XIII Ora tocca alla macchina

«Non è così» disse R. Daneel, tranquillo.

«Davvero? Lasciamo che sia il dottore a deciderlo. Dottor Gerrigel…»

«Signor Baley?» Il robotista, il cui sguardo si era diviso faticosamente fra il robot e l’agente, fissò ora l’uomo.

«L’ho fatta venire qui per avere la sua autorevole analisi di questo robot. Posso fare in modo che abbia a disposizione i laboratori della Città. Se avrà bisogno di uno strumento che manca, glielo procurerò. Voglio una risposta rapida e precisa, e finirla con questa storia.»

Baley si alzò. Aveva parlato con calma, ma dentro si sentiva prossimo all’isteria. Se avesse potuto afferrare il dottor Gerrigel per il collo ed estorcergli seduta stante le risposte che gli servivano, l’avrebbe fatto senza riguardi.

«E allora, dottor Gerrigel?»

Lo scienziato fece un risolino nervoso. «Mio caro signor Baley, non ho bisogno di un laboratorio.»

«Come mai» chiese Baley, apprensivo. Stava in piedi, con i muscoli tesi e sul punto di mettersi a tremare.

«Non è difficile mettere alla prova la Prima Legge. Non l’ho mai fatto, questo è vero, ma la procedura è semplicissima.»

Baley inspirò lentamente e pòi lasciò che i polmoni si liberassero. «Vuole spiegarmi che cosa intende? Vuole dire che la prova può essere fatta qui?»

«Sì, certo. Le darò un termine di paragone, signor Baley. Se fossi un medico e dovessi esaminare il contenuto di zucchero del sangue di un paziente avrei bisogno del laboratorio. Se dovessi analizzarne il metabolismo, o le funzioni corticali, o il patrimonio genetico per trovare una malformazione congenita, tutto questo richiederebbe complesse apparecchiature. Ma se volessi accertarmi che il paziente vede mi basterebbe passargli una mano davanti agli occhi; e se volessi scoprire se è vivo o morto sarebbe sufficiente tastargli il polso.

«Quello che voglio dire è che più è importante la facoltà messa alla prova, più semplice è l’attrezzatura necessaria. Lo stesso vale con i robot: la Prima Legge è fondamentale, influisce su tutto il resto. Se non ci fosse, il robot non riuscirebbe a compiere alcune azioni basilari.»

Mentre parlava prese un oggetto piatto, nero, che gonfiò alle dimensioni di un visore per libro. Inserì una bobina piuttosto consunta nel ricettacolo e prese un cronometro. Poi incastrò una piccola serie di pezzi di plastica che formarono una specie di regolo calcolatore, con tre scale graduate indipendenti e mobili. Baley non ne aveva mai viste di simili.

Il dottor Gerrigel diede un colpetto al visore e fece uno dei suoi piccoli sorrisi, come se la prospettiva di lavorare un poco lo mettesse di buonumore.

Disse: «È il mio Manuale di robotica. Non vado da nessuna parte senza di lui, fa parte dell’abbigliamento». Era tutto soddisfatto, e ci teneva che si notasse.

Si portò il visore agli occhi e cominciò a regolare i comandi. L’apparecchio ronzava e ogni tanto si fermava.

«Indice incorporato» disse il robotista, un po’ impacciato perché il visore gli copriva parte della bocca. «L’ho costruito io stesso, risparmia un mucchio di tempo. Ma non è questo il punto, vero? Vediamo. Umm, vuoi avvicinare la tua sedia a me, Daneel?»

R. Daneel obbedì. Durante i preparativi fatti dal robotista aveva osservato attentamente ma senza la minima emozione.

Baley continuò a tenerlo sotto tiro.

Quello che avvenne poi lo confuse e lo disorientò. Il dottor Gerrigel fece una serie di domande e compì una serie di azioni che sembravano senza senso, interrompendosi ogni tanto per controllare la triplice scala graduata e per dare un’occhiata al visore.

Una volta chiese: «Se abbiamo due cugini con cinque anni di differenza, e il più giovane è una ragazza, di che sesso sarà il più anziano?».

Daneel rispose, com’era ovvio: «Impossibile dirlo in base alle informazioni fornite».

Al che il dottor Gerrigel diede un’occhiata al cronometro e tese la mano destra: «Vuoi toccarmi il medio con il terzo dito della mano sinistra?».

Daneel obbedì prontamente.

In un quarto d’ora il dottor Gerrigel aveva finito. Usò il regolo calcolatore per un’ultima e silenziosa verifica, poi lo smontò. Mise via il cronometro, tolse il Manuale di robotica dal visore e compresse quest’ultimo.

«È tutto?» chiese Baley, aggrottando le sopracciglia.

«È tutto.»

«Ma è ridicolo! Non gli ha chiesto niente che riguardi la Prima Legge.»

«Caro signor Baley, quando il medico le colpisce il ginocchio con un martelletto lei non dubita che abbia tentato di accertare la presenza di un’affezione nervosa, vero? E quando le guarda gli occhi e giudica la reazione delle sue iridi alla luce, non si sorprende se è in grado di scoprire un’eventuale dedizione a certi alcaloidi…»

Baley disse: «E va bene. Qual è la sua decisione?».

«Daneel è stato fatto nel rispetto della Prima Legge.» Il robotista fece un deciso cenno affermativo.

«Non può essere» disse Baley, furioso.

Non pensava che il dottor Gerrigel riuscisse a irrigidirsi più di tanto, ma sbagliava. Gli occhi dello scienziato divennero piccoli e duri.

«Vuole insegnarmi il mio lavoro?»

«No, assolutamente» rispose Baley, cercando di calmarlo con un gesto della mano. «Ma non potrebbe essersi sbagliato? Ha detto lei stesso che nessuno conosce il modo per fabbricare un robot non-Asenio… Le farò un esempio: un cieco può leggere con l’aiuto del Braille o di uno scriptor sonoro, ma adesso immagini di non conoscere l’esistenza di questi rimedi. Potrebbe, in tutta onestà, affermare che un uomo ha gli occhi solo perché conosce il contenuto di un librofilm?»

«Sì» replicò il robotista, di nuovo cordiale. «Capisco il suo punto, ma resta il fatto che un cieco non legge facendo uso degli occhi, ed è proprio questo, per continuare nella sua analogia, che io ho tentato di accertare. Mi creda, a prescindere da quello che un robot non-Asenio può o non può fare, è certo che R. Daneel è fornito della Prima Legge.»

«Non può aver falsificato le risposte?» Baley stava perdendo, e lo sapeva.

«Certamente no, questa è la differenza fra un robot e un uomo. Un cervello umano, e se è per questo di qualunque mammifero, non può essere analizzato da nessun sistema matematico conosciuto. Nessuna risposta, quindi, può essere considerata una certezza. Il cervello robotico, al contrario, è completamente analizzabile, o non potremmo costruirlo. Sappiamo esattamente quali devono essere le risposte a determinati stimoli e nessun robot può sottrarsi a questo fatto. Ciò che lei chiama falsificazione non esiste nell’orizzonte mentale di un automa.»

«Allora facciamo degli esempi pratici. R. Daneel ha puntato un fulminatore su una folla di uomini, l’ho visto io. Non ha sparato, ma secondo me la Prima Legge avrebbe dovuto provocargli ugualmente dei rimorsi, un conflitto. Una nevrosi, se vuole. E invece, niente di tutto questo è avvenuto. Dopo era perfettamente normale.»

«Il robotista si sfregò il mento, esitante. «La faccenda è strana, lo ammetto.»

«Nient’affatto» disse improvvisamente R. Daneel.

«Collega Elijah, vuoi esaminare il fulminatore che mi hai preso?»

Baley guardò l’arma che teneva nella mano sinistra.

«Apri la camera di carica» lo esortò R. Daneel. «Ispezionala.»

Baley soppesò la situazione, poi posò la propria arma sul tavolo e con un rapido movimento aprì quella del robot.

«È vuota» disse, con un filo di voce.

«Infatti, non c’è la carica» assentì R. Daneel. «E se guarderai più attentamente, vedrai che non c’è mai stata. In quel fulminatore manca il dispositivo d’accensione, quindi non può sparare.»

Baley disse: «Hai puntato un’arma scarica sulla folla?».

«Dovevo avere un fulminatore, o non sarei stato credibile come agente» spiegò R. Daneel. «Ma uno funzionante mi avrebbe permesso di nuocere a un essere umano, anche solo per incidente, e questo è impensabile. Ti avrei spiegato tutto a suo tempo, ma tu eri arrabbiato e non volevi ascoltare.»

Baley guardò il fulminatore scarico e disse a bassa voce: «Credo che questo sia tutto, dottor Gerrigel. Grazie per la collaborazione».


Baley mandò a prendere il pranzo (sformato di lievitonoci e una strana fetta di pollo fritto su un pezzo di pane biscottato) ma quando arrivò riuscì solo a guardarlo.

I suoi pensieri giravano in tondo, i lineamenti della faccia lunga sembravano scolpiti nello sconforto.

Viveva in un mondo irreale, in un mondo d’inganni.

Com’era successo? Il ricordo degli ultimi avvenimenti gli si presentò come una nebbia di sogno. Tutto era cominciato quando aveva messo piede nell’ufficio di Julius Enderby: allora era iniziato l’incubo, un incubo di delitti e di automi.

Perdinci, erano passate solo quindici ore!

Si era ostinato a cercare la soluzione a Spacetown; per due volte aveva accusato R. Daneel, una di essere un uomo in incognito e l’altra un vero robot, ma in entrambi i casi un assassino. Tutt’e due le volte l’accusa gli era stata ricacciata in gola, dimostrandosi falsa.

Lo stavano mettendo con le spalle al muro. Suo malgrado doveva cercare la risposta in Città, e dopo le ultime ore questa prospettiva l’atterriva. C’erano domande che si accalcavano alla soglia della sua mente conscia, ma che non ascoltava: sentiva che era meglio ignorarle, o non avrebbe potuto fare a meno di rispondere… Dio, aveva paura di quelle risposte.

«Lije! Lije!» Una mano gli strinse improvvisamente la spalla.

Bailey si scosse: «Cosa c’è, Phil?».

Phil Norris, agente investigativo C-5, sedette, mise le mani sulle ginocchia e guardò in faccia il collega. «Che ti succede, Lije? Ultimamente sembri fuori di te. Te ne stavi seduto con gli occhi sbarrati e io mi sono chiesto se eri ancora vivo.»

Si passò una mano sui capelli biondi, radi, e dette una sbirciatina famelica alla colazione di Baley. «Pollo!» disse Norris. «Fra un po’ te lo daranno solo se lo prescrive il medico.»

«Prendine un pezzo» disse Baley, distratto.

La buona creanza ebbe la meglio e Norris rispose: «Non fa niente, vado a mangiare fra un minuto. A proposito, come va fra te e il questore?».

«Cosa?»

Norris cercò di sembrare indifferente, ma le mani gli si agitavano in continuazione. «Andiamo, tu lo conosci, eravate compagni di scuola. Sta per darti una promozione?»

Baley aggrottò la fronte e si sentì di nuovo immerso nella realtà, almeno in parte: le beghe d’ufficio avevano sempre quest’effetto. Norris aveva la sua stessa anzianità e teneva d’occhio ogni segnale che potesse essere interpretato come una preferenza verso il collega.

Baley rispose: «Nessuna promozione, credimi, non è niente. Se è il questore che volete, vorrei potervelo dare. Sì, accidenti, lo giuro!».

«Non fraintendermi» disse Norris. «Non mi importa se verrai promosso. Sola, se hai un po’ di ascendente sul questore usalo per aiutare il ragazzo.»

«Che ragazzo?»

Non ci fu bisogno di rispondere. Vincent Barrett, il giovane che era stato licenziato per fare posto a R. Sammy, strusciava i piedi con nervosismo in un angolo della sala. Fra le mani rigirava una calotta e quando tentò di sorridere la pelle sbiancò sugli zigomi.

«Salve, signor Baley.»

«Oh, salve, Vince. Come va?»

«Non troppo bene, signore.»

Si guardava intorno con l’aria di chi ha fame. Baley pensò: "Sembra un fantasma. Per forza, è un declassato".

Poi, ferocemente, con le labbra che quasi formavano le parole per l’emozione, pensò: "Che vuole da me?".

Ma disse solo: «Mi dispiace, ragazzo». Non c’era altro da aggiungere.

«Pensavo… forse si è mosso qualcosa.»

Norris si avvicinò all’orecchio di Baley: «Bisogna fargli capire che è ora di finirla, con queste sostituzioni. Lo sai che stanno per buttare fuori Chenlow?».

«Cosa?»

«Non hai sentito?»

«No, non ho sentito. Dannazione, è uno C-3. Ha dieci anni di carriera alle spalle.»

«Sicuro, e una macchina con le gambe può fare il suo lavoro. A chi toccherà domani?»

Il giovane Barrett non si accorse della conversazione silenziosa, immerso com’era nei suoi pensieri. A un tratto disse: «Signor Baley?».

«Sì, Vince?»

«Sa che cosa dicono? Che Lyrane Millane, la ballerina della subeterica, è un robot.»

«Sciocchezze.»

«Sì? Dicono che possono fare robot così perfetti da sembrare uomini. Gon una speciale pelle di plastica, o qualcosa di simile.»

Baley pensò a R. Daneel con un senso di colpa e non trovò parole, ma scosse la testa.

Il ragazzo continuò: «Pensa che qualcuno si arrabbierà se vedo un po’ in giro? Mi fa sentire meglio vedere il vecchio posto».

«Fai pure, ragazzo.»

Il giovane si allontanò. Baley e Norris lo seguirono con lo sguardo, poi Norris disse: «Sembra che i medievalisti abbiano ragione».

«Vuoi dire quelle storie del ritorno alla terra?»

«No, voglio dire i robot. Ritorno alla terra, bah! Questo pianeta ha un futuro illimitato, ma non abbiamo nessun bisogno dei robot.»

Baley borbottò: «Otto miliardi di abitanti e l’uranio che si sta esaurendo. Cosa c’è di illimitato in tutto questo?».

«Non importa se l’uranio finisce, lo importeremo. O scopriremo altri processi atomici. Non è possibile fermare la razza umana, Lije. Devi essere ottimista e aver fede nel vecchio cervello dell’uomo: la nostra più grande risorsa è l’ingegno, e non resteremo mai a corto di quello.»

Era lanciato, adesso. Continuò: «Innanzi tutto possiamo usare l’energia solare, che basterà miliardi di anni. Possiamo costruire stazioni spaziali entro l’orbita di Mercurio e farle funzionare da accumulatori. Trasmetteremo l’energia alla Terra con un raggio diretto».

L’idea non era nuova: i pensatori eterodossi un po’ ai margini della scienza l’accarezzavano da centocinquant’anni, ma Quello che ne aveva impedito la realizzazione era l’impossibilità di ottenere un raggio tanto compatto da attraversare ottanta milioni di chilometri senza perdite tali da renderlo inutile. Baley lo disse.

«Quando sarà necessario risolveremo anche questo» replicò Norris. «Perché preoccuparsi?»

Baley tentò di raffigurarsi una Terra dotata di fonti di energia illimitate: la popolazione sarebbe cresciuta ancora; le fattorie dei lieviti si sarebbero ingrandite e le colture idroponiche sarebbero state intensificate. L’energia era la sola cosa indispensabile. I minerali grezzi potevano essere importati dagli asteroidi o dagli altri corpi disabitati del sistema solare; se l’acqua fosse diventata un problema, la si sarebbe trovata sulle lune di Giove. Diavolo, gli oceani potevano essere congelati e "sparati" nello spazio, dove si sarebbero messi a girare intorno alla Terra come piccole lune, restando a disposizione; mentre il fondo avrebbe fornito nuove terre fertili e spazio per vivere. Il carbonio e l’ossigeno potevano essere mantenuti, e addirittura incrementati, utilizzando l’atmosfera al metano di Titano e l’ossigeno gelato di Umbriel.

La popolazione terrestre avrebbe raggiunto un bilione di abitanti, forse due. Perché no? C’era stato un tempo in cui l’attuale cifra di otto miliardi sarebbe sembrata impossibile. C’era stato un tempo in cui perfino una popolazione d’un miliardo sarebbe parsa astronomica. Dal medioevo in poi i profeti di sventura malthusiani si erano succeduti con implacabile regolarità, e avevano sempre sbagliato.

Ma che avrebbe detto Fastolfe davanti a un’ipotesi del genere?

Un mondo d’un bilione di abitanti, certo! Un pianeta dipendente in tutto, perfino nell’aria che respirava e l’acqua che beveva. E l’energia doveva essergli fornita da accumulatori lontani ottanta milioni di chilometri. Che fantastica instabilità, per un mondo del genere! La Terra era, e sarebbe rimasta, a un soffio dalla catastrofe completa; una catastrofe che poteva essere scatenata dal più piccolo guasto nell’immenso meccanismo grande come il sistema solare.

Baley disse: «Io credo che la cosa più conveniente sia spedire altrove un po’ della popolazione in eccesso.» Era più una risposta all’immagine che si era creato mentalmente che alle parole di Norris.

«E chi la vorrebbe?» fece l’altro, in tono leggero.

«Potremmo andare su un pianeta disabitato.»

Norris si alzò e dette un colpetto sulla spalla del collega. «Lije, mangia il pollo e cerca di tornare in te. Secondo me hai preso qualche pillola da sballo.» Se ne andò, ridacchiando.

Baley lo seguì con lo sguardo e vide che rideva ancora. Norris avrebbe raccontato in giro le sue idee e i pagliacci dell’ufficio (ogni ufficio ne ha qualcuno) ci avrebbero marciato per settimane. Ma perlomeno non avrebbero pensato a Vince, ai robot e al declassamento.

Baley sospirò e piantò la forchetta nel pollo, che si era raffreddato e raggrinzito.

Quando ebbe finito lo sformato di noci, R. Daneel si alzò dalla scrivania che gli avevano assegnato quella mattina e s’avvicinò.

Baley lo guardò a disagio. «E allora?»

«Il questore non è in ufficio e non si sa quando tornerà. Ho detto a R. Sammy che useremo noi la stanza e che nessuno è autorizzato a entrare, salvo il questore stesso.»

«Perché dovremmo andare là dentro?»

«Maggior sicurezza. Sarai d’accordo con me che è tempo di pensare alla prossima mossa: non vuoi abbandonare l’indagine, vero?»

Era proprio quello che Baley voleva, ma non poteva dirlo. Si alzò e fece strada verso l’ufficio di Enderby.

Una volta dentro, Baley disse: «Va bene, Daneel. Quale sarebbe la prossima mossa?».

Il robot ribatté: «Collega Elijah, dalla notte scorsa non sei più te stesso. C’è un’alterazione nella tua aura mentale.»

Un tremendo sospetto balenò nella mente di Baley. «Sei telepatico?»

Era una prospettiva orribile, e capitava in un momento orribile.

«No, naturalmente no» disse R. Daneel.

Il panico di Baley si calmò. «Allora che diavolo sarebbe quest’aura mentale?»

«È soltanto un’espressione che uso per descrivere una sensazione che tu non puoi provare.»

«Che sensazione?»

«È difficile spiegarlo, Elijah. Ricorderai che originariamente sono stato progettato per studiare la psicologia umana, in modo da poter riferire alla gente di Spacetown.»

«Sì, lo so, poi ti hanno trasformato in un detective aggiungendo il desiderio di giustizia.» Baley non cercò di nascondere l’ironia che trapelava dal suo tono.

«Infatti, Elijah. Ma il mio progetto originale resta inalterato: io sono stato fatto per sottoporre gli uomini all’analisi cerebrale.»

«Cioè analizzare le onde del cervello?»

«Ehm, sì. Lo scopo può essere raggiunto anche senza l’applicazione di elettrodi, se esiste il ricevitore adatto. La mia mente è un ricevitore. Questo principio non viene applicato sulla Terra?»

Baley non lo sapeva. Ignorò la domanda e chiese, con cautela: «Quando misuri le onde cerebrali, che cosa ottieni?».

«Non pensieri compiuti, Elijah. Getto uno sguardo sulle emozioni e posso analizzare il temperamento, gli impulsi sotterranei, le attitudini di un uomo. Per esempio, sono stato io ad accertare che il questore Enderby era incapace di uccidere un uomo nelle circostanze che si sono verificate a Spacetown.»

«E lo hanno scagionato dai sospetti sulla tua parola.»

«Sì, la procedura non presentava rischi. Sono una macchina molto scrupolosa, da quel punto di vista.»

Di nuovo un pensiero folgorante colpì Baley: «Un momento! Il questore non sa di essere stato analizzato, vero?»

«Non c’era bisogno di ferire i suoi sentimenti.»

«Voglio dire: ti sei limitato a guardarlo e basta. Niente elettrodi, niente aghi e grafici…»

«Certamente no. Sono un’unità autosufficiente.»

Baley si morse il labbro inferiore per la rabbia e l’avvilimento. Era svanita l’ultima discrepanza, l’unica scappatoia che ancora avrebbe permesso di addossare il delitto a Spacetown.

R. Daneel aveva detto che il questore era stato analizzato e un’ora dopo il questore stesso, con perfetto candore, aveva ammesso di non conoscere il significato dell’operazione. Chiunqe fosse stato sottoposto a un elettroencefalogramma tradizionale, con elettrodi e grafici, sotto il sospetto d’omicidio, ne avrebbe conservato il ricordo per sempre.

Ma ora la discrepanza era sfumata. Il questore era stato analizzato sensa saperlo: R. Daneel diceva la verità, Julius Enderby anche.

«Bene» disse brusco Baley. «Che cosa dice la cerebroanalisi sul mio conto

«Che sei turbato.»

«Bella scoperta, vero? Si capisce che sono turbato!»

«Nel caso specifico il disturbo è dovuto a un conflitto motivazionale. Da una parte la tua leatà ti spinge a indagare tra i cospiratori terrestri che ieri hanno tentato di bloccarci; dall’altra una motivazione contraria, ugualmente forte, ti spinge a non farlo. È scritto a chiare lettere nei campi elettrici delle tue cellule cerebrali.»

«Al diavolo le mie cellule cerebrali!» esplose Baley, furente. «Ti ho già detto che non ha senso fare ricerche fra i tuoi cosiddetti cospiratori! Non hanno niente a che fare con il delitto. Pensavo di sì, lo ammetto, e ieri alla mensa mi sono sentito in pericolo. Ma che cos’è successo, poi? Ci hanno seguiti, li abbiamo seminati sui nastri ed è finita lì. Non mi sembra un’azione da uomini decisi a tutto e perfettamente organizzati.

«Perfino mio figlio è riuscito a scoprire senza difficoltà il posto dove ci nascondevamo. Ha chiamato il Dipartimento, non ha dovuto qualificarsi. I nostri preziosi cospiratori avrebbero potuto fare lo stesso, se veramente avessero voluto colpirci.»

«E non volevano?»

«È chiaro di no. Se avessero voluto creare disordini, quale occasione migliore del negozio di scarpe? Invece se ne sono andati come agnellini davanti a un solo uomo e un solo fulminatore. Un solo robot e un fulminatore, dovrei dire; aggiungi che se ti avessero riconosciuto per quello che sei, avrebbero capito che quel fulminatore non avrebbe mai sparato. Non sono che un branco di medievalisti, di innocui nostalgici. Tu non potevi rendertene conto, ma io sì. Avrei dovuto capire, e credimi, l’avrei fatto se tutta questa faccenda non mi avesse riempito la testa di… di idee melodrammatiche.

«So che tipo di gente passa al medievalismo attivo: deboli, sognatori che trovano la vita troppo dura e si perdono in un mondo ideale del passato che non è mai esistito. Se tu potessi analizzare una setta come fai con i singoli individui, scopriresti che i medievalisti non sono più inclini all’omicidio di un Julius Enderby.»

R. Daneel disse: «Non posso accettare le tue dichiarazioni come un fatto convincente».

«Che vuoi dire?»

«Il tuo cambiamento d’opinione è stato troppo rapido. E poi ci sono delle incongruenze: hai combinato l’incontro con il dottor Gerrigel diverse ore prima che andassimo alla mensa. A quell’epoca non sapevi del mio sacchetto per il cibo e quindi non avevi motivo di sospettarmi d’omicidio. Se le cose stanno così, perché hai chiamato Gerrigel?»

«Ti sospettavo anche allora.»

«La notte scorsa hai parlato nel sonno.»

Baley sgranò gli occhi: «Che ho detto?».

«Solo la parola "Jessie", ripetuta parecchie volte. Credo ti riferissi a tua moglie.»

Baley rilassò i muscoli tesi. Debolmente, disse: «Ho avuto un incubo. Sai che cos’è un incubo?».

«Non per esperienza personale, ovviamente. Ma il dizionario lo definisce un brutto sogno.»

«E tu sai che cos’è un sogno?»

«In base alle definizioni dei testi, sì. È un’esperienza illusoria che si fa durante quella temporanea interruzione della coscienza che voi chiamate sonno.»

«D’accordo, vada per illusione. Ma a volte le illusioni sembrano maledettamente reali. Io ho sognato che mia moglie era in pericolo: capita spesso, alla gente. La chiamavo per nome, e anche questo è un fatto che succede spesso. Puoi fidarti di quello che dico.»

«Sono ben lieto di farlo. Ma questo mi fa venire in mente qualcosa: come ha scoperto, Jessie, che sono un robot?»

La fronte di Baley s’inumidì di nuovo. «Non torniamo sempre sulle stesse cose, va bene? La voce…»

«Mi dispiace interromperti, collega Elijah, ma non possiamo credere alla storia della voce. Se si fosse sparsa una notizia del genere la Città sarebbe a soqquadro, a quest’ora. Ho verificato i rapporti che arrivano al Dipartimento e ho scoperto che non c’è la minima ombra di fermento. Quindi, non si è sparsa nessuna voce. Quindi, torna il problema: come ha fatto tua moglie a sapere?»

«Perdinci, ma che vorresti dire? Credi che mia moglie sia uno dei membri del… del…»

«Sì, Elijah.»

Baley intrecciò le dita furiosamente «Be’, non è così. Non torneremo più su questo punto.»

«Non è da te, Elijah. Durante la missione mi hai accusato due volte d’omicidio.»

«E questo sarebbe il tuo modo di pareggiare i conti?»

«Non sono certo di capire la frase. Io approvo la tua prontezza nel sospettarmi: avevi le tue ragioni. Nel caso specifico si sono dimostrate false, ma avrebbero potuto essere vere. Tua moglie è gravata di sospetti altrettanto fondati.»

«Vuoi dire che è un’assassina? Maledizione, Jessie non torcerebbe un capello al suo peggiore nemico. Non saprebbe metter piede fuori della Città neanche se volesse. Non potrebbe… Oh, se tu fossi di carne e sangue ti…»

«Ho detto soltanto che è un membro della cospirazione. E che dev’essere interrogata.»

«Nemmeno per sogno. Nemmeno per quello che tu chiami sogno. Adesso ascoltami: i medievalisti non vogliono scannarci. Non è così che lavorano. Stanno solo cercando di buttarti fuori dalla Città, questo è ovvio, e per farlo si servono di armi psicologiche. Tentano di renderti la vita difficile, anzi di renderci, perché io sono con te. Probabilmente hanno scoperto che Jessie è mia moglie e hanno fatto in modo che sapesse la verità sul tuo conto. Lei è come ogni altro essere umano e non le piacciono i robot. Non le piace che io lavori con un robot, specie se questo può rappresentare un pericolo; i cospiratori l’hanno convinta che le cose stanno proprio così. Ti assicuro che ha funzionato: Jessie mi ha pregato tutta la notte di lasciare l’incarico o di far allontanare te dalla Città.»

«È evidente» disse R. Daneel «che hai un forte desiderio di proteggere tua moglie da un interrogatorio. E penso che la tua linea di ragionamento sia improvvisata, perché tu stesso non ci credi.»

«Ma chi credi di essere?» scattò Baley. «Non sei un detective, sei una macchina per fare elettroencefalogrammi come quelle che abbiamo nel palazzo. Hai braccia, gambe, una testa e una bocca, ma non sei altro che una macchina. Metterti uno stupido circuito in più non ti ha trasformato in un poliziotto, quindi cosa blateri? Tieni la bocca chiusa e lascia fare a me le deduzioni.»

Il robot disse, tranquillo: «Penso che dovresti abbassare la voce, Elijah. È naturale che non sono un poliziotto nel senso in cui lo sei tu, ma vorrei ugualmente portare alla tua attenzione un piccolo particolare.»

«Non m’interessa.»

«Per favore. Se sbaglio, tu me lo dirai e non farà male a nessuno. Si tratta di questo: la notte scorsa hai lasciato il nostro nascondiglio per chiamare Jessie al telefono. Io ho proposto che ci andasse tuo figlio e tu mi hai risposto che i padri terrestri non usano esporre al pericolo ì propri ragazzi. Le madri, invece, lo fanno?»

«No, cer…» cominciò Baley, e si bloccò.

«Vedi il mio punto, dunque» disse R. Daneel. «In circostanze normali, se Jessie avesse temuto per la tua salvezza si sarebbe esposta al rischio personalmente e non avrebbe mandato il ragazzo. Il fatto che abbia spedito Bentley può significare una cosa soltanto: sapeva che il ragazzo non avrebbe corso pericoli mentre lei sì. Se Jessie non conoscesse i cospiratori le cose non starebbero in questi termini, o comunque lei non avrebbe motivo di pensarlo. Ma se facesse parte del complotto, come io credo, saprebbe che i compagni la tengono d’occhio e sarebbero in grado di riconoscerla. Bentley, invece, passerebbe inosservato.»

«Aspetta un momento» disse Baley, che si sentiva colpito al cuore. «Il ragionamento non fa una grinza, ma…»

Non ci fu bisogno di altre parole. Il segnalatore sulla scrivania di Enderby lampeggiava all’impazzata. R. Daneel aspettò che Baley rispondesse, ma l’umano si limitava a guardarlo con gli occhi sbarrati, impotente. Il robot chiuse il contatto.

«Cosa c’è?»

La voce sbagliata di R. Sammy disse: «Una signora vuole vedere Lije. Le ho detto che lui era occupato, ma insiste. Dice di chiamarsi Jessie».

«Falla passare» disse calmo R. Daneel, i cui occhi castani privi d’emozione, incrociavano quelli di Baley.

L’umano era letteralmente in preda al panico.

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