposta è sì. Ci si arriva con il buon senso, ti pare? Ognuno ha diritto alla sua privacy. Conversare mentre si mangia è legittimo, ma è meglio non guardare l’altro quando inghiotte.»
«Capisco. Allora come mai ci sono otto persone che non ci levano gli occhi di dosso?»
Baley posò la forchetta e si guardò intorno come se cercasse la saliera. «Io non vedo niente di strano.»
Ma lo disse senza convinzione: la folla dei commensali era solo un ammasso caotico. Quando R. Daneel puntò su di lui gli impersonali occhi castani, Baley pensò a disagio che non erano solo occhi, ma sensori che, probabilmente, gli permettevano di analizzare in frazioni di secondo l’intero ambiente.
«Ne sono certo» ripeté R. Daneel, calmo.
«E questo che cosa dimostra? Sono dei maleducati, tutto qui.»
«Non so, Elijah, ma ti pare una coincidenza che sei di loro facessero parte della folla che ha assalito il negozio di scarpe?»