Elijah Baley alzò gli occhi e il questore Enderby entrò nell’ufficio. Baley fece un cenno con la testa, ma era ancora addormentato.
Il questore dette un’occhiata all’orologio e borbottò: «Non dirmi che sei stato qui tutta la notte!»
«No» rispose Baley.
L’altro abbassò la voce: «Hai avuto guai, per caso?».
Baley scosse la testa.
«Forse ho sottovalutato un po’ troppo l’eventualità che esplodano disordini. Se c’è qualcosa che posso…»
Baley disse, secco: «Questore, se fosse successo qualcosa glielo direi. Non ho avuto problemi».
«D’accordo.» L’alto funzionario si mosse verso il fondo della sala e attraversò la porta che dava nell’ufficio privato, segno inequivocabile della sua posizione.
Baley lo seguì con lo sguardo e pensò: lui avrà dormito, stanotte.
Poi si dedicò al rapporto di routine che stava redigendo per coprire le vere attività degli ultimi giorni, ma le parole che aveva appena battuto gli sembrarono sfocate e cominciarono a ballare davanti agli occhi. Lentamente si accorse che qualcosa stava in piedi accanto alla scrivania.
Alzò la testa: «Cosa vuoi?».
Era R. Sammy, e Baley pensò: "Il fattorino meccanico di Julius; rende, fare il questore!".
Attraverso il fatuo sorriso, R. Sammy disse: «Il questore vuole vederti, Lije. Subito».
Baley agitò una mano: «Mi ha appena visto. Digli che ci andrò più tardi».
«Ha detto subito» ripeté l’automa.
«Va bene, va bene. Vattene.»
Il robot indietreggiò ripetendo: «Il questore vuole vederti subito, Lije. Ha detto subito».
«Giosafatte!» ringhiò Baley. «Ci vado, ci vado.» Si alzò, si diresse verso l’ufficio e finalmente R. Sammy tacque.
Appena entrato, Baley disse: «Accidenti, questore, non mi mandi a chiamare da quel coso! Come glielo devo dire?».
Ma l’altro si limitò a dire: «Siediti, Lije».
Baley sedette e aspettò. Forse era stato ingiusto con il vecchio Julius; forse neanche lui aveva dormito, dopotutto. Aveva un’aria abbattuta.
Il questore picchiettava sulle carte davanti a lui. «Risulta che hai chiamato un certo dottor Gerrigel a Washington con il raggio isolato.»
«Esatto, questore.»
«Non esiste registrazione della conversazione, proprio perché isolata. Vuoi dirmi di che avete parlato?»
«Sto cercando informazioni supplementari.»
«È un robotista, vero?»
«Esatto.»
Il questore sporse il labbro inferiore e improvvisamente sembrò un bambino che tenesse il broncio. «Che cosa vuoi sapere? Che genere di informazioni cerchi?»
«Non ne sono sicuro, questore. Ho solo la sensazione che in un caso come questo tutte le informazioni riguardanti i robot possano servire.» Da quel momento in poi Baley si cucì la bocca: non voleva scendere in dettagli, e questo era tutto.
«Io non lo farei, Lije. Non credo che sia una mossa saggia.»
«Qual è la sua obiezione?»
«Meno persone vengono informate nel caso, meglio è.»
«Gli dirò meno che posso, è ovvio.»
«Non credo che sia una cosa saggia, te lo ripeto.»
Baley si sentiva abbastanza male per perdere la pazienza: «Mi sta ordinando di non vederlo?».
«No, no. Fai come credi opportuno, l’indagine è affidata a te. Solo…»
«Solo cosa?»
Il questore scosse la testa. «Niente. Dov’è lui? Sai chi intendo.»
Baley lo sapeva, e rispose: «Di nuovo allo schedario».
Il questore aspettò un lungo momento prima di parlare, poi: «Non stiamo facendo molti progressi, lo sai».
«Non ne abbiamo fatti finora, ma le cose possono cambiare.»
«Va bene, allora» disse il questore, come se non andasse veramente bene.
Quando Baley tornò nel suo angolo ci trovò R. Daneel.
«Be’, che hai scoperto?» chiese duro.
«Ho completato la mia prima e frettolosa ricerca nello schedario, collega Elijah, e ho rintracciato due delle persone che hanno cercato di bloccarci ieri sera, e che, fra parentesi, si trovavano al negozio di scarpe al momento dell’incidente.»
«Vediamo.»
R. Daneel piazzò le piccole cartelle davanti a Baley: erano grandi come francobolli e punteggiate dei piccoli tondini che servivano da codice. Il robot aveva con sé anche il decodificatore, dentro il quale inserì la prima cartella. I puntini avevano proprietà di conduzione diverse da quelle della cartella nel suo insieme, e quindi un campo elettrico, passando attraverso la cartella, veniva distorto in modo altamente specifico. In conseguenza di ciò il piccolo schermo si riempiva di parole che, se non codificate, avrebbero riempito parecchi fogli di carta normale. Parole, inoltre, che non potevano essere interpretate da nessuno che non possedesse un decodificatore della polizia.
Baley lesse il materiale. La prima persona si chiamava Francis Cloussarr, trentatré anni all’epoca dell’arresto avvenuto due anni prima. Imputazione: incitamento alla sedizione; occupazione: impiegato presso la Lieviti Newyorchesi; indirizzo, eccetera; genitori, eccetera; capelli, occhi, segni caratteristici, istruzione ricevuta, curriculum professionale, profilo psicanalitico e fisico, informazioni qua, informazioni là e finalmente il rimando alla foto tridimensionale nella galleria dei farabutti.
«Hai controllato la fotografia?» chiese Baley.
«Sì, Elijah.»
La seconda persona era un certo Gerard Paul. Baley dette un’occhiata al materiale sulla cartella e disse: «Non serve a niente».
R. Daneel obbiettò: «Sono certo che non è così. Se esiste un’organizzazione di terrestri capaci del crimine di cui ci stiamo occupando, questi ne sono membri. Non ti sembra un legame ovvio? Credo che dovremmo interrogarli».
«Non ne caveresti niente.»
«Ma erano al negozio di scarpe e alla mensa! Non possono negarlo.»
«Essere in quei posti non è un crimine. E poi, possono negarlo. Possono dare la loro parola contro la nostra. Come dimostriamo che mentono?»
«Io li ho visti.»
«Non è una prova!» scattò Baley, inferocito. «Nessun tribunale, se mai arrivassimo a tanto, crederebbe che tu puoi ricordare due facce tra mille.»
«È evidente che posso.»
«Sicuro, ma dì ai giudici che cosa sei. Non appena l’avrai fatto ti squalificheranno come testimone. Sulla Terra quelli della tua specie non hanno status giuridico, quindi nei tribunali non contano.»
R. Daneel disse: «Devo dedurne, allora, che hai cambiato idea rispetto a ieri».
«Che vuoi dire?»
«In mensa mi hai detto che non c’era bisogno di arrestarli subito; che fin quando io ero in grado di ricordare le facce, potevamo farlo in qualsiasi momento.»
«Non avevo riflettuto bene» disse Baley. «O davo i numeri. Non si può fare.»
«Nemmeno usando un’esca psicologica? Loro non saprebbero che non abbiamo prove.»
Baley disse, teso: «Senti, fra mezz’ora arriva il dottor Gerrigel da Washington. Ti dispiace aspettare finché non ci ho parlato? Ti dispiace?»
«Aspetterò» rispose R. Daneel.
Anthony Gerrigel era un uomo preciso, educato, di altezza media, e dall’aspetto non si sarebbe detto uno dei più grandi robotisti viventi. Era in ritardo di venti minuti e si scusò a profusione. Baley, bianco d’una rabbia che nasceva dalla preoccupazione, accettò le scuse di malagrazia e come se non avessero importanza. Controllò la prenotazione della sala riunioni D e ripeté le istruzioni secondo le quali non dovevano essere disturbati per nessun motivo per un’ora. Poi guidò il dottor Gerrigel e R. Daneel lungo un corridoio, su per una rampa e in una sala riunioni a prova di irradiazioni-spia.
Prima di sedersi Baley ispezionò attentamente le pareti: ascoltava il lieve ronzio del pulsometro che teneva in mano e aspettava la minima diminuzione della vibrazione normale, che avrebbe indicato una crepa, sia pur piccola, nell’isolamento. Poi puntò l’apparecchio al pavimento, al soffitto, e, con particolare attenzione, alla porta. Non c’erano crepe.
Il dottor Gerrigel fece un piccolo sorriso; sembrava che potesse ridere soltanto in formato ridotto. Era tanto compito, nel vestiario, da sfiorare la pignoleria. I capelli grigio-ferro erano pettinati accuratamente, all’indietro e la faccia aveva un colorito roseo che sembrava lavato di fresco. Sedeva impettito, quasi rigido, come se avesse preso troppo alla lettera il consiglio materno di tenere la schiena dritta.
Disse a Baley: «Sembra che stia per succedere qualcosa di grosso, da come si comporta».
«Questa riunione è qualcosa di grosso, dottore. Mi servono delle informazioni sui robot che forse solo lei può darmi. Tutto quello che ci diremo, ovviamente, è segreto, e la Città le chiederà di dimenticare questa conversazione non appena sarà terminata.» Baley guardò l’orologio.
Il piccolo sorriso scomparve dalla faccia del robotista. Disse: «Mi permetta di spiegare perché sono in ritardo». La cosa ovviamente gli pesava. «Ho deciso di non venire in aereo. Soffro il mal d’aria.»
«Mi dispiace» disse Baley. Mise via il pulsometro, accertandosi ancora una volta che funzionasse a dovere, poi sedette.
«Non è esattamente una questione di stomaco, ma di nervosismo. Una forma di leggera agorafobia. Non è niente di particolarmente anomalo, ma c’è. Così ho preso la strada celere.»
Baley provò un immediato interesse: «Agorafobia?».
«La faccio sembrare peggio di quel che è» disse il robotista. «È semplicemente la sensazione che si ha in aereo. Ha mai volato, signor Baley?»
«Parecchie volte.»
«Allora sa che cosa voglio dire. È la sensazione di essere circondati dal vuoto; di essere separati dall’abisso da pochi centimetri di metallo. È molto spiacevole.»
«E ha preso la strada celere?»
«Sì.»
«Per tutto il tragitto da Washington a New York?»
«L’ho già fatto prima. Da quando hanno costruito il tunnel Baltimora-Philadelphia è abbastanza semplice.»
Così era, in effetti. Baley non aveva mai fatto il viaggio personalmente, ma sapeva che era possibile. Washington, Baltimora, Philadelphia e New York erano cresciute a tal punto, negli ultimi due secoli, che quasi si toccavano. Quell’ampia zona della costa orientale era denominata Le Quattro Città, e molti erano favorevoli all’unificazione amministrativa e alla creazione di una super-Città. Personalmente Baley non era d’accordo. New York era già troppo grande per essere governata bene; una Città ancora più vasta, con oltre cinquanta milioni d’abitanti, sarebbe collassata sotto il suo stesso peso.
«Il guaio è» disse il dottor Gerribel «che ho perso tempo a un incrocio nel settore di Chester, a Philadelphia. Inoltre ho avuto qualche difficoltà a farmi assegnare una stanza mobile, e così eccomi in ritardo.»
«Non si preoccupi, dottore, quello che dice è interessante. A proposito di antipatia per il vuoto, le piacerebbe fare una passeggiata oltre i confini della Città?»
«Per quale ragione?» Gerrigel sembrava sorpreso e personalmente preoccupato.
«È solo una domanda retorica, ma voglio sapere che effetto le fa una prospettiva del genere.»
«Mi dà una sensazione sgradevole.»
«Supponga di dover lasciare la Città e di dover attraversare la campagna di notte per quasi un chilometro.»
«Non sarebbe facile convincermi.»
«Anche in un caso di vitale necessità?»
«Se si trattasse di salvare la mia vita o quella della mia famiglia potrei tentare, ma…» Sembrava imbarazzato. «Posso sapere il perché di queste domande, signor Baley?»
«Glielo dirò. È stato commesso un grave delitto, un omicidio fuori del comune. Non sono autorizzato a fornirle i particolari, ma esiste una teoria secondo cui l’assassino, per commettere il crimine, avrebbe fatto ciò di cui stavamo parlando: attraversare la campagna di notte, solo. Mi chiedevo che tipo di uomo sarebbe capace di una cosa del genere.»
Il dottor Gerrigel rabbrividì. «Non uno che io conosca. E non io. Ma suppongo che fra milioni di persone qualche spericolato lo troverà.»
«Tuttavia non direbbe che un’azione del genere sia tipicamente umana, vero?»
«No, assolutamente no.»
«In realtà se esiste un’altra spiegazione del delitto, una qualsiasi spiegazione concepibile, credo che dovrebbe esser presa in considerazione.»
Il dottor Gerrigel sembrava più a disagio che mai, con la schiena dritta e le mani intrecciate in grembo. «E lei ha una teoria alternativa?»
«Sì. Penso che un robot, per esempio, non avrebbe difficoltà ad attraversare l’aperta campagna.»
Il dottor Gerrigel si alzò. «Ma caro signore!»
«Cosa c’è?»
«Vuol dire che l’autore del delitto sarebbe un robot?»
«Perché no.»
«Che avrebbe assassinato un essere umano?»
«Sì, dottore. Per favore, si sieda.»
Il robotista obbedì, poi disse: «Signor Baley, qui ci troviamo di fronte a due azioni ben distinte: attraversare la campagna e commettere un omicidio. Un essere umano potrebbe essere capace della seconda ma avrebbe difficoltà a compiere la prima; un robot sarebbe capace della prima ma troverebbe impossibile attuare la seconda. Mi sembra che lei voglia sostituire una teoria improbabile con una impossibile».
«Dottore, "impossibile" è una parola forte.»
«Ha mai sentito la Prima Legge della Robotica, signor Baley?»
«Sicuro, posso recitarla: "Un robot non può recare danno a un essere umano o permettere che, per il suo mancato intervento, un essere umano riceva danno".» Baley puntò un dito sul robotista e continuò: «Che cosa impedirebbe di costruire un robot sprovvisto della Prima Legge? Cosa c’è di tanto sacro in quelle parole?».
Il dottor Gerrigel sembrava stupito, folgorato: «Oh, signor Baley…».
«Qual è la risposta?»
«Se lei conosce anche un poco la robotica, signor Baley, saprà che la costruzione di un cervello positronico è un’impresa formidabile sia dal punto di vista matematico che elettronico.»
«Ne ho un’idea» rispose Baley. Ricordava di essere stato, una volta, in una fabbrica di robot e di aver visitato la biblioteca dei librofilm, ognuno dei quali conteneva l’analisi di un singolo tipo di cervello positronico. Ci voleva più di un’ora per vedere uno di quei film, alla velocità standard; e nonostante la loro lunghezza, i simboli di cui si servivano erano altamente condensati. Se ne usciva con l’impressione che non esistessero due cervelli positronici uguali, anche quando venivano costruiti secondo le regole più rigide. Baley aveva appreso che era una conseguenza del Principio d’Indeterminazione di Heisenberg. Ogni film, quindi, doveva essere fornito di appendici che riguardavano tutte le possibili varianti.
Era un lavoro incredibile, Baley non lo negava.
Il dottor Gerrigel riprese: «Deve capire che progettare un nuovo cervello positronico, anche uno che presenti solo minime innovazioni, non è lavoro che si possa fare in una notte. Di solito ci vuole l’intero reparto ricerche di una fabbrica di medie proporzioni, e fino a un anno di tempo. Ma nemmeno quest’enorme mole di lavoro basterebbe, se non si fondasse su una teoria dei circuiti-base collaudata e ormai standardizzata, che costituisce il fondamento di tutte le future elaborazioni. Questa teoria-base comprende le Tre Leggi della Robotica: la prima che lei ha citato, la seconda per cui "Un robot deve obbedire agli ordini degli esseri umani tranne quando tali ordini sono in conflitto con la Prima Legge", e la terza che dice: "Un robot ha il dovere di proteggere la sua esistenza, a patto che tale difesa non contrasti con la Prima e la Seconda Legge". Capisce, ora?».
R. Daneel, che a quanto pareva aveva seguito attentamente la conversazione, prese la parola: «Se mi scusi, Elijah, tenterò di vedere se ho capito ciò che ci ha spiegato il dottor Gerrigel. Quello che lei suggerisce, signore, è che il tentativo di costruire un robot il cui cervello positronico non rispetti le Tre Leggi richiederebbe l’impostazione di una nuova teoria di base, e che questo, a sua volta, richiederebbe anni.»
Il robotista sembrava soddisfatto: «È proprio ciò che ho voluto dire, signor…»
Baley esitò un momento, poi presentò R. Daneel nel modo più conveniente: «Il mio collega Daneel Olivaw, dottor Gerrigel».
«Buongiorno a lei, signor Olivaw» disse il dottor Gerrigel, stringendogli la mano. Poi continuò: «È mia opinione che ci vorrebbero cinquant’anni per sviluppare la teoria-base di un cervello positronico non-Asenio, cioè contrario alle Tre Leggi, e per portarla in pari con le acquisizioni della moderna robotica».
«E non è mai stato tentato?» chiese Baley. «Voglio dire, dottore, si costruiscono robot da migliaia d’anni. In tutto questo tempo nessuno ha trovato mezzo secolo da risparmiare?»
«Penso di sì» disse il robotista. «Ma nessuno l’ha giudicato un lavoro conveniente.»
«Mi pare difficile crederlo. La curiosità umana si è sempre spinta in tutte le direzioni.»
«Non in quella del robot non-Asenio. La nostra razza, signor Baley, ha un forte complesso di Frankenstein.»
«Un che?»
«È il titolo di un romanzo medievale in cui si narra di un automa che si ribella al suo creatore. Non l’ho mai letto, ma questo non ha importanza. I robot senza la Prima Legge non si costruiscono, tutto qui.»
«E non esiste nessuno studio in quella direzione?»
«A mia conoscenza, no.» Gerrigel sorrise compiaciuto: «E la mia conoscenza è piuttosto estesa, in materia».
«Un robot dotato della Prima Legge non potrebbe uccidere un uomo?»
«Assolutamente escluso, a meno che l’uccisione non derivi da un incidente o non serva a salvare la vita di due o più esseri umani. Ma anche in questi casi il potenziale positronico scatenerebbe un conflitto che distruggerebbe il cervello.»
«E va bene» disse Baley. «Tutto questo vale per la situazione sulla Terra, giusto?»
«Sì, certo.»
«Che mi dice dei Mondi Esterni?»
Parte della sicurezza di Gerrigel sparì. «Oh Dio, signor Baley, non ho esperienza diretta di quello che avviene lassù, ma sono certo che se qualcuno costruisse un cervello positronico non-Asenio o se venisse formulata la relativa teoria matematica, noi lo verremmo a sapere.»
«Davvero? Bene, mi lasci seguire un’altra idea strampalata, dottor Gerrigel. Spero che non le dispiaccia.»
«No, per niente.» Il robotista dette un’occhiata d’angoscia prima a Baley, poi a R. Daneel. «Dopotutto, se questa faccenda è importante come dice, sono lieto di fare tutto quello che posso.»
«Grazie, dottore. La domanda che voglio farle è questa: perché i robot hanno forma umana? È una cosa che ho dato per scontata tutta la vita, ma ora mi rendo conto che non conosco la ragione. Che bisogno c’è che un automa abbia una testa e quattro arti? Che importanza può avere il fatto che ci somigli oppure no?»
«Vuol dire perché non li costruiamo funzionalmente, come le altre macchine?»
«Esatto» rispose Baley. «Perché?»
Il dottor Gerrigel fece uno dei suoi piccoli sorrisi. «Credo, signor Baley, che lei sia nato troppo tardi. L’antica letteratura sugli automi è piena di dibattiti di questo genere, e le polemiche sono spaventose. Se vuol leggere un’ottima ricerca sulle dispute fra funzionalisti e anti-funzionalisti le raccomando la Storia della robotica di Hanford. La matematica è ridotta al minimo e credo che la troverebbe interessante.»
«Me la procurerò» disse Baley paziente. «Nel frattempo, può darmi lei una risposta?»
«La decisione fu presa per ragioni economiche. Se lei dirigesse una fattoria, signor Baley, troverebbe conveniente fabbricare un trattore positronico, un mungilatte, un erpice, un’automobile o una mietitrice dotati di cervello? Non sarebbe meglio avere un solo robot che li facesse funzionare tutti? L’avverto che la seconda alternativa le verrebbe a costare la cinquantesima o la centesima parte della prima.»
«Ma perché la forma umana?»
«Perché in natura è quella di maggior successo. Noi non siamo animali specializzati, signor Baley, a parte il sistema nervoso e qualche altra stranezza. Se vuole una macchina che faccia bene una grande quantità di cose, tutte diverse, non può fare di meglio che imitare la forma umana. Inoltre tutta la nostra tecnologia si basa sull’uomo e il suo aspetto; un’automobile, per esempio, ha i comandi disposti in modo tale che possono essere facilmente usati da mani e piedi di una certa grandezza, attaccati al corpo da arti di una certa lunghezza e articolati da giunture di un certo tipo. Anche oggetti semplici come sedie e tavoli, coltelli e forchette, sono pensati per venire incontro alle necessità del corpo umano che lavora. È più facile costruire robot che assomiglino a noi piuttosto che ripensare daccapo la logica degli strumenti che usiamo.»
«Capisco. Ora mi dica, dottore, è vero che i robotisti dei Mondi Esterni fabbricano automi che sono molto più umanoidi dei nostri?»
«Sì, credo che sia vero.»
«E potrebbero costruire un robot che ci somigliasse tanto da passare per un uomo, almeno in circostanze normali?»
Il dottor Gerrigel alzò le sopracciglia e rifletté sulla questione. «Penso di sì, signor Baley. Però sarebbe terribilmente costoso e dubito che ne varrebbe la pena.»
«Lei crede» incalzò Baley, instancabile «che potrebbero costruire un robot capace di ingannare anche uno studioso del suo calibro?»
Il robotista fece un risolino. «Oh no, signor Baley, no davvero. In un robot ci sono altri particolari rivelatori, non è solo questione di aspet…»
Si bloccò a metà parola, si girò verso R. Daneel e la faccia rosea diventò bianca.
«Oh, cielo» cominciò. «Oh cielo.»
Allungò una mano e toccò amaramente una guancia di R. Daneel. R. Daneel non si allontanò, ma fissò il robotista con calma.
«Oh cielo» ripeté Gerrigel quasi in un singhiozzo. «Lei è un robot.»
«Le ci è voluto parecchio per accorgersene» disse Baley, asciutto.
«Non me l’aspettavo, non ho mai visto nulla di simile. Viene dai Mondi Esterni?»
«Sì» rispose Baley.
«Adesso è chiaro. Il modo in cui sta eretto, in cui parla. Non è un’imitazione perfetta, signor Baley.»
«Però è abbastanza buona, giusto?»
«Oh, è meravigliosa. Credo che nessuno si accorgerebbe dell’inganno, a prima vista. Le sono molto grato per avermi permesso di incontrarlo. Posso esaminarlo?» Il robotista si era alzato, impaziente.
Baley alzò una mano. «Per favore, dottore. Tra poco. Il delitto di cui mi sto occupando ha la precedenza.»
«Allora è tutto vero?» Il dottor Gerrigel era deluso e lo dimostrava. «Pensavo che fosse solo un modo di tenermi occupata la mente e vedere quanto a lungo potevo essere imbrogliato…»
«Non è un trucco, dottore. Mi dica, ora: nel costruire un robot come questo, con il deliberato proposito di farlo passare per umano, non bisognerebbe dotarlo di un cervello il più vicino possibile a quello dell’uomo?»
«Certo.»
«Benissimo. E un cervello simile non potrebbe mancare della Prima Legge? Forse è stata lasciata fuori accidentalmente. Lei dice che il modo per farlo è sconosciuto, ma il fatto stesso che sia sconosciuto può aver ingannato i costruttori e aver portato alla costruzione di un cervello anomalo. Gii ingegneri non avrebbero saputo da cosa guardarsi.»
Il dottor Gerrigel scuoté la testa vigorosamente. «No, no, impossibile.»
«Ne è sicuro? Possiamo mettere alla prova la Seconda Legge, naturalmente. Daneel, prestami il tuo fulminatore.»
Gli occhi di Baley non si spostarono un momento da quelli del robot. Le dita strinsero il disintegratore che aveva appeso al fianco.
R. Daneel disse, calmo: «Eccolo, Elijah». E lo porse per il calcio.
Baley disse: «Un agente non deve mai privarsi della sua arma, ma un robot non ha altra scelta che obbedire a un uomo».
«Tranne, signor Baley, quando l’obbedienza rischia di infrangere la Prima Legge» disse Gerrigel.
«Lei sa, dottore, che Daneel ha puntato un fulminatore su una folla umana inerme? E che ha minacciato di sparare?»
«Ma non ho sparato» precisò Daneel.
«Sicuro, ma la minaccia in sé era insolita, vero, dottore?»
Il robotista si morse un labbro. «Per giudicare dovrei conoscere le esatte circostanze. Sembra insolito.»
«Senta questo, allora. R. Daneel si trovava sulla scena dell’omicidio di cui le ho parlato. Se si esclude la possibilità che un terrestre abbia attraversato la campagna da solo, riportando con sé l’arma del delitto, di tutti i presenti Daneel e soltanto Daneel avrebbe potuto nasconderla senza destare sospetti.»
«L’arma del delitto?»
«Mi lasci spiegare. Il fulminatore che ha ucciso la vittima non è stato trovato. La scena dell’assassinio è stata sottoposta a uno scrupoloso esame e niente è stato rinvenuto. Eppure un fulminatore non scompare nel nulla. Esiste un solo nascondiglio possibile, un solo posto dove nessuno penserebbe di guardare.»
«E quale, Elijah?» chiese R. Daneel.
Baley estrasse il fulminatore d’ordinanza e lo puntò sul robot.
«Nel tuo sacchetto del cibo» disse. «Nel tuo stomaco, Daneel!»