In cima ai livelli dei settori più ricchi ci sono i solarium naturali, dove un divisorio di quarzo con un rivestimento mobile di metallo esclude l’aria ma lascia entrare la luce del sole. Là, mogli e figlie dei più alti funzionari della Città prendono la tintarella. E là, ogni sera, si ripete un fenomeno unico.
Cade la notte.
Nel resto della Città (compresi i solarium artificiali, dove milioni di persone, a turno e per un tempo rigidamente stabilito, possono esporsi alle lampade a raggi ultravioletti) il decorso della giornata è stabilito da un calendario convenzionale.
L’attività produttiva potrebbe continuare senza problemi ventiquattr’ore su ventiquattro, in tre turni di otto ore o in quattro di sei ore. Non ci sarebbe differenza fra "notte" e "giorno", ma luce e lavoro potrebbero seguire un ciclo ininterrotto. Non mancano mai i riformatori civici che periodicamente suggeriscono un’innovazione del genere, nell’interesse dell’economia e dell’efficienza.
Ma è una proposta che non verrà mai accettata.
La maggior parte dei vecchi costumi terrestri sono stati aboliti nell’interesse delle già citate efficienza e produttività: lo spazio, la privacy e perfino, in parte, il libero arbitrio. Dopotutto erano prodotti della civiltà, e non più vecchi di diecimila anni.
L’abitudine di dormire la notte, tuttavia, è vecchia quanto l’uomo: un milione di anni. Non è facile rinunciarci. Benché nessuno si accorga che sta scendendo la sera, le luci dei settori abitati si abbassano e il ritmo della Città rallenta. Benché nessuno possa distinguere il mezzogiorno dalla mezzanotte in base ai fenomeni cosmici, l’umanità continua a regolarsi sulle lancette dell’orologio anche nel corridoi delle Città.
Le strade celeri si vuotano, i rumori della vita si attenuano, la folla che brulica nelle colossali gallerie scema; New York City riposa sull’emisfero in ombra, anche se nessuno se ne accorge. E i suoi abitanti dormono.
Elijah Baley non dormiva. Era a letto e le luci erano spente, ma questo era tutto.
Jessie era stesa accanto a lui, immobile nelle te nebre. Non la sentiva muovere da un po’.
Oltre la parete, nella stanza accanto, riposava R. Daneel Olivaw (sdraiato? in piedi? seduto? Baley si domandò cosa).
Baley sussurrò: «Jessie!». E di nuovo: «Jessie!».
La sagoma scura accanto a lui si mosse lievemente. «Che cosa vuoi?»
«Jessie, non rendermelo ancora più difficile.»
«Avresti dovuto dirmelo.»
«E quando? Stavo pensando al modo migliore per farlo, ma tu… per Giosafatte!»
«Ssst.»
La voce di Baley si ridusse di nuovo a un sussurro. «Come l’hai scoperto? Perché non me lo dici?»
Jessie si girò dalla sua parte. Lije sentiva gli occhi che lo fissavano nel buio.
La voce di Jessie fu un’impercettibile vibrazione nell’aria. «Lije, quella cosa… può sentirci?»
«No, se parliamo così piano.»
«Come fai a saperlo? Potrebbe avere orecchie speciali che captano i più piccoli suoni. I robot Spaziali possono fare qualsiasi cosa.»
Baley lo sapeva. La propaganda prorobot non faceva che elencare i miracolosi poteri degli automi Spaziali, la loro durata, i sensi in più, i servigi che rendevano all’umanità in centinaia di nuovi modi. Personalmente Lije pensava che quel tipo di pubblicità fosse controproducente. I terrestri odiavano i robot a causa della loro potenza.
Sussurrò: «Non Daneel. L’hanno fatto uguale a noi di proposito. Volevano che venisse accettato come essere umano, quindi deve avere sensi come i nostri».
«Come lo sai?»
«Se ne avesse di più correrebbe il rischio di tradirsi. Farebbe troppo, saprebbe troppo eccetera.»
«Forse.»
Di nuovo il silenzio.
Passò un minuto e Baley tentò per la seconda volta. «Jessie, se lasci perdere questa storia fino a che… fino a che… insomma, non è giusto che tu sia arrabbiata.»
«Arrabbiata? Oh, Lije, stupido. Non sono arrabbiata, sono spaventata. A morte.»
Deglutì e gli strinse il collo del pigiama. Per un po’ rimasero stretti insieme, e la sensibilità ferita di Baley si placò, lasciando il posto alla preoccupazione.
«Perché, Jessie? Non c’è nulla di cui preoccuparsi, te lo giuro. È innocuo.»
«Non puoi liberarti di lui, Lije?»
«Sai che non posso. È una faccenda imposta dal Dipartimento, io non c’entro.»
«Che tipo di storia è, quella di cui vi state occupando? Dimmelo, Lije.»
«Jessie, mi meravigli.» Cercò la sua guancia nel buio e la carezzò. Era bagnata. Gliel’asciugò con la manica del pigiama.
«Stammi a sentire, ora» disse teneramente. «Ti stai comportando come una bambina.»
«Di’ a quelli del Dipartimento che assegnino il caso a qualcun altro, di qualunque cosa si tratti. Per favore, Lije.»
La voce di Baley s’indurì un poco. «Jessie, sei la moglie di un poliziotto da parecchi anni e sai che un incarico è un incarico.»
«Ma perché proprio tu?»
«Julius Enderby…»
Jessie s’irrigidì fra le sue braccia. «Avrei dovuto capirlo. Perché non dici a Julius Enderby che il lavoro sporco lo faccia qualcun altro, una volta tanto? Hai sopportato abbastanza, Lije, e questo è veramente…»
«D’accordo, d’accordo» disse lui per calmarla.
Lei si rilassò e cominciò a tremare.
"Non capirà mai" pensò Baley.
Fin dai tempi del fidanzamento Julius Enderby era stato fra loro la pietra della discordia. Enderby aveva frequentato la Scuola di Studi Amministrativi della Città, due classi più avanti di Baley. Quando Baley aveva superato i test attitudinali e la neuranalisi, ritrovandosi in coda per un posto alla polizia, aveva trovato Enderby ancora davanti a lui. Faceva parte della squadra investigativa.
Baley aveva seguito le orme dell’ex-compagno di studi, ma a una distanza sempre più grande. Non era colpa di nessuno: Baley era capace quanto bastava, efficiente quanto bastava, ma gli mancava un quid che l’altro aveva. Enderby si adattava perfettamente alla macchina amministrativa. Era una di quelle persone nate per la gerarchia, e che in un ambiente burocratico si sentono come in una seconda pelle.
Il questore non era un faro, e Baley lo sapeva. Aveva parecchie fisime infantili, come ad esempio le periodiche ma vistose crisi di medievalismo; tuttavia era diplomatico, non offendeva nessuno, prendeva gli ordini con grazia e li dava con la giusta mistura di fermezza e gentilezza. Riusciva ad andare d’accordo perfino con gli Spaziali. Forse era troppo ossequioso nei loro confronti (Baley pensava che lui non ci sarebbe mai riuscito, e che sarebbe esploso dopo poche ore, ma era un’illazione perché non aveva mai dovuto frequentarne), e tuttavia aveva fatto in modo che gli Spaziali si fidassero di lui. Questo lo rendeva estremamente utile alla Città.
In un servizio pubblico dove le capacità diplomatiche e sociali contavano più dell’abilità individuale, dunque, Enderby aveva salito la scala in fretta ed era arrivato al posto di questore quando Baley era ancora un C-5. Baley non provava risentimento per questo, anche se, come ogni essere umano, rimpiangeva che lo scarto fosse così evidente. Enderby non aveva dimenticato la vecchia amicizia che c’era stata fra loro, e con i suoi metodi più o meno tortuosi cercava di farsi perdonare il successo aiutando Baley come poteva.
Avergli assegnato R. Daneel come compagno era un tipico esempio dei suoi sistemi. L’incarico era spinoso e pieno di problemi, ma non c’era dubbio che l’uomo che l’avesse portato a termine sarebbe avanzato di parecchio nella scala. Il questore avrebbe potuto offrire l’opportunità a un altro, e ciò che aveva detto quella mattina (il fatto che era Lije a fargli un favore, accettando) mascherava ma non nascondeva una realtà ben diversa.
Jessie non vedeva mai le cose in questi termini. In occasioni simili che si erano verificate in passato aveva detto: "È tutta colpa del tuo stupido indice di lealtà. Sono stanca di sentire che ti apprezzano solo per il senso del dovere. Pensa a te, una volta ogni tanto. Ho notato che gli alti papaveri non parlano mai del loro indice".
Baley era steso nel letto, rigido, e non riusciva a dormire. Jessie doveva calmarsi, lui doveva pensare. Doveva essere certo dei suoi sospetti. Piccoli frammenti si davano la caccia nel suo cervello e cercavano di mettersi insieme. Poco a poco formarono una specie di schema.
Jessie si mosse e il materasso ondeggiò.
«Lije?» Le labbra gli sfioravano le orecchie.
«Cosa?»
«Perché non ti dimetti?»
«Non essere sciocca.»
«Perché no?» Si era di colpo infervorata. «È l’unico sistema per liberarti di quell’orribile robot. Vai in ufficio e di’ a Enderby che sei stufo.»
Baley rispose freddamente: «Non posso dimettermi nel mezzo di un caso importante. Non posso buttare il lavoro nell’inceneritore tutte le volte che voglio. Uno scherzo del genere comporta il declassamento per giusta causa».
«Ammettiamolo pure. Puoi ricominciare a salire dal basso, Lije, puoi farcela; ci sono una decina di posti in cui potresti prendere servizio.»
«L’amministrazione della Città non assume i declassati per giusta causa. Il lavoro manuale è l’unica cosa che mi verrebbe concesso di fare, e lo stesso dicasi per te. Bentley perderebbe i privilegi che ha ereditato. Per l’amor di Dio, Jessie, tu non sai che significa.»
«L’ho letto, però, e sono pronta» sussurrò lei.
«Sei matta. Veramente matta.» Baley si sentiva tremare. Con l’occhio della mente vedeva la familiare immagine di suo padre disfarsi lentamente in attesa della morte.
Jessie sospirò pesantemente.
Baley cercò di non pensare a lei, e disperato tornò allo schema che stava costruendo.
Poi, a gola stretta, disse: «Jessie, devi spiegarmelo. Come hai scoperto che Daneel è un robot? Che cosa te l’ha fatto capire?».
Lei cominciò: «Be’…», ma s’interruppe. Era la terza volta che cercava di dare una spiegazione e non ci riusciva.
Baley le strinse una mano fra le sue, con violenza. Voleva che parlasse. «Per favore, Jessie. Che cosa ti spaventa?»
Lei rispose: «Ho solo indovinato, Lije. Ho indovinato che era un robot».
«Non c’era niente che potesse fartelo supporre, Jessie. Prima di uscire non la pensavi così, vero?»
«No, ma poi ho riflettuto.»
«Dimmi la verità.»
«Va bene, Lije. Nel Personale le ragazze spettegolavano: sai come sono fatte, parlano di tutto.»
"Le donne!" pensò Baley.
«Comunque la voce si è sparsa» disse Jessie. «In tutta la Città.»
«In tutta la Città?» Baley provò un improvviso e selvaggio senso di trionfo. Un altro pezzo andava a posto!
«Così sembra. Le ragazze parlavano di un robot Spaziale sguinzagliato per New York. Dicevano che era identico a un uomo e che doveva lavorare con la polizia. Mi hanno fatto perfino qualche domanda. Si sono messe a ridere e hanno detto: "Il tuo Lije ne sa qualcosa, Jessie?". Io ho risposto, ridendo: "Non fate le stupide!".
«Poi siamo andate a vedere l’eterica e io ho cominciato a riflettere sul tuo collega. Ricordi quelle fotografie che hai portato a casa, quelle scattate da Julius Enderby a Spacetown, per farti vedere come sono i robot degli Spaziali? Be’, ho pensato che il tuo collega ci assomigliava, e mi sono detta: Oh Dio, qualcuno può averlo riconosciuto nel negozio di scarpe, e adesso è con Lije… Così ho inventato che avevo il mal di testa e sono corsa qui…»
Baley disse: «Calmati, cara, calmati. Torna in te. Perché hai paura? Non di Daneel, immagino: ti sei comportata splendidamente con lui quando sei tornata a casa. Quindi…»
Si interruppe e sedette in mezzo al letto, gli occhi inutilmente sgranati nel buio.
Sentì sua moglie muoversi al suo fianco. Con la mano le cercò le labbra e vi premette le dita con forza. Jessie cercò di resistere, afferrandogli il polso, ma lui premette con più forza.
Poi, all’improvviso, la lasciò. Lei gemette.
A bassa voce Lije disse: «Mi dispiace, cara. Stavo ascoltando».
Scivolò dal letto e si applicò una pellicola di Plastofilm tiepido alle piante dei piedi. Aprì una fessura della porta che dava nel soggiorno e aspettò un momento. Non successe niente. Era tutto tranquillo, riusciva a sentire il respiro sottile di Jessie dal letto. Poi il rumore sordo del proprio sangue gli riempì le orecchie.
Baley infilò una mano nella fessura della porta e scivolò verso un punto della parete che conosceva a memoria. Le dita si strinsero sulla manopola che serviva ad accendere la luce. Esercitò una lievissima pressione e il soffitto risplendette di un lucore pallido, debolissimo; così debole che metà della stanza rimase in penombra.
Aveva visto abbastanza, comunque. La porta principale era chiusa e il soggiorno era tranquillo e deserto.
Rimise l’interruttore in posizione e tornò a letto.
Era la prova che cercava. Ora tutti i pezzi combaciavano, lo schema era completo.
Jessie gli chiese, lamentosa: «Lije, cosa c’è che non va?».
«Niente che non va, Jessie. È tutto a posto. Lui non è qui.»
«Il robot? Vuoi dire che se n’è andato per sempre?»
«No, no, tornerà. Ma prima che lo faccia, rispondi alla mia domanda.»
«Che domanda?»
«Di che cosa hai paura.»
Lei non disse niente.
Baley insisté: «Hai detto di essere spaventata a morte».
«Di lui.»
«No, questo punto l’abbiamo già superato. Non ti sei mostrata impaurita in sua presenza, e sai abbastanza bene che un robot non può fare del male a un essere umano.»
Lei parlò lentamente. «Ho pensato che se la gente avesse capito che era un robot… ci sarebbe stata una sommossa. E noi saremmo stati uccisi.»
«Perché?»
«Sai come sono le sommosse.»
«Nessuno sa dov’è questo robot, giusto?»
«No, ma potrebbero scoprirlo.»
«E questo è tutto ciò che temi? Una sommossa?»
«Be’…»
«Ssst!» Costrinse Jessie a rovesciarsi sul cuscino, poi le avvicinò le labbra alle orecchie: «È tornato. Ora ascolta ma non dire una parola. È tutto a posto. Domani mattina se ne andrà e non tornerà più, te lo prometto. Non ci saranno disordini».
Si sentì soddisfatto delle proprie parole, completamente soddisfatto. Pensò che sarebbe riuscito ad addormentarsi, ora.
"Niente disordini, niente sommossa" pensò ancora una volta. "E niente declassamento."
Un attimo prima di addormentarsi, un ultimo pensiero gli attraversò il cervello: "Niente indagine. Basta. La cosa è risolta…".
Dormiva, ora.