VII Escursione a Spacetown

Il questore Julius Enderby si pulì gli occhiali con premurosa attenzione e li piazzò a cavallo del naso.

Baley pensò: «È un buon trucco. Ti tiene occupato mentre pensi a cosa dire, e non è costoso come accendere una pipa».

E siccome quel pensiero gli era entrato nella mente, tirò fuori la sua e pescò nel contenitore del tabacco, uno dei pochi lussi che la Terra si concedesse e che ormai stava per finire. Durante la vita di Baley il prezzo era sempre salito e le razioni erano sempre diminuite.

Enderby, che si era sistemato gli occhiali, cercò l’interruttore a un’estremità della scrivania e per un momento rese la porta trasparente, ma solo nel suo senso. «A proposito, adesso dov’è?»

«Mi ha detto che voleva visitare il Dipartimento. Ho lasciato l’onore a Jack Tobin.» Baley accese la pipa e strinse accuratamente il diaframma. Il questore, come molti non-fumatori, era insofferente all’odore di tabacco.

«Spero non gli abbia detto che Daneel è un robot.»

«No, naturalmente.»

Il questore non riusciva a rilassarsi. Una mano continuò a trafficare senza scopo con il calendario automatico che teneva sulla scrivania.

«Come va?» chiese, senza guardare Baley.

«È abbastanza dura. Non troppo.»

«Mi dispiace, Lije.»

Baley disse, fermo: «Avrebbe potuto avvertirmi che il suo aspetto era completamente umano».

Il questore parve sorpreso: «Non l’ho fatto?». Poi, con improvvisa petulanza: «Maledizione, avresti dovuto capirlo. Non ti avrei chiesto di tenerlo a casa, se fosse stato come R. Sammy, ti pare?».

«Lo so, questore, ma io non avevo mai visto un robot come quello. Non credevo che cose simili fossero possibili. Mi sarebbe piaciuto che lei me lo dicesse, tutto qua.»

«E va bene, Lije, mi dispiace, avrei dovuto dirtelo. Hai ragione. È solo che questo lavoro mi provoca una tale tensione che finisco per essere brusco con la gente senza motivo. Lui, intendo quel coso, Daneel, è un nuovo modello. È ancora in fase sperimentale.»

«Me l’ha spiegato lui stesso.»

«Bene. Questo è tutto, credi.»

Baley s’irrigidì un poco. Questo era il momento. Con i denti stretti intorno al cannello disse, senza importanza: «R. Daneel ha organizzato una visita a Spacetown per me».

«A Spacetown!» Enderby alzò gli occhi con un lampo d’indignazione.

«Sì, questore, è la mossa da fare ora. Voglio vedere la scena del delitto e fare un po’ di domande.»

Enderby scosse la testa, deciso: «Non credo che sia una buona idea, Lije. Abbiamo già setacciato quel posto e dubito che ci siano altre cose da scoprire. Inoltre, quella è gente strana. Guanti di velluto! Va trattata con i guanti di velluto. Non hai la esperienza».

Si passò una mano grassoccia sulla fronte e aggiunse, con inatteso fervore: «Li odio».

Baley cercò di suonare altrettanto ostile: «Maledizione, il robot è venuto qui e adesso io voglio andare da loro. È già abbastanza brutto dividere il sedile davanti con un automa, non ho intenzione di essere trasferito su quello dietro! Ovviamente se lei ritiene che io non sia qualificato per continuare quest’indagine, questore…».

«Non è questo, Lije. Non è colpa tua, ma degli Spaziali; non sai come sono fatti.»

Baley aggrottò le sopracciglia. «Va bene, allora. Se lei venisse con noi?» Teneva la mano destra sul ginocchio e incrociò automaticamente le dita.

Il questore fece tanto d’occhi. «No, Lije, io non tornerò in quel posto. Non chiedermelo.» Dava l’impressione di uno che avesse parlato troppo impulsivamente e cercasse di rimediare all’errore. Con più calma, e con un sorriso nient’affatto convincente, disse: «Ho un mucchio di lavoro, credi. Sono indietro di parecchi giorni».

Baley lo guardò pensieroso. «Le dico io cosa faremo. La chiamerò via trimension da Spacetown, quando avrò qualche elemento. Non per molto; solo nel caso che mi serva il suo aiuto.»

«Va bene, questo si può fare.» Ma il questore non sembrava entusiasta.

«D’accordo.» Baley guardò l’orologio a muro, annuì e si alzò. «Mi terrò in contatto con lei.»

Quando uscì dall’ufficio, Baley tenne aperta la porta un secondo più del necessario. Vide il questore appoggiare la testa nell’incavo di un gomito e restare accasciato sulla scrivania. Avrebbe giurato di sentirlo singhiozzare.

"Giosafatte!" pensò, in preda allo stupore.

Fece una pausa nella sala comune e sedette sull’angolo di una scrivania, ignorando l’occupante che alzò la testa, mormorò un saluto formale e tornò al suo lavoro.

Baley staccò il diaframma dal fornello della pipa e ci soffiò dentro. Rivoltò la pipa sul piccolo aspiracenere da tavolo e vi lasciò cadere il contenuto grigiastro. Guardò con rimpianto il fornello vuoto, reinserì il diaframma e mise via il tutto. Un’altra razione di tabacco andata via per sempre!

Rifletté su quanto era avvenuto. In un certo senso Enderby l’aveva sorpreso, perché si era aspettato maggiore resistenza alla sua idea di andare a Spacetown. Molte volte il questore aveva parlato della difficoltà di trattare con gli Spaziali e molte volte aveva ripetuto che solo i più abili diplomatici erano adatti a quel lavoro, anche se si trattava di un piccolo problema.

Eppure, in questo caso aveva ceduto facilmente. Baley si era aspettato che Enderby insistesse per accompagnarlo: il lavoro arretrato era una scusa banale, perché il caso a cui stavano lavorando aveva la precedenza assoluta.

Baley, tuttavia, non voleva la compagnia del superiore, ma esattamente ciò che aveva ottenuto. Voleva che il questore fosse presente sotto forma di proiezione tridimensionale, in modo da poter seguire le indagini da un punto sicuro.

Sicurezza: ecco la parola chiave. Baley aveva bisogno di un testimone che non potesse essere eliminato immediatamente. Ne aveva bisogno come garanzia minima della propria incolumità.

E il questore aveva accettato il piano. Baley ricordò di averlo sentito singhiozzare, o qualcosa di simile. Pensò: "Santo cielo, quell’uomo ci è dentro fino al collo".

Una voce spensierata, dalla pronuncia ridicola, risuonò dietro di lui facendolo trasalire.

«Che diavolo vuoi?» domandò furente.

Il sorriso sulla faccia di R. Sammy rimase fisso come quello di un idiota. «Jack dice di farti sapere che R. Daneel è pronto, Lije.»

«Va bene. Adesso circola.»

L’automa gli voltò le spalle e Baley pensò che niente era più irritante di quell’ammasso di ferraglia che gli dava regolarmente del tu. Si era lamentato del fatto appena R. Sammy era arrivato al Dipartimento, ma il questore aveva alzato le spalle: "Non si può avere tutto, Lije. Il pubblico insiste che i robot amministrativi siano costruiti con un forte circuito dell’amicizia. È logico, quindi, che lui si senta tuo amico e ti tratti in modo affettuoso".

Circuito dell’amicizia! Nessun robot, di nessun tipo, poteva danneggiare in alcun modo gli esseri umani. Era la Prima Legge della Robotica: "Un robot non può recare danno a un essere umano o permettere che, per il suo mancato intervento, un essere umano riceva danno".

I cervelli positronici venivano costruiti in modo che questo comandamento fosse così profondamente radicato nei suoi circuiti da rendere impossibile ignorarlo. Non c’era bisogno di circuiti "amichevoli" supplementari.

Eppure il questore aveva ragione. La diffidenza dei terrestri verso gli automi era un fatto irrazionale, quindi i circuiti dell’amicizia vennero costruiti. Come conseguenza, tutti i robot ridevano. Sulla Terra, almeno.

R. Daneel, per esempio, non rideva mai.

Baley sospirò e si mise in piedi. Pensò: "Prossima fermata, Spacetown! Speriamo che non sia l’ultima".


Le forze di polizia e i più alti funzionari avevano ancora il diritto di usare veicoli individuali lungo i corridoi della Città e sulle antiche strade sotterranee escluse ai pedoni. I Liberali chiedevano da sempre che le vie sotterranee venissero trasformate in campi da gioco per bambini, in zone per negozi o in estensioni delle strade celeri e locali.

Ma l’invariabile risposta, "Sicurezza cittadina!", finiva con l’avere la meglio. Nel caso di incendi troppo violenti per essere affrontati con mezzi locali, di gravi danni ai sistemi energetici e di ventilazione, ma soprattutto di disordini e dimostrazioni, le forze della Città dovevano poter raggiungere il punto colpito in fretta. Non esisteva, e non poteva esistere, alcun sostituto delle antiche strade sotterranee fatte per i veicoli a motore.

Molte volte Baley aveva viaggiato su una strada di quel tipo, ma l’indecente abbondanza di spazio l’aveva immancabilmente depresso. Sembrava di essere a mille chilometri dal cuore caldo e brulicante della Città. La strada si stendeva come un verme cieco e cavo davanti ai suoi occhi, aprendosi continuamente in nuove diramazioni. "Baley, al volante dell’auto di pattuglia, seguiva diligentemente le curve della galleria. Dietro di lui lo sapeva anche senza voltarsi, un altro verme cieco e cavo si contorceva e si chiudeva continuamente. La strada era ben illuminata, ma la luce non aveva senso in quel deserto silenzioso.

R. Daneel non faceva il minimo sforzo di riempire quel vuoto o infrangere quel silenzio; guardava dritto davanti a sé, poco impressionato dall’autostrada come dai nastri mobili di superficie.

Un momento dopo, al suono della sirena della polizia, uscirono dal tunnel e curvarono gradualmente in uno dei corridoi per veicoli a motore della Città.

Tali corridoi, che ospitavano vere e proprie superstrade, erano considerati importanti vestigia del passato e tenuti in perfetto ordine. A parte le autopattuglie della polizia, i camion dei pompieri e quelli della manutenzione comunale, non esistevano più autoveicoli, e quindi la gente si serviva delle superstrade con completa fiducia, attraversandole a piedi in lungo e in largo. Davanti alla sirena di Baley e alla velocità sostenuta dell’autopattuglia molti si scostarono scandalizzati.

Baley tirò un sospiro di sollievo quando furono tra la folla e il rumore; ma fu un breve intervallo. Dopo meno di duecento metri imboccarono i corridoi ovattati che conducevano all’ingresso di Spacetown.

Li aspettavano. Le guardie, naturalmente, conoscevano R. Daneel di vista, e sebbene fossero umane gli fecero un cenno di saluto che non conteneva la minima prosopopea.

Una si avvicinò a Baley e salutò con rigida e perfetta cortesia militare. Era un giovanotto alto e serio, anche se non il prototipo dello Spaziale (che invece Daneel incarnava perfettamente).

Disse: «Prego, signore, la sua identificazione».

Il documento venne ispezionato rapidamente ma esaurientemente. Baley notò che la guardia portava guanti color carne e filtri quasi invisibili nelle narici.

Finita l’ispezione, salutò di nuovo e restituì la carta d’identificazione. Poi aggiunse: «C’è un piccolo Personale per uomini a pochi passi. Saremmo lieti se volesse fare una doccia».

Baley stava per dire che era inutile, ma R. Daneel gli tirò gentilmente la manica. La guardia, intanto, era tornata al suo posto.

R. Daneel disse: «È abituale, collega Elijah, che gli abitanti della Città facciano la doccia prima di entrare a Spacetown. Ti dico questo perché so che non hai nessuna intenzione di fare una gaffe per mancanza d’informazioni. Ti consiglio di provvedere qui a tutti i bisogni personali, perché a Spacetown non ci sono comodità di questo tipo».

«Non ci sono comodità!» sbottò Baley. «Ma è impossibile.»

«Volevo dire, naturalmente, che non sono a disposizione degli abitanti della Città.»

Baley era sbalordito, ma la sua faccia tradiva anche una certa ostilità.

R. Daneel aggiunse: «Mi dispiace, collega, ma è una questione di costumi».

Baley entrò nel Personale senza una parola. Sentì, più che vederlo, R. Daneel dietro di lui.

Pensò: "Mi controlla? Si assicura che mi tolga di dosso la polvere della Città?".

Per un feroce momento esultò al pensiero della sorpresa che stava per fare a Spacetown e gli sembrò del tutto trascurabile che equivaleva a puntarsi un disintegratore al petto.

Il Personale era piccolo, ma ben fornito e pulitissimo, addirittura asettico. Nell’aria c’era un odore acuto, su cui Baley s’interrogò brevemente.

Ozono! Stavano inondando il posto di raggi ultravioletti.

Una piccola insegna lampeggiò diverse volte, poi rimase accesa. Diceva: "I visitatori sono pregati di togliersi gli indumenti, scarpe incluse, e di porli nel contenitore sottostante".

Baley obbedì, poi slacciò il fulminatore e lo riaffibbiò intorno alla vita nuda. Era più scomodo e più pesante.

Il contenitore si chiuse e i vestiti sparirono. L’insegna si spense, ma un’altra si accese un attimo dopo.

Diceva: "I visitatori sono pregati di soddisfare i propri bisogni personali e quindi di dirigersi alla doccia indicata dalla freccia".

Baley si sentiva come il pezzo di una macchina messo insieme da raggi d’energia su una catena di montaggio.

Appena entrato nel cubicolo della doccia Baley avvolse la fondina nella protezione impermeabile. Sapeva, per lunga esperienza, che anche in quelle condizioni era in grado di estrarre e sparare in meno di cinque secondi.

Non c’erano ganci o sporgenze a cui potesse appendere il fulminatore, non c’erano manopole e nemmeno un rubinetto visibile. Mise la fondina in un angolo, ma non troppo vicino all’entrata del cubicolo.

Lampeggiò un’altra insegna: "Il visitatore è pregato di alzare le braccia davanti a sé e di tenere i piedi nel circolo centrale, servendosi degli appositi poggiapiedi".

Mentre Baley metteva i piedi nelle piccole depressioni fatte per loro, l’insegna si spense. Uno spruzzo caldo e pungente lo investì dal soffitto, dal pavimento e dalle quattro pareti: sentiva l’acqua sgorgare anche sotto le piante dei piedi. Durò un minuto buono, mentre la sua pelle si arrossava per l’effetto combinato del calore e della pressione, e i suoi polmoni cercavano aria nell’umidità soffocante. Seguì un altro minuto di spruzzi freschi e a bassa pressione, poi uno di aria calda che lo lasciò asciutto e rinfrescato.

Raccolse cintura e fondina e si accorse che erano asciutti anche quelli. Se li allacciò e uscì dal cubicolo in tempo per vedere R. Daneel che emergeva da una seconda doccia, lì vicino. Ma certo! Pur non essendo un abitante della Città, R. Daneel aveva accumulato la sua polvere.

Baley distolse gli occhi automaticamente dal corpo dell’automa; poi, al pensiero che i tabù della Città non valevano certamente per R. Daneel, si costrinse a guardare di nuovo. Le labbra gli si piegarono in un leggero sorriso: la somiglianza di R. Daneel con gli esseri umani non si limitava alla faccia e alle mani, ma era stata estesa con incredibile accuratezza a tutto il resto del corpo.

Baley continuò a spostarsi in linea retta, come aveva fatto fin dal suo ingresso nel Personale; e, sul fondo, trovò i suoi vestiti che lo aspettavano, ripiegati con cura. Sprigionavano un odore di caldo e pulito.

Lampeggiò un’insegna: "Il visitatore è pregato di indossare i propri vestiti e di porre la mano destra nell’apposita scanalatura della parete".

Baley obbedì e sentì una lieve puntura sul polpastrello del medio. La parete era pulitissima, color latte. Quando ritirò la mano vide una goccia di sangue dove l’avevano punto. Il sangue smise di scorrere mentre lo guardava.

Si pulì il dito e gli diede un pizzicotto: no, non ne usciva più nemmeno una goccia.

Era chiaro, gli analizzavano il sangue. Baley provò una fitta d’ansia: il check-up annuale che gli facevano in Città era più che altro un procedimento di routine, ma non veniva svolto con l’accuratezza e l’efficienza di questi fabbricanti di automi d’altri mondi. E lui non era sicuro di volere un controllo approfonito del suo stato di salute.

L’attesa gli sembrò lunghissima, ma quando l’insegna si accese di nuovo diceva semplicemente: "Il visitatore proceda".

Baley tirò un sospiro di sollievo. Fece qualche passo avanti e passò sotto un’arcata. Due sbarre di metallo si chiusero davanti a lui, mentre nell’aria si accendevano queste parole luminose: "Si intima al visitatore di non procedere oltre".

«Ma che diavolo…» cominciò Baley, dimenticando nella rabbia che si trovava ancora nel Personale.

R. Daneel gli disse all’orecchio: «I sensori hanno individuato una fonte d’energia, immagino. Hai il fulminatore con te, Elijah?».

Baley si girò di scatto, la faccia scarlatta. Prima di riuscire a parlare provò due volte: «Un agente investigativo deve sempre avere il fulminatore con sé, o a portata di mano, sia in servizio che fuori».

Era la prima volta che parlava a qualcuno in un Personale da quando era adulto; la volta precedente risaliva a quando aveva dieci anni ed era in compagnia di zio Boris. Lo zio gli aveva pestato un piede involontariamente e lui si era lamentato, ecco tutto. Ma quando erano arrivati a casa zio Boris l’aveva battuto di santa ragione e gli aveva ricordato che la pubblica decenza non va mai trascurata.

R. Daneel disse: «Non è permesso ai visitatori di entrare armati. È una nostra tradizione, Elijah. Perfino il tuo questore lascia il fulminatore alla porta, quando viene a trovarci».

In altre circostanze Baley avrebbe girato sui tacchi e se ne sarebbe andato da Spacetown e dal robot. Adesso, però, non vedeva l’ora di attuare il suo piano e così di vendicarsi.

La visita medica che aveva appena subito era una versione sbrigativa di quella che avveniva nel passato; Baley capiva perfettamente i sentimenti che avevano provocato i disordini di tanti anni prima, quando c’era ancora la Barriera.

Nero dalla rabbia, si tolse il cinturone. R. Daneel lo prese e lo piazzò in una nicchia scavata nella parete. Sopra campeggiava una targhetta di metallo.

«Se appoggi il pollice nell’incavo» disse R. Daneel «solo il tuo pollice potrà aprire la nicchia quando torneremo.»

Baley si sentiva più nudo che nella doccia. Superò le sbarre metalliche e finalmente uscì dal Personale.

Si trovavano in un altro corridoio, ma c’era qualcosa di strano. La luce che brillava in alto aveva un aspetto poco familiare. Baley sentì un soffio d’aria sulla guancia e pensò, automaticamente, che doveva essere passato un veicolo.

R. Daneel dovette indovinare il disagio che provava. Disse: «Ti trovi praticamente all’aperto, Elijah. Voglio dire, questa non è aria condizionata».

Baley provò una leggera nausea. Come potevano, gli Spaziali, essere così schizzinosi con i visitatori e poi respirare l’aria sporca dei campi? Si tappò il naso, come se in quel modo potesse difendersi dall’aria aperta.

R. Daneel disse: «Scoprirai, credo, che l’aria non è dannosa alla salute dell’uomo».

«Va bene» disse Baley, debolmente.

Le correnti arrivavano da tutte le parti, e non era piacevole. Non erano violente, ma imprevedibili: era questo che lo disturbava.

Poi venne il peggio. Il corridoio sfociò in un’apertura azzurra e quando si avvicinarono all’imboccatura vennero inondati di luce. Baley aveva già visto il sole, perché una volta, per servizio, era stato in un solarium naturale. Ma là c’era un vetro protettivo che racchiudeva l’orizzonte e l’immagine del sole veniva rifratta in modo da formare un alone diffuso. Qui, tutto era aperto.

Baley guardò il sole automaticamente, poi abbassò gli occhi. Gli bruciavano terribilmente, e lacrimavano.

Uno Spaziale si avvicinò. Baley fu preso momentaneamente in contropiede.

R. Daneel, tuttavia, strinse la mano al nuovo venuto. Lo Spaziale si voltò verso Baley e disse: «Vuole venire con me, signore? Sono il dottor Han Fastolfe».

All’interno delle cupole le cose andavano meglio. Baley strabuzzò gli occhi quando vide l’ampiezza dei locali e il modo in cui lo spazio veniva sprecato. Ma il ronzìo dell’aria condizionata lo tranquillizzò.

Fastolfe sedette e incrociò le lunghe gambe, poi disse: «Credo che lei preferisca il condizionamento all’aria fresca».

Sembrava amichevole e aveva una simpatica ragnatela di rughe sulla fronte. Sotto gli occhi e sul mento la pelle era un po’ appesantita, ma i capelli radi non mostravano traccia di bianco. Le grandi orecchie a sventola gli davano un’aria comica e familiare che tranquillizzò Baley.

Quella mattina, prima di partire, Baley aveva esaminato le foto di Spacetown prese da Enderby. R. Daneel aveva appena combinato l’appuntamento e Baley cercava di abituarsi all’idea che fra poco avrebbe incontrato degli Spaziali in carne e ossa. Era molto diverso dal parlarci via cavo, esperienza che aveva già fatto parecchie volte.

Gli Spaziali che aveva visto in fotografia non erano diversi da quelli rappresentati nei librofilm: alti, rossi di capelli, severi, di bell’aspetto ma freddi. Come R. Daneel Olivaw, insomma.

R. Daneel gli aveva detto i nomi dei personaggi ritratti, e a un certo punto Baley aveva chiesto: «Questo sei tu, vero?». «No, Elijah» aveva risposto R. Daneel «questo è il mio costruttore, il dottor Sarton.»

Parole che non rivelavano la minima traccia di emozione.

«Ti ha fatto a sua immagine?» aveva chiesto Baley, ironico, ma l’automa non aveva risposto e del resto lui non se l’era aspettato. Sui Mondi Esterni, a quanto ne sapeva, la Bibbia aveva una diffusione limitatissima.

E ora Baley si trovava faccia a faccia con Han Fastolfe, che non si discostava per nulla dal cliché degli Spaziali; il terrestre gliene fu grato.

«Vuole accettare del cibo?» chiese Fastolfe.

Indicò il tavolo che divideva lui e R. Daneel dal terrestre, ma sopra non c’era altro che una serie di sferoidi colorati. Baley si sentì preso in contropiede, perché li aveva scambiati per gingilli.

R. Daneel spiegò: «Sono i frutti di una pianta che cresce su Aurora. Ti consiglio di provare questo, si chiama mela ed è ritenuto molto buono».

Fastolfe sorrise. «R. Daneel non può dirlo per esperienza personale, ma ha ragione.»

Baley si portò la mela alla bocca. La superficie era rossa e verde, al tatto era fresca e aveva un odore lieve e piacevole. Si fece forza e diede un morso, ma l’inatteso gusto aspro della polpa gli fece limare i denti.

Masticò il boccone suo malgrado. Gli abitanti della Città mangiavano cibo naturale solo quando il razionamento lo permetteva e lui stesso aveva assaggiato vera carne o pane; tuttavia anche quegli alimenti venivano trattati in modo speciale: erano cotti o essiccati, mescolati tra loro e rinforzati. La frutta, per esempio, era distribuita sotto forma di salse o conserve; ciò che teneva in mano adesso, invece, veniva direttamente dalla terra sporca del pianeta.

Baley pensò: "Spero che l’abbiano lavata, almeno".

Di nuovo si meravigliò delle contraddittorie misure igieniche adottate dagli Spaziali.

Fastolfe disse: «Permetta che mi presenti un po’ meglio. Io sono incaricato di supervisionare le indagini sull’assassinio del dottor Sarton qui a Spacetown; sono l’equivalente locale del questore Enderby. Se posso esserle d’aiuto in qualche modo, sono pronto a farlo. Siamo altrettanto ansiosi di voi di chiudere la questione pacificamente e senza scalpore. Non desideriamo preparare il terreno a nuovi incidenti».

«Grazie, dottor Fastolfe» disse Baley. «Apprezzo molto la sua collaborazione.»

"E questo" pensò "esaurisce i convenevoli." Morse il centro della mela e una serie di piccoli ovoidi neri gli entrò in bocca. Sputò immediatamente, senza rendersi conto di quel che faceva. Gli oggetti neri caddero sul pavimento. Uno avrebbe colpito la gamba di Fastolfe, se lo Spaziale non l’avesse spostata in fretta.

Baley arrossì e si chinò a raccoglierli.

Fastolfe disse, conciliante: «Va tutto bene, signor Baley. Li lasci pure dove sono».

Baley si mise dritto e posò la mela. Aveva la sgradevole sensazione che una volta che se ne fosse andato i piccoli oggetti neri sarebbero stati raccolti da un aspiratore, i frutti messi sul tavolo sarebbero stati, bruciati o comunque espulsi da Spacetown e tutta la stanza sarebbe stata inondata di viricida.

Per coprire l’imbarazzo assunse un atteggiamento brusco. «Chiedo l’autorizzazione di personificare il questore Enderby, in modo che possa assistere a questa riunione.»

Fastolfe alzò le sopracciglia. «Certo, se desidera. Daneel, vuoi stabilire il collegamento trivision?»

Baley rimase rigido e a disagio al suo posto, gli occhi puntati sul parallelepipedo trasparente che occupava un angolo della stanza. Quando il parallelepipedo scomparve, al suo posto videro la figura del questore Enderby e di parte della sua scrivania. In quell’istante il disagio finì e Baley sentì nient’altro che amore per il personaggio familiare del questore; e, insieme all’amore, il desiderio di essere al sicuro con lui nel suo ufficio, o in qualunque altro punto della Città. Si sarebbe accontentato perfino di un settore periferico nel Jersey, fra le vasche del lievito.

Ora che il suo testimone era presente, Baley non vedeva ragione di rimandare. Disse: «Credo di aver fatto luce sul mistero che circonda la morte del dottor Sarton».

Con la coda dell’occhio vide Enderby che scattava in piedi afferrando con successo, e all’ultimo momento, gli occhiali che gli erano schizzati dal naso. Ora il questore usciva dall’inquadratura tridimensionale e fu costretto a sedersi di nuovo. Aveva la faccia rossa e si vedeva che non riusciva a trovare nulla da dire.

Il dottor Fastolfe era sorpreso, ma in modo più tranquillo: si limitò a inclinare la testa da un lato. Solo R. Daneel non mostrava alcuna emozione.

«Lei vuol dire» chiese Fastolfe «che conosce l’assassino?».

«No» rispose Baley. «Perché so che non c’è stato assassinio.»

«Cosa?» gridò Enderby.

«Un momento, questore» disse Fastolfe, alzando una mano. Fissò gli occhi in quelli di Baley e disse: «Vuol dire che il dottor Sarton è vivo?».

«Sì, signore’ e credo anche di sapere dov’è.»

«Dove?»

«Davanti a lei.» E indicò decisamente R. Daneel Olivaw.

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