XI Fuga sulle strade mobili

Baley strinse convulsamente la forchetta.

«Sei sicuro?» chiese senza riflettere, e appena l’ebbe detto si rese conto dell’inutilità della domanda. Non si chiede a un computer se è sicuro della risposta che sforna, e lo stesso vale per un computer con braccia e gambe.

R. Daneel disse: «Sicuro.»

«Sono vicini?»

«Non molto, sono sparpagliati.»

«Va bene, allora.» Baley tornò al proprio pasto, muovendo meccanicamente la forchetta. Dietro la espressione accigliata della lunga faccia, la mente lavorava furiosamente.

Immaginiamo che l’incidente di ieri sera sia stato organizzato da un gruppo di fanatici anti-robot; che non sia nato spontaneamente come sembrava. In un gruppo simile potrebbero esserci degli esperti, gente che ha studiato i robot a fondo per combatterli a fondo. Uno di loro potrebbe aver riconosciuto Daneel per ciò che è. (Anche il questore ha ventilato un’ipotesi del genere. Maledizione, quell’uomo ha imprevedibili risorse…).

La cosa aveva un senso. Dato che la sera prima non erano riusciti a portare a segno il colpo, forse per mancanza di organizzazione, ora stavano studiando un piano per il futuro. Se erano stati in grado di riconoscere R. Daneel, certo avevano capito che Baley era a sua volta un agente di polizia. E un agente di polizia accompagnato da un robot umanoide doveva avere un incarico speciale. (Con il senno di poi Baley riusciva a seguire abbastanza facilmente il ragionamento dei cospiratori).

Dunque, avevano messo delle spie al Municipio (o addirittura negli uffici della Centrale) per tenere d’occhio Baley e R. Daneel prima che passasse troppo tempo. E in ventiquattr’ore erano riusciti a rintracciarli: non era sorprendente. Avrebbero potuto farcela molto prima, se Baley non avesse passato gran parte del giorno a Spacetown e sull’autostrada.

R. Daneel aveva finito il pasto e sedeva tranquillo, in attesa. Le mani perfette appoggiate all’estremità del tavolo avevano un’aria di leggerezza.

«Dobbiamo fare qualcosa?» chiese.

«Qui nella mensa siamo al sicuro» rispose Baley. «Lascia che me ne occupi io. Per favore.»

Baley si guardò intorno cautamente e fu come se vedesse una mensa per la prima volta.

Persone! Migliaia di persone. Quante ne poteva contenere un posto come quello? Una volta aveva visto delle statistiche: duemila e duecento circa, dicevano. E la mensa in cui si trovavano era più grande della media.

Se qualcuno avesse gridato, all’improvviso, la parola "Robot!", se l’avesse gettata in pasto all’orda come un…

Baley non riusciva a trovare un paragone, ma cercò di non preoccuparsi. Non sarebbe successo.

Una sommossa spontanea poteva nascere ovunque, nella mensa come nei corridoi o negli ascensori. Anzi, nella mensa c’era la mancanza d’inibizione che si accompagnava all’ora dei pasti e la miccia poteva accendersi più facilmente; l’eccitazione della gente poteva degenerare in qualcosa di grave per un nonnulla.

Ma i disordini programmati erano un’altra cosa. Nella mensa gli organizzatori si sarebbero trovati in mezzo a un’enorme quantità di gente, e una volta che i piatti fossero cominciati a volare e i tavoli a fracassarsi, non sarebbe stato facile scappare. Centinaia di persone sarebbero morte e i facinorosi tra loro.

No, i disordini "sicuri" si potevano organizzare solo nelle arterie della Città, magari su un tratto di nastro mobile relativamente stretto. Il panico e l’isteria avrebbero viaggiato lentamente attraverso il quartiere e ci sarebbe stato tutto il tempo, per i caporioni, di fuggire da un nastro laterale o di immettersi sulla strada locale che li avrebbe portati ai livelli più alti, al sicuro.

Baley si sentì in trappola. Probabilmente ce n’erano altri, all’esterno. Baley e R. Daneel sarebbero stati inseguiti fino a un punto sicuro e poi la miccia sarebbe esplosa.

«Perché non li arrestiamo?» chiese l’automa.

«Servirebbe solo a precipitare le cose. Tu conosci le loro facce, vero? Non le dimenticherai?»

«Io non posso dimenticare.»

«Allora li inchioderemo, prima o poi. Per adesso cerchiamo di fare un buco nella rete che ci hanno teso. Seguimi e fai esattamente come me.»

Si alzò e mise il piatto, rovesciato, sul disco in mezzo al tavolo; poi mise a posto la forchetta. R. Daneel, che lo guardava, ripeté gli stessi gesti. Piatti e posate sparirono.

R. Daneel disse: «Si alzano anche loro».

«D’accordo. Ho la sensazione che non ci verranno troppo vicini. Non qui.»

I due si misero in fila, seguendo la scia che abbandonava la mensa; man mano che si avvicinavano all’uscita risuonava, come un canto rituale, il ticchettio delle piastre mètalliche. Ogni click scandiva la consumazione di una razione.

Baley si guardò alle spalle nella confusione e nell’alone di vapore che avvolgeva tutto, e con improvvisa vividezza ricordò una visita che aveva fatto con Ben allo Zoo Cittadino sei o sette anni prima. No, otto, perché Ben aveva appena festeggiato l’ottavo compleanno. (Accidenti, ma dove si precipitava il tempo?)

Per Ben era la prima visita allo zoo ed era tutto eccitato: dopotutto non aveva mai visto un cane o un gatto prima di allora. E poi erano arrivati alla voliera degli uccelli, altissima! Perfino Baley, che l’aveva vista non so quante volte, non era immune dal suo fascino.

C’è qualcosa, nella vista di una creatura vivente che vola, d’incomparabilmente strano, magico. Era ora di pranzo, nella gabbia dei passeri, e l’inserviente stava distribuendo i pezzetti d’avena nella lunga mangiatoia. (Gli esseri umani si erano abituati ai lieviti e ai loro derivati, ma gli animali, a loro modo più conservatori, insistevano per avere cereali autentici).

I passeri si erano buttati sul cibo a centinaia, ala contro ala, con un assordante stridio…

Questo era tutto: guardando la mensa enorme alle sue spalle, a Baley era venuta in mente la gabbia dei passeri all’ora del pasto. Provò un brivido, e pensò: "Signore, dev’esserci un modo migliore".

Ma quale? Cosa c’era che non andava in questo? Non ci aveva mai pensato prima.

Poi disse brusco, all’automa: «Sei pronto, Daneel?»

«Pronto, Elijah.»

Uscirono dalla mensa con un solo pensiero: sfuggire agli inseguitori.


C’è un gioco che i ragazzi chiamano "corri sui nastri"; le regole variano poco da Città a Città e la parte essenziale è identica ed eterna. Un ragazzo di San Francisco può giocarci con i suoi coetanei del Cairo senza problemi.

Lo scopo è di arrivare dal punto A al punto B servendosi del sistema di trasporto rapido della Città in modo che chi è "sotto" riesca a far perdere le sue tracce a quanti più inseguitori è possibile. Se chi è sotto arriva al traguardo da solo vuol dire che è veramente abile, e lo stesso vale per l’inseguitore che riesce a non farsi seminare.

Il gioco si fa di solito all’ora di punta, la sera, quando la gran quantità di pendolari rende la partita più complessa e imprevedibile. Chi è sotto parte, percorrendo i nastri acceleranti, e fa del suo meglio per confondere gli altri: ad esempio rimane su un nastro più a lungo del necessario e poi, all’improvviso, salta in un’altra direzione. Per un po’ balza da una corsia all’altra, quindi rimane di nuovo in attesa.

Povero l’inseguitore che sbaglia i calcoli e salta su un nastro troppo lontano! Prima di rendersi conto dell’errore, e a meno di non essere eccezionalmente abile, si troverà oltre l’inseguito o irreparabilmente indietro. Il giocatore inseguito sfrutterà l’errore muovendosi in tutt’altra direzione.

Una mossa che può complicare di molto il gioco consiste nel saltare sulle strade locali o direttamente su quelle celeri e precipitarsi all’improvviso sulla corsia opposta. Non è ortodosso evitare questi trucchi ma non è neppure corretto affidarsi esclusivamente ad essi.

L’attrattiva del gioco non è facilmente comprensibile da un adulto, e in particolare da un adulto che non abbia mai "corso i nastri" quando era ragazzo. I giocatori vengono trattati piuttosto male dai passeggeri legittimi, ai quali danno immancabilmente fastidio. La polizia li perseguita e i genitori li puniscono, e vengono denunciati a scuola e alla subeterica. Non passa anno senza che quattro o cinque ragazzi restino uccisi nel gioco, una decina restino feriti e un certo numero di passeggeri occasionali subisca danni più o meno gravi.

Nonostante questo, le ghenghe di teen-ager continuano a "correre le strade", e più è grande il pericolo più alto è il premio in palio: gloria agli occhi dei compagni. Un giocatore abile può essere orgoglioso di sé, un inseguito che riesca sistematicamente a seminare gli altri acquista una gloria imperitura.

Elijah Baley ricordò con soddisfazione di aver corso i nastri, ai suoi tempi. Una volta aveva seminato una ghenga di venti ragazzi dal settore di Concours ai confini di Queens, attraverso tre strade celeri. In due instancabili ore si era lasciato alle spalle i più agili segugi del Bronx ed era arrivato a destinazione da solo. Si era parlato di quella corsa per mesi.

Adesso Baley aveva quarant’anni e non correva i nastri da venti, ma ricordava qualche trucco. Quello che aveva perso in agilità l’aveva guadagnato sotto altri aspetti, perché era un poliziotto. Nessuno, tranne un poliziotto con un’esperienza pari alla sua, conosceva la Città tanto bene e sapeva dove cominciava o finiva ogni vicolo d’acciaio.

Uscì dalla mensa a passo svelto ma non troppo. Da un momento all’altro si aspettava di sentire il grido di "Robot! Robot!" La fase iniziale era la più rischiosa. Contò i gradini finché sentì il primo nastro accelerante muoversi sotto di lui.

Rimase immobile un momento, mentre R. Daneel gli si metteva agilmente al fianco.

«Sono ancora dietro di noi, Daneel?» chiese Baley con un filo di voce.

«Sì, e si avvicinano.»

«Non durerà» disse Baley, fiducioso. Guardò i nastri che correvano da una parte e dall’altra, con il carico di passeggeri che gli sfiorava e urtava i fianchi sempre più velocemente: la distanza fra Baley, Daneel e gli inseguitori finalmente aumentò. Ogni giorno Baley sentiva i nastri mobili scorrergli sotto i piedi, ma da anni non piegava più le ginocchia come uno che si prepari a correrli. Provò la vecchia eccitazione del gioco e il respiro gli si fece più rapido.

Quasi dimenticava la volta che aveva sorpreso Ben fare il gioco. Gli aveva fatto un lunghissimo sermone e aveva minacciato di metterlo sotto sorveglianza della polizia.

Leggero, veloce, a un ritmo due volte più rapido di quello considerato sicuro, cominciò a destreggiarsi fra i nastri. Si piegò in avanti per sostenere l’accelerazione; la strada locale ronzava davanti a loro. Per un attimo sembrò che Baley volesse abbordarla, ma poi cominciò a indietreggiare, indietreggiare, fendendo la folla che si accalcava sui nastri più lenti.

Baley si lasciò trasportare dalla corsia dei venti chilometri l’ora.

«Quanti ne abbiamo addosso, Daneel?»

«Solo uno, Elijah.» Il robot era al suo fianco, ma non sbuffava e non ansimava.

«Dev’essere stato un buon giocatore, ai suoi tempi. Ma non durerà nemmeno lui.»

Pieno di fiducia in se stesso, provò una sensazione che ricordava solo in parte e che risaliva alla sua giovinezza. Consisteva nella partecipazione a un rito che gli altri non conoscevano, nella sensazione puramente fisica del vento sulla faccia e tra i capelli, in un lieve senso di pericolo.

«Questo lo chiamano il tuffo laterale» disse a R. Daneel a bassa voce.

Il suo passo elastico divorava le distanze, ma continuava a muoversi sullo stesso nastro, evitando la folla dei passeggeri con minimo sforzo. Continuò ad avanzare, tenendosi vicino al bordo del nastro, finché il movimento regolare della sua testa tra la folla diventò ipnotico a causa della costante velocità. Era proprio quello che voleva.

Poi, senza fermarsi, si spostò di cinque centimetri sul lato e passò sul nastro vicino. I muscoli gli fecero male e lottò per mantenersi in equilibrio.

Si fece largo tra una folla di pendolari e balzò sulla corsia dei settanta chilometri.

«Come va, Daneel?» domandò.

«È sempre dietro di noi» fu la tranquilla risposta.

Baley strinse le labbra. Non restava che usare le piattaforme mobili: uno scherzo che richiedeva la massima coordinazione, forse più di quella che Baley possedeva.

Si guardò intorno rapidamente. Dove si trovavano? La 22a Strada-B sfrecciò davanti a loro. Baley fece i suoi calcoli rapidamente, poi cominciò a saltare: di nastro in nastro, con velocità e sicurezza, descrivendo una curva che puntava verso la piattaforma della strada locale.

Le facce impersonali di uomini e donne, incattivite dalla noia del viaggio, si accendevano d’indignazione quando Baley e R. Daneel abbordavano un nuovo nastro e si facevano largo tra i corrimano.

«Ehi, attento!» gridò una donna con voce lamentosa, stringendosi il cappello.

«Mi dispiace» disse Baley, senza fiato.

Continuò ad avanzare tra i passeggeri in piedi e si preparò a saltare sul nastro successivo. All’ultimo momento un passeggero gli diede un pugno sulla schiena, infuriato. Baley barcollò e tentò disperatamente di recuperare l’equilibrio.

Evitò un corrimano e raggiunse il nastro, ma l’improvviso cambio di velocità lo costrinse in ginocchio e poi sul fianco. Ebbe l’orribile visione di uomini che si scontravano con lui e cadevano come birilli, di una spaventosa catena d’incidenti su tutto il nastro, una di quelle "frittate d’uomini" che mandano tanta gente all’ospedale.

Ma il braccio di R. Daneel gli passò intorno alla schiena e lo sollevò con più forza di un uomo.

«Grazie» ansimò Baley, e non ci fu tempo per altro.

Continuò lungo i nastri deceleranti seguendo un disegno complicato il cui scopo era di raggiungere la giuntura a "V" della strada celere al punto esatto d’incrocio. Senza perdere il ritmo, Baley accelerò di nuovo e dopo un po’ si trovò davanti alla strada celere, che abbordò.

«Ci segue ancora, Daneel?»

«Io non vedo nessuno, Elijah.»

«Bene. Che campione saresti stato, a "corri sui nastri"…! Oops, adesso! Salta!»

Di nuovo su una strada locale, lungo le strisce deceleranti che conducevano a una porta dall’aspetto grande e ufficiale. Una guardia si alzò in piedi.

Baley mostrò la piastra di riconoscimento: «Ragioni ufficiali».

Entrarono.

«Una centrale energetica» disse Baley, rapidamente. «Questo farà perdere completamente le nostre tracce.»

Era già stato altre volte in una centrale energetica, questa inclusa, ma l’abitudine non attenuava il suo disagio reverenziale. E la sensazione spiacevole era acuita dal pensiero che suo padre, una volta, era stato al vertice di una centrale identica. Cioè, prima che…

Furono avvolti dal gigantesco ronzio dei generatori nascosti nel pozzo della centrale, dal leggero ma inconfondibile odore dell’ozono nell’aria, dalla cupa e silenziosa minaccia delle linee rosse che delimitavano l’area dove nessuno poteva avventurarsi senza tuta protettiva.

Da qualche parte (Baley non sapeva esattamente dove) circa mezzo chilo di materiale fissile veniva consumato ogni giorno. E ogni giorno i prodotti della fissione radioattiva, le cosiddette "ceneri calde", venivano convogliate dalla pressione dell’aria in condotti di piombo che le scaricavano in lontane caverne scavate nell’oceano, a quindici chilometri dalla costa e a quasi ottocento metri sotto il fondo. A volte Baley si domandava che sarebbe successo quando le caverne si fossero riempite.

Disse a R. Daneel, con una certa rudezza: «Stai lontano dalle righe rosse.» Poi rifletté un momento e aggiunse più mite: «Ma suppongo che per te non abbia importanza».

«Si tratta di radioattività?» chiese Daneel.

«Sì.»

«Allora ha importanza. I raggi gamma compromettono il delicato equilibrio del cervello positronico, e i danni si vedrebbero molto prima su di me che su di te.»

«Vuoi dire che potrebbero ucciderti?»

«Voglio dire che dovrebbero mettermi un nuovo cervello positronico, e dato che non ce ne sono due perfettamente uguali, il Daneel con cui ora stai parlando sarebbe morto. In un certo senso, almeno.»

Baley dette un’occhia al robot, dubbioso. «Non lo sapevo… Saliamo questa rampa.»

«Non è un punto che venga reclamizzato. Spacetown vuole convincere la Terra della nostra utilità e resistenza, non delle nostre debolezze.»

«Allora perché me lo dici?»

R. Daneel fissò a viso aperto il compagno umano. «Tu sei il mio collega, Elijah. È bene che tu sappia quali sono i miei difetti e i miei punti deboli.»

Baley si schiarì la gola, ma non trovò niente da aggiungere.

«Da questa parte» disse un attimo dopo. «Ci troviamo a pochi passi dal nostro appartamento.»


Era un appartamento sporco, proletario, composto da una stanza con due letti, un armadio e due sedie pieghevoli. C’era uno schermo subeterico incassato nella parete, ma non si poteva regolare con i comandi manuali e funzionava solo a certe ore (e allora non c’era verso di spegnerlo). Niente lavandino, nemmeno disattivato, niente angolo di cottura e bollitura dell’acqua. In un angolo c’era un piccolo condotto per le immondizie: un oggetto disadorno, brutto e spiacevolmente funzionale.

Baley si strinse nelle spalle. «Questo è quanto. Credo che riusciremo a sopportarlo.»

R. Daneel si diresse al condotto dell’immondizia e con un gesto si aprì la camicia sul petto, che sembrava liscio e, almeno alle apparenze, muscoloso.

«Che fai?» chiese Baley.

«Mi libero del cibo che ho ingerito. Se ce lo lasciassi andrebbe a male e io diventerei oggetto di disgusto.»

R. Daneel piazzò due dita sotto un capezzolo e premette in un determinato modo. Il petto si aprì longitudinalmente. R. Daneel allungò una mano all’interno e da un ricettacolo di metallo luccicante prese un sacchetto sottile e trasparente, in parte ripiegato. Lo aprì sotto gli occhi di Baley, che era prossimo all’orrore.

R. Daneel esitò, poi disse: «Il cibo è perfettamente integro perché io non mastico e non produco saliva. È stato ingerito per aspirazione, quindi è ancora mangiabile».

«Grazie, non ho fame» disse Baley gentilmente. «Liberatene.»

Il sacchetto doveva essere di plastica speciale, decise Baley, perché il cibo non vi si attaccava; uscì facilmente e finì nel tubo di scarico. "Uno spreco di cose buone" pensò l’uomo.

Sedette su uno dei letti e si tolse la camicia. «Propongo una levataccia, per domani.»

«C’è una ragione specifica?»

«I nostri amici non conoscono ancora l’ubicazione dell’appartamento, o almeno lo spero. Se ci alziamo presto staremo tanto più al sicuro. Una volta alla centrale decideremo se la nostra associazione è ancora una cosa conveniente.»

«Tu pensi di no?»

Baley si strinse nelle spalle e disse, sfatto: «Non possiamo perdere il nostro tempo a correre».

«Ma mi sembra…»

R. Daneel fu interrotto dal lampeggiare della luce scarlatta del campanello.

Baley si alzò in piedi silenziosamente e tolse il fulminatore dalla fondina. La luce scarlatta lampeggiò di nuovo.

Baley andò dietro la porta, mise il pollice sul pulsante dell’arma e fece girare l’interruttore che attivava lo spioncino unilaterale. Non era un buono spioncino: la zona trasparente era piccola e distorceva le immagini, ma bastò a rivelare il figlio di Baley, Ben.

Baley reagì immediatamente: spalancò la porta, afferrò brutalmente il polso del ragazzo che stava per suonare una terza volta e lo trascinò all’interno.

Solo lentamente Ben si riebbe dallo stupore e dalla paura mentre cercava di riprendere fiato contro la parete dove era stato scaraventato dal padre.

Si sfregò il polso e disse, afflitto: «Papà, non avresti dovuto prendermi così».

Baley guardava di nuovo attraverso la zona trasparente della porta, che aveva richiuso. Il corridoio, per quanto poteva dire, era vuoto.

«Ben, hai visto nessuno là fuori?»

«No. Cielo, papà, era solo venuto a vedere se stavi bene.»

«Perché non dovrei stare bene?»

«Non lo so. È stata mamma, piangeva e tutto il resto. Ha detto che dovevo trovarti, e che se non mi muovevo veniva lei e non sapeva quello che sarebbe successo. Mi ha costretto a venire, papà.»

«Come mi hai trovato?» chiese Baley. «Tua madre sapeva dov’ero?»

«No, ma ho chiamato il tuo ufficio.»

«E te l’hanno detto?»

Ben era sorpreso dalla violenza del padre. A voce bassa, rispose: «Certo. Perché, non dovevano?».

Baley e R. Daneel si guardarono in faccia.

Baley si avvicinò al figlio e disse: «Dov’è tua madre, Ben? A casa?».

«No, è andata a cena dalla nonna ed è rimasta là. Anche io devo tornare là. Voglio dire, se tutto va bene, papà.»

«Rimarrai qui, invece. Daneel, hai osservato L’esatta posizione del comunico di questo piano?»

Il robot disse: «Sì. Intendi lasciare la stanza per usarlo?».

«Devo mettermi in contatto con mia moglie.»

«Se posso suggerirlo, questo è compito più adatto a Bentley. La cosa comporta un rischio e lui è meno importante.»

Baley spalancò gli occhi: «Ma che dici, tu…».

Poi si calmò: «Dannazione, che mi arrabbio a fare?».

Continuò, con più calma: «Tu non capisci, Daneel. Fra noi terrestri è costume non esporre i propri figli al pericolo, anche se può sembrare una cosa logica».

«Pericolo!» esclamò Ben, quasi deliziato. «Che sta succedendo, papà? Eh, papà?»

«Niente, Ben. E comunque non sono affari tuoi, capito? Preparati ad andare a letto. Ti voglio a letto, quando sarò tornato.»

«Oh, papà, non aprirò bocca con nessuno. Te lo giuro.»

«A letto!»

«Oh, papà!»


Baley spinse indietro il bordo della giacca per essere pronto a sparare. Si trovava nel comunico di zona, davanti a un ricevitore al quale aveva dato il suo numero personale; ora aspettava, mentre un computer distante venticinque chilometri controllava per vedere se la chiamata era inoltrabile. Si trattò di un’attesa breve, perché un agente investigativo non ha limite al numero di chiamate che può fare in servizio, e quando fu autorizzato dettò il numero di sua suocera.

Il piccolo schermo alla base dell’apparecchio si accese e un viso di donna lo fissò.

Baley disse, con un filo di voce: «Passami Jessie, mamma».

Jessie arrivò subito, perché evidentemente si aspettava la chiamata. Baley la guardò un attimo, poi tolse l’immagine.

«Va bene, Jessie, Ben è qui. Cosa c’è che non va?» Teneva d’occhio l’ambiente intorno a lui con estrema cautela. Non gli sfuggiva niente.

«Stai bene? Non sei nei guai?»

«Sto bene, Jessie, questo lo vedi. Ora calmati.»

«Oh, Lije, sono stata così in pena…»

«Perché?» le chiese a gola stretta.

«Lo sai. Il tuo collega.»

«Cosa c’è che non va nel mio collega?»

«Te l’ho detto la notte scorsa. Ci saranno guai.»

«Queste sono sciocchezze. Stanotte Ben rimane da me, tu vai a letto presto. Ciao, tesoro.»

Interruppe la comunicazione e fece due lunghi respiri prima di tornare indietro. Aveva la faccia grigia per la preoccupazione e la paura.

Quando Baley rincasò Ben era in mezzo alla stanza; una delle lenti a contatto che usava era posata nel recipiente, l’altra l’aveva ancora nell’occhio.

Il ragazzo disse: «Oh, papà, non c’è acqua in questo posto? Il signor Olivaw dice che non posso andare al Personale».

«Ha ragione, non puoi. Rimettiti quella cosa nell’occhio, Ben, non ti farà male dormirci per una notte.»

«Okay.» Ben rimise la lente, posò il recipiente e s’infilò a letto. «Cielo, che materasso!»

Baley disse a R. Daneel: «Penso che non ti dia fastidio restare seduto».

«No, certo. A proposito, m’interessano gli strani vetrini che Bentley porta agli occhi. Tutti i terrestri li usano?»»

«No, solo alcuni» rispose Baley, distratto. «Io non ne ho bisogno, per esempio.»

«A cosa servono?»

Baley era troppo assorbito dai suoi pensieri per rispondere. E non erano pensieri rosa.


Le luci erano spente ma Baley era ancora sveglio. Sentiva vagamente il respiro di Bentley, profondo e regolare anche se un po’ roco. Girò la testa di lato e gli sembrò di vedere R. Daneel, seduto e assolutamente immobile, la faccia rivolta alla porta.

Poi Baley si addormentò e sognò Jessie. Sua moglie precipitava nella camera di fissione di una centrale atomica, e precipitando protendeva le braccia verso di lui, e urlava; ma lui riusciva soltanto a guardare, paralizzato, al di qua della riga rossa, finché il corpo di Jessie rimpiccioliva sempre più e diventava un puntino.

Guardava, e sapeva di essere stato lui a spingerla nella fornace.

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