II Viaggio su una strada celere

Sulla strada celere c’era la solita folla: i passeggeri in piedi sui livelli inferiori e quelli con diritto a sedere sui superiori. Un fiume continuo di umanità abbandonava la strada per abbordare i nastri locali o le uscite che, mediante ponti e arcate, immettevano negl’infiniti labirinti dei settori cittadini. Dalla parte opposta un flusso altrettanto continuo di viaggiatori saliva sulla strada sfruttando i nastri acceleratori.

C’erano luci infinite: pareti luminose, volte che sembravano sgocciolare una fredda fosforescenza, insegne lampeggianti che attiravano l’attenzione, lo splendore crudo e uniforme delle "lucifere" che indicavano: DIREZIONE PER IL JERSEY, SEGUIRE LE FRECCE PER LA NAVETTA DELL’EAST RIVER, LIVELLI SUPERIORI PER I SETTORI DI LONG ISLAND.

Ma soprattutto c’era il rumore che è inseparabile dalla vita: il suono di milioni di persone che parlavano, ridevano, tossivano, si chiamavano l’un l’altra.

Nessuna indicazione per Spacetown, pensò Baley.

Balzava da nastro a nastro con la facilità di chi è abituato da tutta una vita. I bambini imparavano a "saltare sui nastri" non appena erano in grado di camminare. Baley a stento si accorgeva dell’accelerazione, nonostante la velocità aumentasse a ogni passo. Né si rendeva conto di stare leggermente piegato in avanti, contro la spinta. In trenta secondi raggiunse l’ultimo nastro, quello dei cento all’ora, e poté trasbordare sulla piattaforma mobile, protetta da un tunnel di vetro, che era la strada celere.

"Nessuna indicazione per Spacetown" pensò.

Non c’era bisogno di indicazioni. Se si aveva un affare laggiù si conosceva la strada, e se non la si conosceva, voleva dire che era inutile andarci. Quando la città degli Spaziali era stata costruita, venticinque anni prima, c’era stata la moda di considerarla una specie d’attrazione. Le orde di New York non facevano che riversarsi in quella direzione.

Poi gli Spaziali avevano detto basta. Educatamente (erano sempre educati) ma senza alcun compromesso con il tatto, avevano alzato una barriera di energia fra sé e la Città di New York. Avevano istituito una combinazione fra il Servizio Immigrazione e la Dogana che controllava tutti i visitatori: se si aveva un affare specifico da sbrigare ci si qualificava, si acconsentiva ad essere perquisiti e ci si sottometteva alla visita medica e alla disinfezione di routine.

La cosa non poteva non creare scontento. È naturale. Più scontento di quanto meritasse, e sufficiente a mettere in discussione il programma di modernizzazione. Baley ricordò i cosiddetti Disordini della Barriera; lui stesso aveva fatto parte della folla che si era lasciata penzolare dai guard-rail delle strade celeri, che aveva occupato i posti a sedere dei livelli superiori senza rispetto per le precedenze di qualifica, che aveva saltato senza freno sui nastri locali, a rischio di rompersi le ossa, pur di rimanere nei dintorni della città spaziale per due giorni e gridare slogan contro la barriera. Poi, per pura frustrazione, la gente aveva cominciato a distruggere oggetti e proprietà cittadine.

Baley ricordava ancora i canti di quel tempo. C’era L’uomo è nato sulla Terra, per esempio, intonato sul motivo della vecchia Hinky-dinky-parlé-vu.


L’uomo è nato sulla Terra, amico, ci senti?

Questo è il suo mondo, se ti accontenti

Quindi, Spaziale, levati dai piedi

E torna pure sugli asteroidi.

Sporco Spaziale, di’, ci senti?


I versi erano centinaia. Alcuni umoristici, la maggior parte stupidi, altri decisamente osceni. "Sporco Spaziale, di’, ci senti?" Sporco, sporco. Era l’inutile tentativo di rinfacciare agli Spaziali quello che molti consideravano un insopportabile insulto: la convinzione, radicata fra chi viveva a Spacetown, che i nativi della Terra fossero individui disgustosamente infetti.

Gli Spaziali non se n’erano andati, ovviamente. E non era stato nemmeno necessario sfoderare una delle loro superarmi. L’antiquata flotta della Terra aveva imparato che era puro suicidio avvicinarsi a qualunque nave dei Mondi Esterni. Gli aerei terrestri che avevano sorvolato la zona di Spacetown nei primi tempi dopo la fondazione erano misteriosamente scomparsi: tutt’al più si era trovato un pezzetto d’ala contorto da qualche parte nelle vicinanze.

E nessuna folla, per quanto inferocita, poteva dimenticare l’orribile effetto dei disgretatori subeterici a mano usati contro i terrestri nelle guerre di un secolo prima.

Quindi, gli Spaziali si erano nascosti dietro la barriera d’energia prodotta dalla loro scienza superiore e che nessun sistema sulla Terra era in grado di infrangere. Si erano limitati a osservare tranquillamente, al riparo della barriera, finché le autorità di New York avevano tramortito i dimostranti con gas soporiferi e gas che provocavano il vomito. In seguito i penitenziari dei livelli inferiori si erano riempiti di arruffapopolo, scontenti e altri che erano stati arrestati solo perché a portata di mano. Dopo un po’ erano stati rimessi tutti in libertà.

Dopo un certo intervallo gli Spaziali avevano allentato le restrizioni. La barriera era stata tolta e l’isolamento di Spacetown era stato affidato alle cure della polizia di New York City. Ma la cosa più importante è che l’esame medico cui venivano sottoposti i visitatori si era fatto più discreto.

Ora, pensò Baley, le cose potevano precipitare di nuovo. Se gli Spaziali si convincevano che un terrestre era entrato a Spacetown e aveva commesso un omicidio, la barriera poteva alzarsi di nuovo. Sarebbe stato un guaio.

Si portò sulla piattaforma celere, si fece largo tra i passeggeri in piedi e salì la stretta rampa a spirale che portava al livello superiore, dove sedette. Non infilò il biglietto con il numero di qualifica nella fascia del cappello finché non ebbero superato i settori dell’Hudson: un C-5 non aveva diritto a sedere a est del fiume e a ovest di Long Island, e benché al momento ci fossero posti a sufficienza un controllore l’avrebbe fatto senz’altro sloggiare. La gente era sempre più schizzinosa sui privilegi che spettavano alle varie categorie, e in questo Baley capiva perfettamente i suoi simili.

L’aria sibilava sui "parabrezza" sistemati sul retro di ogni sedile. Con quel rumore non era facile chiacchierare, ma ci si abitua a tutto.

La maggior parte dei terrestri amavano il medioevo, in un modo o nell’altro. Era bello pensare a un’epoca in cui la Terra era "il" mondo e non uno fra cinquanta, e per giunta il più povero dei cinquanta. All’improvviso ci fu un grido di donna e Baley girò la testa di scatto. Una passeggera aveva perso la borsa: la vide lui stesso per un attimo, puntolino colorato contro il grigio dei nastri. Un viaggiatore che si affrettava verso la strada celere doveva averla spinta inavvertitamente in direzione dei livelli di decelerazione, e adesso la borsa si allontanava sempre più dalla padrona.

Un angolo della bocca di Baley tremò. La donna poteva riacchiapparla, ma solo se si fosse portata su un nastro che procedeva più lentamente, e se altri piedi non avessero spinto la borsa da questa o quell’altra parte. Lui, comunque, non l’avrebbe mai saputo: la scena si trovava già quasi un chilometro alle sue spalle.

Forse quella poveretta non ce l’avrebbe fatta. Si calcolava che, in media, ogni tre minuti un oggetto cadesse sulle strade mobili e non venisse più recuperato. Il Servizio Oggetti Smarriti aveva un daffare enorme, ed era solo un’altra complicazione della vita moderna.

Baley pensò: una volta era più semplice. Tutto era più semplice. Ecco perché c’erano tanti appassionati del medioevo.

Il medievalismo, come lo chiamavano, assumeva diversi aspetti. Per il poco fantasioso Julius Enderby consisteva nell’adozione di oggetti arcaici (occhiali, finestre).

In Baley si manifestava come amore per la storia, e in particolare la storia delle abitudini popolari.

Pensare alla Città di oggi, la New York in cui abitava e viveva… Più grande di qualsiasi altra metropoli con l’eccezione di Los Angeles. Più popolosa di qualunque altra, con l’eccezione di Shangai. E aveva solo tre secoli.

Naturalmente, nella stessa area geografica in cui sorgeva New York City c’era stato qualcosa anche prima, perché quell’antico sito umano aveva almeno tremila anni, ma solo da trecento si poteva parlare di una Città in senso moderno.

Non c’erano autentiche Città, prima. Solo mucchi di abitazioni grandi e piccole, all’aria aperta. Somigliavano un po’ alle cupole degli Spaziali, anche se in realtà erano molto differenti. Questi agglomerati (il più grande raggiungeva a stento i dieci milioni di abitanti, e molti si limitavano a un milione) erano seminati su tutta la Terra, a migliaia. Secondo gli standard attuali erano entità del tutto inefficienti sul piano economico.

L’efficienza si era fatta strada sulla Terra con l’aumento della popolazione. Due miliardi d’abitanti, tre, perfino cinque potevano essere sopportati dal pianeta mediante il costante abbassamento del tenore di vita. Quando la popolazione arriva a otto miliardi, tuttavia, la fame diventa un problema quotidiano. La cultura dell’uomo doveva subire una svolta radicale, specie se si considerava che i Mondi Esterni (che fino a mille anni prima erano stati semplici colonie della Terra) avevano posto limiti severi all’immigrazione.

Il cambiamento radicale era consistito nella graduale formazione delle Città lungo l’arco di un millennio. Efficienza voleva dire grandezza, una cosa di cui ci si era resi conto, vagamente, perfino nel medioevo. I minuscoli complessi industriali di un tempo si erano trasformati in grandi fabbriche, e queste a loro volta in organismi produttivi continentali.

Pensate all’inefficienza di centinaia di migliaia di case per centinaia di migliaia di famìglie paragonate alle unità che formano i settori; allo spreco di una collezione di videolibri in ogni abitazione quando ne basta una concentrata per sezione; al video indipendente per ogni famiglia quando si può adottare un efficace sistema di video-condutture.

E se è per questo, pensate alla follia di un’infinità di cucine e stanze da bagno tutte identiche, ma riprodotte in quantità, contro le più efficienti strutture rese possibili dalla cultura delle Città (mense e sale-doccia).

Poco a poco i villaggi, i paesi e le "metropoli" della Terra morirono e vennero inghiottiti dalle Città, e l’antico timore di una guerra nucleare non fece che rallentare di poco questa tendenza. Con l’invenzione dello scudo di forza, del resto, la tendenza si trasformò in vera e propria corsa.

La cultura delle Città permetteva una distribuzione ottimale del cibo, con l’utilizzazione su scala sempre più vasta dei lieviti e delle colture idroponiche. New York City si estendeva su oltre tremila chilometri quadrati di superficie, e l’ultimo censimento rivelava che la popolazione era abbondantemente superiore ai venti milioni. Sulla Terra c’erano circa ottocento Città, la cui popolazione media si aggirava sui dieci milioni.

Ogni Città divenne un complesso autonomo, quasi autosufficiente dal punto di vista economico. Costruiva da sé il suo "tetto", le sue recinzioni e i suoi livelli, sotterranei; divenne una caverna d’acciaio, un’enorme, protetta caverna di cemento e acciaio.

La costruzione procedeva scientificamente. Al centro c’era l’enorme complesso degli edifici amministrativi. Accuratamente orientati fra loro e con il dovuto rispetto all’equilibrio della Città nel suo complesso, sorgevano i settori. I collegamenti fra un settore e l’altro erano costituiti dalle strade celeri e dai nastri locali. In periferia si trovavano le industrie, le colture idroponiche, le enormi vasche per le colture dei lieviti e le centrali energetiche. Attraverso questi veri e propri strati urbani correvano le condutture dell’acqua e gli scarichi delle fogne, e naturalmente sorgevano scuole, negozi, prigioni; la ragnatela era completata dai cavi trasportatori d’energia e dai raggi per le comunicazioni.

Non c’era dubbio che la Città rappresentasse il culmine del processo che aveva portato l’uomo a trionfare sull’ambiente. Non il volo spaziale, non i cinquanta mondi colonizzati che di questi tempi facevano così gli altezzosi: la Città era il vero trionfo del genere umano.

Praticamente nessuno, sulla Terra, viveva fuori delle Città. Fuori non c’era che desolazione e aria aperta, che ben pochi riuscivano a sopportare con un minimo d’equanimità. Naturalmente era necessario conservare degli spazi aperti: c’erano l’acqua che è necessaria agli uomini, il legno e il carbone che erano le materie prime da cui, dopo lunghi processi, si ricavava la plastica, e le riserve naturali di lievito e fermenti. (Il petrolio era finito da molto tempo, ma alcune varietà di lievito ricche d’olio costituivano un buon sostituto.) Nelle zone disabitate fra Città e Città c’erano poi le miniere, e una fetta non trascurabile di terra — più di quanto la gente, di solito, immaginasse — veniva ancora sfruttata per la agricoltura e l’allevamento del bestiame. Non era un sistema efficiente per produrre cibo, ma carne, maiale e grano potevano sempre essere smerciati sul mercato dei generi di lusso o essere esportati.

Per mandare avanti le miniere e le fattorie, per allevare il bestiame e pompare l’acqua erano sufficienti pochi uomini, che si limitavano a supervisionare il lavoro a distanza. I robot facevano il lavoro meglio e richiedevano meno.

Robot! La tremenda ironia era che il cervello positronico era stato inventato sulla Terra, e sulla Terra aveva dato i primi frutti.

Non sui Mondi Esterni. E invece i Mondi Esterni si erano sempre comportati come se i robot fossero un prodotto tipico della loro cultura.

In un certo senso, tuttavia, il culmine del sistema economico basato sui robot era stato raggiunto sui Mondi Esterni; sulla Terra ci si era limitati a usarli nelle miniere e nelle fattorie. Solo nell’ultimo quarto di secolo, su insistenza degli Spaziali, gli uomini meccanici si erano lentamente infiltrati nelle Città.

Le Città erano un bene prezioso, e tutti, anche i medievalisti, sapevano che non esisteva un ragionevole sostituto. L’unico guaio era che non sarebbero rimaste efficienti a lungo: la popolazione del pianeta cresceva e un giorno o l’altro, nonostante l’alto livello produttivo delle Città, le calorie pro capite sarebbero scese sotto il livello di sussistenza.

E il peggio era che gli Spaziali, discendenti degli antichi emigranti dalla Terra, vivevano nel lusso dei loro mondi sottopopolati, governati dai robot, nello spazio profondo. Gli Spaziali erano cinicamente decisi a mantenere i privilegi che derivavano dalla bassa densità di popolazione dei pianeti, e quindi facevano di tutto per controllare le nascite e tenere alla larga gli immigranti dalla Terra sovraffollata. E questo…

Ma ecco Spacetown!

Fu l’inconscio di Baley ad avvertirlo che si stava avvicinando al settore di Newark. Se fosse rimasto dov’era ancora un po’, si sarebbe trovato sulla strada per il settore di Trenton, a sudovest, attraverso il cuore della calda e umida terra dei lieviti.

Era una questione di tempismo. Ci voleva un tanto per scendere la rampa, un tanto per farsi largo fra i passeggeri in piedi che brontolavano, un tanto per scivolare oltre il divisorio e verso l’uscita. E infine, un tanto per immettersi sui nastri deceleranti.

Quando l’ebbe fatto, si trovò puntualmente sullo stazionario. Non aveva calcolato consciamente i passi necessari e se ci avesse provato avrebbe sbagliato.

Baley si ritrovò nel consueto semi-isolamento. Solo un poliziotto era con lui sullo stazionario, e, a parte il ronzio della strada celere, il silenzio metteva quasi a disagio.

Il poliziotto si avvicinò e Baley esibì il distintivo con impazienza. L’altro alzò una mano per lasciarlo passare.

Il corridoio si restringeva e curvava bruscamente tre o quattro volte. C’era un evidente proposito: le folle dei terrestri non potevano raccogliervisi facilmente, e l’idea di una carica era impossibile.

Baley ringraziò il cielo che l’incontro con il suo collaboratore fosse previsto all’esterno di Spacetown; l’idea di un esame medico non gli andava affatto, nonostante la cortesia per cui gli Spaziali andavano famosi.

Uno Spaziale era fermo davanti alle porte che immettevano all’aperto e alle cupole di Spacetown. Era vestito alla maniera terrestre, con calzoni stretti alla vita, abbondanti al polpaccio e una striscia colorata lungo la cucitura delle gambe. Indossava una camicia di normalissimo textron, con il collo aperto, le cuciture sostituite da cinture-lampo e i polsini a sbuffo. Ma era uno Spaziale. C’era qualcosa nel modo in cui stava in piedi, in cui teneva dritta la testa, qualcosa nell’espressione calma e immobile del volto senza emozioni e dagli zigomi alti, che lo distingueva nettamente dai terrestri. I capelli corti, color del bronzo, erano tirati all’indietro senza scriminatura.

Baley si avvicinò con circospezione e disse: «Sono l’agente investigativo Elijah Baley, Dipartimento di Polizia della Città di New York. Qualifica C-5».

Mostrò le credenziali e continuò: «Ho ricevuto istruzioni per incontrare R. Daneel Olivaw all’Accesso di Spacetown». Guardò l’orologio. «Sono un poco in anticipo. Posso chiedere di venire annunciato?»

Dentro sentiva un senso di freddo. Era abituato, in un certo senso, ai robot in uso sulla Terra, ma i modelli Spaziali erano certo diversi. Non ne aveva mai visti, ma sulla Terra niente era più comune delle storie sui terribili, formidabili automi che lavoravano con sovrumana energia sui Mondi Esterni. Lije si sentì battere i denti.

Lo Spaziale, che l’aveva ascoltato educatamente, disse: «Non sarà necessario. La aspettavo».

Baley tese automaticamente la mano, poi l’abbassò. Abbassò pure la mascella, che sembrava diventata lunghissima. Non riuscì a dire niente, le parole si gelarono.

Lo Spaziale disse: «Mi presento: sono R. Daneel Olivaw».

«Come? Forse c’è un errore. Credevo che l’iniziale…»

«Nessun errore, sono un robot. Non gliel’hanno detto?»

«Me l’hanno detto.» Baley si passò una mano umida fra i capelli e li lisciò inutilmente. Poi, finalmente, la tese. «Mi dispiace, signor Olivaw. Non so a che diavolo stessi pensando. Mi chiamo Elijah Baley e sono il suo collega.»

«Bene.» La mano dell’automa strinse la sua con calore e leggerezza, in modo amichevole. Poi la lasciò. «Mi sembra di individuare in lei una certa apprensione. Posso chiederle di essere franco? In un rapporto come il nostro sarà meglio chiarire subito i punti importanti. E a proposito, sul mio mondo è normale che due colleghi si diano del tu. Spero che l’usanza non contrasti con le vostre abitudini.»

«È solo che, vede, lei non sembra un robot» disse Baley con angoscia.

«Questo la disturba?»

«Non dovrebbe, D… Daneel. Sono tutti come te, sul tuo mondo?»

«Ci sono differenze individuali, Elijah, proprio come fra gli uomini.»

«I nostri robot… Be’, lo capisci subito che sono robot. Tu sei identico a uno Spaziale.»

«Ah, vedo. Ti aspettavi un. modello primitivo e sei sorpreso. Ma è logico che la mia gente usi un automa dalle pronunciate caratteristiche umanoidi in un caso come questo. Dobbiamo evitare ogni effetto spiacevole, non trovi?»

Era certo così. Se un robot "primitivo" si fosse aggirato con troppa disinvoltura nella Città avrebbero potuto nascere guai.

Baley disse: «Hai ragione».

«Allora andiamo, Elijah.»

Tornarono verso la strada celere. R. Daneel capì lo scopo dei nastri acceleranti e se ne servì con notevole bravura. Baley, che inizialmente era andato piano, fu costretto ad aumentare la velocità e la cosa lo irritò.

Il robot si teneva al passo e non mostrava nessuna difficoltà. Baley si chiese addirittura se R. Daneel non procedesse più lentamente di quel che poteva. Arrivò alle interminabili carreggiate della strada celere e saltò a bordo con spericolatezza; l’automa lo seguì facilmente.

Baley era rosso. Deglutì un paio di volte e disse: «Starò quaggiù con te».

«Quaggiù?» L’automa, che non sembrava fare caso né al rumore né al ritmico ondeggiare della piattaforma, disse: «Forse le mie informazioni sono sbagliate, ma credevo che la qualifica C-5 desse diritto a un sedile ai livelli superiori, in certe fasce orarie.»

«Infatti è così. Io posso andare a sedermi, tu no.»

«Perché no?»

«L’hai detto tu, Daneel. Ci vuole il C-5.»

«Lo so benissimo.»

«E tu non ce l’hai.» Parlare era difficile: al livello inferiore, meno protetto dal rivestimento di vetro, il sibilo dell’aria era più forte. Baley, inoltre, era comprensibilmente ansioso di mantenere la voce bassa.

R. Daneel ribatté: «Perché non dovrei avere il C-5? Sono il tuo collaboratore, e a quanto mi è stato detto ho la stessa qualifica».

Da una tasca della camicia trasse un cartoncino rettangolare dall’aria genuina. Il nome segnato sul rettangolo era Daneel Olivaw, senza l’iniziale discriminante. La qualifica era C-5.

«In tal caso vieni su» disse Baley, piatto.

Una volta seduto Baley guardò dritto davanti a sé, pieno di rabbia verso se stesso e fin troppo consapevole del robot seduto accanto a lui. Era stato colto in contropiede due volte: la prima per non aver riconosciuto R. Daneel come automa e la seconda per non aver immaginato che R. Daneel doveva avere una qualifica pari alla sua. E questa era mancanza di logica.

Il guaio è che Baley non era l’investigatore dei miti popolari: non era incapace di sorpresa e imperturbabile d’aspetto, non era adattabile all’infinito e non possedeva un cervello che funzionava come la folgore. Non aveva mai pensato d’esserlo, ma era la prima volta che gli dispiaceva.

E gli dispiaceva perché R. Daneel Olivaw, al contrario, sembrava la perfetta incarnazione di quel mito.

Per forza: era un robot.

Baley cominciò a cercare di giustificarsi. Era abituato agli automi da ufficio, come R. Sammy, e quindi si era aspettato una creatura con la pelle di plastica dura e lucida, dal colore quasi cadaverico. Si era aspettato un’espressione fissa in un’eterna smorfia di sciocco buonumore. Si era aspettato movimenti a scatto e insicuri.

R. Daneel non era niente di tutto questo.

Baley arrischiò un’occhiata rapida e furtiva all’automa che gli sedeva a fianco. R. Daneel si girò simultaneamente per incrociare il suo sguardo e fare un cenno solenne con la testa. Quando aveva parlato le labbra si erano aperte e chiuse con naturalezza, non erano rimaste socchiuse come quelle dei robot terrestri. E a Baley era parso d’intravvedere una lingua articolante.

Pensò: "Perché se ne sta seduto così calmo? Lo scenario deve essere completamente nuovo, per lui. E poi rumori, luci, folla!".

Baley si alzò, sfiorò R. Daneel e disse: «Seguimi!».

Via dalla strada celere, giù verso i nastri deceleranti.

Baley pensò: "Dio mio, che dirò a Jessie?".

La vista dell’automa aveva allontanato quel pensiero dalla sua mente, ma ora ci tornava con terribile urgenza; stavano decelerando, e l’arteria locale li avrebbe presto portati nelle fauci del Lower Bronx. Il settore di Baley.

Disse: «Daneel, tutto quello che vedi è un unico edificio. L’intera Città, con i suoi venti milioni di abitanti, è un gigantesco blocco senza interruzioni, con le strade celeri che lo percorrono a cento chilometri all’ora. Ci sono quasi quattrocento chilometri di corsie veloci; per non parlare delle centinaia e centinaia di strade locali».

Fra poco, Baley pensò, mi vanterò di quante tonnellate di lievito consuma ogni giorno la Città di New York e di quanti metri cubi d’acqua beve. E quanti megawatt per ora producono le pile atomiche.

Daneel disse: «Ho ricevuto queste e altre informazioni insieme alle istruzioni».

Baley pensò: "Probabilmente sa tutto del nostro cibo, le nostre bevande e la nostra situazione energetica. Perché tentare di impressionare un robot?".

Si trovavano sulla 182a Strada Est, e fra meno di duecento metri avrebbero trovato i montacarichi che servivano gli strati di appartamenti del settore. Fra gli altri, quello di Baley.

Era sul punto di dire "Da questa parte", quando fu bloccato da un gruppo di persone che si accalcavano davanti alla porta d’energia di uno dei negozi che si aprivano al pianoterra del settore.

Baley chiese alla persona più vicina che cosa succedesse, e per farlo sfoderò automaticamente un tono autoritario.

L’uomo a cui si era rivolto, che stava in punta di piedi, rispose: «Sia dannato se lo so. Mi trovavo qui per caso».

Qualcuno disse, eccitato: «Hanno portato quei maledetti R. anche qui! Penso che cercheranno di sbolognarceli. Dio, come ne farei a pezzi uno volentieri!».

Baley dette un’occhiata nervosa a Daneel, ma se questi aveva capito il senso della frase non lo diede assolutamente a vedere.

Baley si fece largo tra la folla. «Fatemi passare, fatemi passare. Polizia!»

Gli fecero largo, e Baley sentì varie frasi smozzicate alle sue spalle.

«… farli a pezzi, bullone per bullone. Spaccargli le giunture lentamente…» Qualcuno rideva.

Baley fece una valutazione a freddo: la Cittàera il culmine dell’efficienza, ma chiedeva parecchio ai suoi abitanti. Chiedeva loro di assoggettarsi a una ferrea routine e di piegare le esigenze individuali a un controllo rigoroso, scientifico. Di tanto in tanto le forze represse esplodevano.

Ricordò i disordini intorno alla Barriera.

Motivi per odiare i robot ne esistevano certamente. Uomini che si trovavano di fronte alla prospettiva del declassamento dopo una vita di sacrifici (e che, quindi, sarebbero scesi al livello del minimo indispensabile a sopravvivere, se pure ce l’avrebbero fatta) non si potevano biasimare quando se la prendevano con gli automi. Era il minimo che ci si potesse aspettare, e i robot erano un bersaglio ideale, concreto.

La politica del governo e i suoi slogan (come "Produzione più alta con il lavoro degli automi") erano troppo distanti per rappresentare un bel capro espiatorio.

Il governo parlava di necessario dolore; scuoteva la gran testa collettiva e assicurava i cittadini, compreso, che dopo un iniziale periodo di difficoltà sarebbe seguita per tutti una vita diversa e migliore.

Tuttavia il movimento medievalista guadagnava terreno e i provvedimenti di declassamento lo alimentavano. Gli uomini erano disperati, e il confine tra l’amara frustrazione e il selvaggio bisogno di distruzione è spesso facilmente scavalcato.

In quel momento mancavano pochi minuti perché la folla esplodesse in una feroce sequenza di sangue e vandalismo.

Baley si fece strada a spintoni verso la porta di energia.

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