Baley rimase immobile, paralizzato dallo shock, anche quando Jessie lo afferrò per le spalle e si strinse a lui.
Con le labbra pallide Lije riuscì a formare una sola parola: «Bentley?».
Lei lo guardò e scosse la testa con forza, agitando i capelli castani. «Sta bene.»
«E allora…»
Jessie cominciò a singhiozzare, e a voce bassa, in modo che a stento poteva essere udita, cominciò: «Non ce la faccio più, Lije. Non posso. Non riesco a mangiare né a dormire. Dovevo dirtelo».
«Non dire niente» rispose Baley, attanagliato dall’angoscia. «Per l’amor di Dio, Jessie, non ora.»
«Devo. Ho fatto una cosa terribile, veramente terribile. Oh, Lije…» Poi comiciò a balbettare.
Disperato, Baley disse: «Non siamo soli, Jessie».
Lei alzò gli occhi fissando R. Daneel, ma non sembrò riconoscerlo. Le lacrime che le inondavano gli occhi dovevano aver ridotto l’immagine del robot a una macchia indistinta.
R. Daneel mormorò discretamente: «Buon pomeriggio, Jessie».
Lei singhiozzò. «È… è quel robot?»
Si passò il dorso della mano sugli occhi e si sottrasse all’abbraccio di Baley. Respirò a fondo, poi un sorriso tremulo aleggiò sulle sue labbra. «Sei tu, vero?»
«Sì, Jessie.»
«E non ti dispiace essere chiamato robot?»
«No, Jessie, è quello che sono.»
«E a me non dispiace essere chiamata stupida, idiota, agente sovversivo, perché è quello che sono.»
«Jessie!» gemette Baley.
«È inutile, Lije» disse lei. «Deve sapere la verità, se è il tuo collega. Non riesco più a sopportarlo, mi trovo in queste condizioni da ieri. Non m’interessa se andrò in prigione, non m’interessa se mi manderanno ai livelli più bassi e mi costringeranno a vivere a lievito e acqua. Non m’interessa se… Ma tu non lo permetterai, vero, Lije? Non permetterai che mi facciano del male. Sono spaventata a morte.»
Baley le batté una mano sulla spalla e la lasciò piangere.
Poi disse a R. Daneel: «Non si sente bene, non possiamo tenerla qui. Che ore sono?».
Senza alcun gesto che somigliasse al guardare un orologio, R. Daneel rispose: «Quattordici e quarantacinque».
«Il questore tornerà da un momento all’altro. Senti, chiedi un’autopattuglia e discuteremo di questo in strada.»
Jessie alzò la testa di scatto: «L’antica autostrada, vuoi dire? Oh, no, Lije».
Nel tono più dolce che riuscì a trovare, Baley disse: «Andiamo, Jessie, non essere superstiziosa. Non puoi affrontare le strade mobili nelle condizioni in cui sei. Fai la brava ragazza e calmati, o non riusciremo ad attraversare neppure la sala comune. Ti porterò dell’acqua».
Lei si asciugò la faccia con un fazzoletto inzuppato e disse, stanca: «Oh, guarda il mio trucco!».
«Non preoccuparti del trucco» rispose Baley: «Daneel, quest’autopattuglia?»
«Ci aspetta, collega Elijah.»
«Andiamo, Jessie.»
«Aspetta. Aspetta un minuto, Lije. Devo fare qualcosa per aggiustarmi la faccia.»
«Non importa, ora.»
Ma lei si allontanò. «Per favore, non posso attraversare la sala comune con questa faccia. Ci vorrà un secondo.»
L’uomo e il robot aspettarono: l’uomo strigendo nervosamente i pugni, il robot impassibile.
Jessie si frugò nella borsa per tirar fuori l’attrezzatura necessaria. (Se c’era una cosa che aveva resistito a tutte le innovazioni tecniche dai tempi del medioevo, era la borsa delle donne. Una volta Baley l’aveva dichiarato in tutta solennità; non si era riusciti nemmeno a sostituire i bottoncini metallici della chiusura con più appropriate cerniere magnetiche.) Jessie prese uno specchietto e l’astuccio dei cosmetici placcato d’argento che Baley le aveva regalato tre compleanni prima.
L’astuccio aveva diversi orifizi, che Jessie usò a turno. Tutti gli spray meno l’ultimo erano invisibili e lei li adoperò con quella finezza e quella delicatezza di tocco che sembrano proprie delle donne per diritto di nascita, anche nei momenti più critici.
Il fondotinta formò un liscio strato regolare che cancellò ogni traccia di pallore e di rughe, sostituendoli con una lieve sfumatura dorata che le donava moltissimo e che si accordava con il colore naturale degli occhi e dei capelli. Seguì un tocco d’abbronzante sulla fronte e sul mento, una lieve spruzzata rosa sulle guance, che sottolineava la linea della mascella, e un delicato tocco d’azzurro sulle palpebre e i lobi delle orecchie. Infine Jessie si applicò un morbido carminio alle labbra. Era l’unico spray visibile della collezione: formava una nebbiolina rossa nell’aria che si seccava repidamente a contatto delle labbra.
«Fatto» disse Jessie, ravviandosi i capelli più volte e dandosi uno sguardo di soddisfazione. «Ora può andare.»
Il processo aveva richiesto più di un secondo, ma meno di quindici. A Baley era sembrato interminabile.
«Andiamo» disse.
Jessie ebbe appena il tempo di rimettere l’astuccio nella borsa che il marito la spinse fuori.
Il silenzio spettrale dell’autostrada premeva da tutte le parti.
Baley disse: «Avanti, Jessie».
La passività che si era impadronita di lei dopo essere usciti dalla centrale cominciava a sgretolarsi. Alzò gli occhi sul marito e su Daneel, muta ma implorante.
Baley disse: «Avanti, per piacere, finiamola. Hai commesso un reato? Un vero reato?»
«Reato?» Jessie scosse la testa incerta.
«Cerca di controllarti, niente scene isteriche. Di’ semplicemente sì o no.» Esitò un momento, poi: «Hai… ucciso qualcuno?»
L’espressione di Jessie cambiò subito in indignazione. «Oh, Lije Baley!»
«Sì o no, Jessie.»
«No, certo che no.»
Il nodo che stringeva lo stomaco di Baley si allentò sensibilmente. «Hai rubato qualcosa? Falsificato i dati delle razioni? Distrutto qualche proprietà? Parla, Jessie.»
«Non ho fatto nente di così specifico. Non alludevo a quel genere di reati.» Guardò oltre la spalla di lui. «Lije, dobbiamo restare in questo posto?»
«Finché non abbiamo finito, sì. Ora comincia dal principio. Che cosa sei venuta a dirci?» Oltre la testa chinata di sua moglie, Baley incrociò gli occhi di R. Daneel.
Jessie rispose a bassa voce, ma man mano che continuava si infervorò e parlò più forte e chiaro:
«Si tratta dei medievalisti… sai chi intendo, Lije. Li trovi dappertutto, non fanno che chiacchierare. E ai vecchi tempi, quando ero assistente dietologa, la situazione era la stessa. Ti ricordi Elizabeth Thornbowe? Una medievalista. Diceva sempre che la fonte di tutti i guai era la Città e che le cose andavano molto meglio prima delle Città.
«Spesso le domandavo come facesse ad essere così sicura, e dopo che ebbi conosciuto te, Lije, mi feci ancora più incalzante: ricordi?, a volte ne parlavamo. Lei rispondeva citando i filmuscoli che i medievalisti si portano dietro in tutte le occasioni, come ad esempio La vergogna delle Città scritto da quel tale di cui non ricordo il nome…»
Baley disse, distratto: «Ogrinsky».
«Sì, solo che la maggior parte erano anche più feroci. Poi, quando ci sposammo, cominciai a fare dell’ironia su tutte quelle chiacchiere. La Thornbowe sentenziò: "Immagino che diventerai una cittadina modello, ora che hai sposato un poliziotto". Dopodiché mi rivolse raramente la parola, e alla fine io lasciai il lavoro. Molte delle cose che mi diceva servivano solo a impressionarmi, credo, o a dare a lei un’aria di mistero e d’importanza; era una vecchia zitella e morì senza prendere marito. Ricordi quello che mi dicesti una volta, Lije? Che ogni tanto la gente confonde i propri problemi con quelli della società e pretende di risanare le Città perché non sa come sanare se stessa.»
Baley ricordava, ma quelle parole suonavano vuote e superficiali alle sue stesse orecchie. Disse, dolcemente: «Cerca di venire al punto, Jessie».
Lei continuò: «Comunque, Lizzie profetizzava che il giorno della riscossa sarebbe arrivato e che la gente doveva lottare unita. Diceva che i nostri mali venivano dagli Spaziali, che avevano tutto l’interesse a mantenere la Terra debole e decadente. Era uno dei suoi aggettivi preferiti, "decadente". Guardava il menù che avevo preparato per la settimana successiva e storceva il naso: "Decadente, decadente". Jane Myers, in cucina, le rifaceva il verso e morivamo dal ridere. Elizabeth diceva che un giorno avremmo distrutto le città, saremmo tornati alla terra e avremmo regolato i conti con gli Spaziali, che cercavano di incatenarci alle Città mediante l’imposizione dei robot. Per la verità Elizabeth non li chiamava robot, ma "macchine-mostro senz’anima". Scusa l’espressione, Daneel.»
L’automa disse: «Non conosco il significato delle ultime due o tre parole, Jessie, ma in ogni caso ti scuso. Continua, per favore».
Baley si agitò sul sedile, inquieto. Era sempre stata così, Jessie: nessuna emergenza, nessuna crisi potevano indurla a raccontare una storia in modo meno prolisso.
Lei riprese: «Elizabeth parlava sempre come se i suoi compagni fossero molti e numerosi. Diceva ad esempio: "All’ultima riunione collegiale", eccetera, dandomi un’occhiata per metà speranzosa e per metà impaurita. Speranzosa, perché voleva che le facessi delle domande e la facessi sentire importante; impaurita perché temeva che la mettessi nei guai. Ma io non chiedevo mai niente. Non volevo darle la soddisfazione.
«Poi ci sposammo, Lije, e per un poco tutto finì. Ma poi…»
Si fermò.
«Continua, Jessie» disse Baley.
«Ricordi, Lije, la litigata che facemmo a proposito del mio nome? Jezebel, voglio dire…»
«E allora?» C’erano voluti un secondo o due perché Baley ricordasse che era il nome completo di sua moglie. Si voltò verso R. Daneel e spiegò, stando automaticamente sulla difensiva: «Jessie è il diminutivo di Jezebel, ma a lei non piace parlarne».
R. Daneel annuì tutto compreso e Baley pensò: "Perdinci, perché mi metto a dire queste cose a lui?".
«Fu una cosa che mi ferì molto, Lije» continuò Jessie. «Molto. Era un stupidaggine, in fondo, ma io continuavo a rimurginare sulle tue parole. Voglio dire, la teoria secondo cui Jezebel era solo una conservatrice che si batteva per difendere i costumi dei suoi antenati contro quelli introdotti dagli stranieri. Dopotutto io ero Jezebel, e mi ero sempre…»
Cercò una parola che non riuscì a trovare. Baley disse: «Identificata con lei?».
«Sì.» Poi scosse la testa e guardò da un’altra parte. «Non razionalmente, si capisce. Non alla lettera. Ma me l’immaginavo in un certo modo, capisci, e volevo essere come lei. Anche se poi non lo ero affatto.»
«Lo so, Jessie, non essere sciocca.»
«Pensavo a lei continuamente e un giorno mi dissi: oggi succede la stessa cosa; noi della Terra avevamo i nostri costumi e poi sono arrivati gli Spaziali con le loro novità e hanno cercato di imporcele. Forse, ragionai, i medievalisti hanno ragione. Forse dovremmo tornare ai vecchi tempi. Così mi misi in cerca di Elizabeth e la trovai.»
«Sì. Continua.»
«Dapprima Lizzie disse che non capiva di che stessi parlando e poi, ero la moglie di un poliziotto. Io le assicurai che tu non c’entravi per niente, che ero lì per ragioni mie. Elizabeth mi promise che avrebbe parlato di me ai compagni e dopo circa un mese mi fece sapere che ero ammessa. Da allora in poi ho partecipato a tutte le riunioni.»
Baley le dette un’occhiata triste: «E non me l’hai mai detto?»
La voce di Jessie tremò: «Mi dispiace, Lije.»
«Non serve dispiacersi. Voglio che tu mi dica tutto delle riunioni, a cominciare da dove si svolgevano.»
Sentiva una specie di insolito distacco, un ottundimento delle emozioni. Ciò che aveva cercato disperatamente di non credere era vero, drammaticamente e tangibilmente vero. In un certo senso, comunque, era un sollievo essere usciti dall’incertezza.
Lei riprese: «Quaggiù».
«Quaggiù? Vuoi dire in questo posto, eh?»
«Qui, sull’autostrada. Ecco perché non volevo scenderci. Era un posto ideale per le riunioni. Ci incontravamo…»
«In quanti?»
«Non sono sicura, sessanta o settanta. L’appuntamento era su una diramazione locale, una specie di uscita. Avevamo sedie a sdraio e bibite, e poi qualcuno faceva un discorso; l’argomento era la vita dei vecchi tempi, e com’era bella e invidiabile, e come un giorno ci saremmo liberati dei mostri, cioè i robot e gli Spaziali. I discorsi erano noiosi, anche perché dicevano sempre la stessa cosa, ma li sopportavamo. La cosa più importante era incontrarsi, stare insieme. Giuravamo sulla causa comune e avevamo un codice tutto nostro per salutarci all’esterno.»
«E non venivate mai interrotti? Non passava mai un’autopattuglia o un camion dei pompieri?»
«No, mai.»
R. Daneel domandò: «Questo è insolito, Elijah?».
«Forse no» rispose l’altro, pesieroso. «Ci sono delle uscite che non vengono più usate, tutto sta a sapere quali. Alle riunioni non succedeva altro, Jessie? Solo discorsi e giochetti da cospiratori?»
«Solo questo. A volte qualcuno cantava, e, naturalmente, bevevamo insieme. I rinfreschi non erano granché: sandwich e succhi.»
«In tal caso» disse lui, quasi brutale «cos’è che ti preoccupa tanto?»
Jessie s’incupì. «Sei arrabbiato.»
«Per favore» disse Baley, con una pazienza di ferro «rispondi alla domanda. Se tutto era così innocente, perché da un giorno e mezzo hai perso la pace?»
«Pensavo che ti avrebbero fatto del male, Lije. Per l’amor di Dio, perché fai finta di non capire? Te l’ho già spiegato.»
«No, non hai spiegato proprio niente. Non ancora. Mi hai detto che facevi parte di un’innocua setta di sovversivi da caffè. Hanno mai fatto dimostrazioni violente? Hanno mai distrutto robot? Hanno provocato disordini o ucciso persone?»
«No! Lije, io non farei mai un’azione del genere. Non sarei rimasta con loro credimi.»
«E allora, perché dici che hai fatto una cosa terribile? Perché pensi che ti possano mandare in prigione?»
«Be’… Alle riunioni si parlava spesso del giorno in cui avremmo dovuto esercitare pressioni sul governo. Dovevamo prima organizzarci e poi realizzare grandi scioperi, paralizzare il lavoro. Avremmo costretto il governo a mettere al bando i robot e ricacciato gli Spaziali da dov’erano venuti. Pensavo che fossero tutte parole, ma poi è cominciata questa storia; tu e Daneel, voglio dire. "Ora ci metteremo in azione", hanno detto i miei compagni. "Daremo un esempio e fermeremo l’invasione dei robot." Ho sentito queste parole al Personale; i miei compagni non sapevano che stavano parlando di mio marito, ma io l’ho capito subito.»
Non riuscì a continuare.
Baley si addolcì. «Andiamo, Jessie. Non è stato niente, solo parole. Lo vedi, no, che siamo sani e salvi?»
«Ho avuto tanta… paura. E ho pensato: io faccio parte della banda. Se ci saranno sabotaggi e uccisioni, se tu e Bentley correrete un pericolo mortale, la colpa sarà mia… Oh, dovrebbero mandarmi in prigione!»
Baley la fece sfogare tenendole un braccio intorno alla spalla, poi dette un’occhiata a R. Daneel senza dire niente. Daneel restituì lo sguardo, tranquillamente.
«Devo pensare, Jessie. Chi è il capo del gruppo?»
Lei era più tranquilla e si asciugò gli occhi con un lembo del fazzoletto. «Un certo Joseph Klemin, ma è una nullità. È alto menò di un metro e settanta e dev’essere di quelli che a casa le buscano dalla moglie. Non credo che ci sia niente di pericoloso, in lui. Non lo arrestrai, vero, Lije? Mi sentirei una spia.» Era angosciata dai sensi di colpa.
«Non arresterò nessuno, per il momento. Ma Klemin come riceveva le istruzioni?»
«Non lo so.»
«C’erano mai degli sconosciuti alle riunioni? Sai che voglio dire: agenti del quartier generale, caporioni.»
«A volte i discorsi venivano fatti da sconosciuti. Non molto spesso, un paio di volte all’anno.»
«Sai come si chiamavano?»
«No, venivano sempre presentati come "uno di noi" o "un amico da Jackson Heights" o un altro posto qualsiasi.»
«Capisco. Daneel!»
«Sì, Elijah» disse R. Daneel.
«Descrivile gli uomini che hai individuato. Vediamo se Jessie li riconosce.»
R. Daneel recitò le descrizioni degli indiziati con esattezza clinica. Jessie ascoltò sbalordita quell’incredibile elenco di osservazioni fisiche, ma scosse la testa con fermezza.
«È inutile, inutile» gridò. «Come faccio a ricordare? Come faccio a sapere che faccia avevano, tutti quanti?»
Poi fece una pausa e rifletté. «Hai detto che uno di loro era un coltivatore di lieviti?»
«Francis Clousarr» disse R. Daneel «è un dipendente della Lieviti Newyorchesi.»
«Be’, una volta un uomo fece un discorso e io sedevo in prima fila. Sentii un odore di lievito grezzo, sì, una cosa da poco ma che notai. E la ragione per cui lo notai è che quel giorno avevo lo stomaco sottosopra e l’odore mi faceva sentir male. Dovetti alzarmi e andare verso il fondo, ovviamente senza spiegare agli altri il perché; fu molto imbarazzante. Forse è quello l’uomo di cui parlate. Se uno lavora con i lieviti tutto il tempo è naturale che l’odore gli si attacchi addosso.» Arricciò il naso.
«Non ricordi com’era?» chiese Baley.
«No» rispose lei con decisione.
«Va bene, Jessie, adesso ti accompagno da tua madre. Bentley starà con te e nessuno dei due lascerà il settore. Ben non deve andare a scuola; farò in modo che vi portino i pasti in casa e che i corridoi intorno all’appartamento siano sorvegliati dalla polizia.»
«E tu?» chiese Jessie.
«Non correrò rischi.»
«Ma quanto durerà?»
«Non lo so. Forse solo un giorno o due.» Le parole suonavano false perfino a lui.
Baley e R. Daneel erano di nuovo sull’autostrada, stavolta soli. La faccia di Baley era scura per la concentrazione.
«Mi sembra» disse «che ci troviamo di fronte a un’organizzazione che opera a due livelli. Il primo è un livello terra-terra, senza programmi specifici e che serve essenzialmente a garantire l’appoggio di massa nel caso di un colpo di mano. Il secondo è costituito da un’avanguardia selezionatissima, ed è quella che dobbiamo smascherare. I ribelli da operetta che frequenta Jessie possono essere ignorati.»
«Tutto questo» ribatté R. Daneel «se il racconto di tua moglie è autentico.»
«Credo» disse Baley irrigidendosi «che la versione di Jessie sia completamente fedele.»
«Così pare» commentò R. Daneel. «Nei suoi impulsi cerebrali non c’è nulla che indichi una disposizione patologica a mentire.»
Baley scoccò un’occhiata risentita al robot. «Direi di no. E direi che non c’è bisogno di tirare in ballo il suo nome, nei rapporti. Siamo intesi?»
«Se preferisci così, collega Elijah» disse calmo R. Daneel. «Ma in questo modo la nostra relazione non sarà né completa né accurata.»
«Forse no» disse Baley «ma non farà male a nessuno. Jessie è venuta spontaneamente a offrirci informazioni; prendere nota del fatto servirebbe solo a farla schedare dalla polizia, e non voglio che succeda.»
«In tal caso, va bene. Ma accertiamoci che non ci sia altro da scoprire.»
«Non c’è altro, per quanto riguarda lei. Te lo garantisco.»
«Puoi spiegarmi come un semplice nome, Jezebel, l’abbia spinta ad abbandonare una linea di condotta e assumerne un’altra? La motivazione mi sfugge.»
Viaggiavano da soli lungo il tunnel curvo e deserto.
Baley rispose: «È difficile dirlo. Jezebel è un nome raro, e un tempo fu portato da un donna di pessima fama. Mia moglie si è crogiolata in questa consapevolezza: la faceva sentire perfida, ma in modo vicario, compensandola di una vita troppo ortodossa».
«Perché una donna rispettosa delle leggi dovrebbe desiderare di sentirsi perfida?»
Baley trattenne un sorriso. «Le donne sono donne, Daneel. Comunque io ho fatto una cosa molto stupida: in un momento di irritazione le ho dimostrato che la Jezebel storica non era poi questo mostro di perfidia, e che anzi si comportava da buona moglie. Me ne sono sempre pentito.
«Senza volerlo ho ferito Jessie profondamente. Ho distrutto qualcosa che non poteva essere sostituito. Suppongo che ciò che è successo poi sia la sua vendetta: ha voluto punirmi impegnandosi in un’attività che io avrei disapprovato. Non dico che fosse un desiderio cosciente.»
«Si può desiderare qualcosa e non esserne coscienti? Non è una contraddizione in termini?»
Baley guardò il robot e disperò di potergli spiegare il concetto d’inconscio, quindi passò ad altro: «La Bibbia ha una grande influenza sul pensiero e le emozioni degli uomini».
«Che cos’è la Bibbia?»
Per un attimo Baley fu sorpreso, ma poi si diede dello stupido. Gli Spaziali avevano adottato una filosofia propria, rigorosamente meccanicistica, e R. Daneel sapeva solo ciò che sapevano i suoi costruttori, non di più.
Baley rispose brevemente: «È il libro sacro di circa la metà della popolazione terrestre».
«Non capisco l’aggettivo "sacro".»
«Significa che è tenuto in gran considerazione. Alcune parti del libro, se correttamente interpretate, contengono un codice di comportamento che molti considerano ideale per raggiungere la suprema felicità.»
R. Daneel sembrò riflettere. «E questo codice è inserito nelle vostre leggi?»
«Temo di no. Non è qualcosa che si possa far rispettare con la forza, ma dev’essere osservato spontaneamente da ogni individuo che desidera farlo. In un certo senso è più importante della legge.»
«Più importante della legge? Non è una contraddizione in termini?»
Baley sorrise, asciutto. «Posso citarti un passo della Bibbia? Non sei curioso di sentirlo?»
«Fallo, ti prego.»
Baley fermò l’autopattuglia e chiuse gli occhi, ricordando. Gli sarebbe piaciuto usare l’antico inglese della Bibbia medievale, ma per R. Daneel sarebbe stato incomprensibile.
Usò quindi le parole della Revisione Moderna, recitandole con la naturalezza di chi racconta un fatto della vita d’ogni giorno e non un episodio dell’antichissimo passato:
«Gesù salì sul monte degli Olivi e all’alba tornò al tempio. La gente venne a lui ed egli predicò loro. Gli scribi e i farisei gli portarono una donna sorpresa nell’adulterio, e quando l’ebbero messa di fronte a lui dissero: "Maestro, questa donna è stato sorpresa a commettere adulterio. Mosè, nella sua legge, comanda che simili peccatori vengano lapidati. Che cos’hai da dire?"
«Dicevano questo nella speranza d’intrappolarlo, perché cercavano un capo d’accusa contro di lui. Ma Gesù si chinò e con il dito cominciò a scrivere nella polvere, come se non li avesse sentiti. Poiché quelli continuavano a domandare, alzò la testa e disse: "Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra."
«E di nuovo si chinò a scrivere nella polvere. Quelli che l’avevano ascoltato, persuasi dalla propria coscienza, sene andarono uno a uno, dal più vecchio al più giovane; e Gesù rimase solo con la donna. Quando Gesù alzò la testa e vide che non era rimasto nessuno, tranne la donna, le chiese: "Donna, dove sono i tuoi accusatori? Nessuno dunque ti condanna?"
«E lei rispose: "Nessuno, Signore."
«E Gesù le disse: "Nemmeno io ti condanno. Vai, e non peccare più."»
R. Daneel che aveva ascoltato attentamente, chiese: «Che cos’è l’adulterio?».
«Non ha importanza. Era un misfatto per cui all’epoca si veniva lapidati. Si tiravano pietre addosso al colpevole finché non veniva ucciso.»
«Ma la donna era colpevole?»
«Sì.»
«Allora perché non venne lapidata?»
«Nessun accusatore se la sentì, dopo le parole di Gesù. La parabola significa che c’è sempre qualcosa di più alto del comune senso di giustizia: un impulso umano che chiamiamo pietà, un atto umano che chiamiamo perdono.»
«Non conosco queste parole, collega Elijah.»
«Lo so» borbottò Baley. «Lo so.»
Rimise in moto l’autopattuglia e accelerò bruscamente. La spinta lo sciacciò sullo schienale imbottito.
«Dove andiamo?» chiese R. Daneel.
«A Lievitown, per strappare la verità al cospiratore Francis Clousarr.»
«Sai come fare, Elijah?»
«Io no, Daneel, ma tu sì. Tu hai il metodo infallibile.»
E partirono a gran velocità.