CAPITOLO XII

Si udì uno squillo di tromba. Kickaha cavalcò verso il punto indicato dai cerimonieri. Un prete dal cranio rasato e dalla lunga veste lo benedisse, mentre, dall’altra parte del campo, un rabbino stava dicendo qualcosa al barone funem Laksfalk. Il campione giudeo era un individuo robusto, che indossava un’armatura argentea, con un elmo a testa di pesce. Il suo cavallo era un superbo animale nero. La tromba squillò di nuovo. I due contendenti sollevarono le lance, in segno di saluto. Kickaha sollevò la lancia per un istante con la mano sinistra, mentre si segnava con la destra: per lui era un punto d’onore osservare rigidamente il protocollo religioso della popolazione tra la quale si trovava.

Un altro squillo di tromba fu seguito dal tuono degli zoccoli dei cavalli, e dalle grida degli spettatori. I due si scontrarono esattamente al centro del campo, come pure la lancia di ognuno si conficcò esattamente al centro dello scudo dell’altro. Caddero entrambi con un fragore che spaventò gli uccelli che cantavano sugli alberi vicini, come già era accaduto più volte nel corso della giornata. I cavalli rotolarono a terra.

Gli uomini dei due cavalieri accorsero sul campo, per sollevare i propri padroni e per portare via i cavalli, che si erano spezzato l’osso del collo entrambi. Per un attimo, Wolff pensò che il giudeo e Kickaha fossero entrambi morti, perché rimanevano immobili. Comunque, dopo essere stato riportato indietro, Kickaha riprese i sensi. Sorrise debolmente, e disse:

«Dovresti vedere l’altro.»

«Sta benissimo» disse Wolff, dopo avere dato un’occhiata all’altro accampamento.

«Peccato!» replicò Kickaha. «Speravo che avesse smesso di darci fastidio. Mi ha trattenuto per troppo tempo.»

Kickaha ordinò a tutti, meno che a Wolff, di lasciare la tenda. I suoi uomini parvero riluttanti a lasciarlo, ma obbedirono, dopo avere lanciato occhiate ammonitrici in direzione di Wolff. Kickaha disse:

«Stavo andando dal mio castello a quello di Von Elgers, quando sono passato accanto alla tenda del funem Laksfalk. Fossi stato solo, gli avrei fatto uno sberleffo e me ne sarei andato. Ma laggiù c’erano anche dei teutonici, e dovevo considerare anche i miei uomini. Non potevo permettermi di crearmi una reputazione di codardo; i miei stessi uomini mi avrebbero tirato in faccia uova marce, e avrei dovuto affrontare a singoiar tenzone tutti i cavalieri del paese, per provare il mio coraggio. Pensavo di non faticare troppo a far capire al giudeo chi fosse il migliore, e di poter proseguire in fretta.

«Non è andata così, invece. I cerimonieri mi hanno collocato al numero tre. Questo significa che dovevo affrontare tre uomini per tre giorni prima di arrivare allo scontro decisivo. Ho protestato, ma non c’è stato niente da fare. Così, imprecando, ho superato le prove. Hai visto il mio secondo scontro col funem Laksfalk. Siamo stati disarcionati entrambi anche al primo scontro. Ma è sempre più di quanto abbiano fatto gli altri. Sono furiosi perché un giudeo ha sconfitto tutti i teutonici, tranne me. Inoltre, quello ha già ucciso due avversari, e ne ha mutilato un altro irreparabilmente.»

Ascoltando Kickaha, Wolff gli aveva tolto l’armatura. Kickaha si sollevò bruscamente, grugnendo e ammiccando, e disse:

«Ehi, come diavolo sei arrivato qui?»

«Quasi esclusivamente a piedi. Ma pensavo che tu fossi morto.»

«Le previsioni non erano tanto sballate. Quando sono caduto in quella fossa, sono disceso su una lingua di roccia, a mezza strada dal fondo. La lingua di pietrisco si è spezzata, e ha dato il via a una piccola frana che mi ha seppellito sul fondo Ma non sono rimasto svenuto per molto, e lo strato di terriccio era sottile, così non sono asfissiato là sotto. Sono rimasto zitto e immobile per un bel pezzo, perché i Sholkin in quel momento stavano guardando nella fossa. Hanno anche scagliato una lancia sui fondo, ma mi ha mancato per un capello.

«Dopo un paio d’ore, sono riemerse. Ti assicuro che uscire da quel buco è stato un’imptesa. Il terriccio continuava a cedere sotto i piedi, e io continuavo a ricadere. Devo averci messo dieci ore, ma ho avuto fortuna. E adesso, come diavolo hai fatto tu a capitare qui, razza di filibustiere che non sei altro?»

Wolff glielo disse. Kickaha corrugò la fronte e disse:

«Così, avevo ragione a pensare che Abiru sarebbe andato da Von Elgers seguendo questo percorso. Senti, dobbiamo andarcene di qui, e presto. Che ne diresti di sistemare tu il giudeo?»

Wolff protestò, dicendo che lui non conosceva nulla delle regole cavalleresche, che ci voleva una viva intera per imparare. Kickaha rispose:

«Se dovessi incrociare la lancia con lui, ti darei ragione. Ma lo sfideremo a un duello alla spada, senza scudi. Lo sai, il duello alla spada non è una questione di perizia: ma di forza bruta, e direi che tu ne sei fornito abbondantemente!»

«Non sono un cavaliere. Gli altri mi hanno visto entrare come un volgare villico.»

«Idiota! Pensi che questi cavalieri non vadano in giro travestiti quasi sempre? Dirò loro che tu sei un saraceno, un pagano Khamshem, ma che sei un mio eccellente amico, che una volta io ho salvato da un drago, o da qualche altro pericolo del genere. Ci cascheranno tutti. Ti assicuro! Tu sei Wolff il Saraceno… c’è un cavaliere famoso che porta questo nome. Hai viaggiato travestito, sperando di trovarmi e di pagarmi il debito d’onore contratto quando io ti ho salvato dal drago. Sono troppo a malpartito per affrontare nuovamente il funem Laksfalk… e non dico bugie, sono veramente a pezzi!… e così tu accetti la sfida a nome mio.»

Wolff gli domandò con quale scusa avrebbe potuto rifiutarsi di usare la lancia.

Kickaha rise:

«Racconterò qualche frottola. Per esempio, possiamo dire che un cavaliere ladro ti ha rubato la lancia, e che tu hai giurato di non usarne più una, finché non avrai ritrovato la tua. Ci cascheranno subito. Non passano un’ora senza formulare qualche giuramento cretino. Si comportano come cavalieri della Tavola Rotonda del vecchio re Artù. Sulla Terra non sono mai esistiti dei cavalieri del genere, ma il Signore deve essersi divertito a farli agire come se fossero appena usciti da Camelot. Era un romantico, qualsiasi cosa tu possa dire contro di lui.»

Wolff disse di essere riluttante, ma che voleva guadagnare tempo, e che avrebbe fatto qualsiasi cosa per raggiungere la baronia di Von Elgers al più presto. L’armatura di Kickaha era piccola per Wolff, così fu portata l’armatura di un cavaliere giudeo che Kickaha aveva ucciso il giorno prima. I servi lo vestirono di maglia di ferro e di piastre azzurre, poi lo portarono fuori della tenda, al suo cavallo. Era una stupenda giumenta che era stata anch’essa del giudeo ucciso da Kickaha, un certo Ritter oyf Roytfeldz. Wolff montò in sella senza difficoltà. Gli era parso che l’armatura fosse tanto pesante da rendere necessaria una gru, per farlo salire sul quadrupede. Kickaha gli spiegò che forse un tempo era stato così, ma ora i cavalieri si servivano di piastre più leggere, e di una maglia di ferro più pesante.

L’araldo giudeo venne ad annunciare che il funem Laksfalk aveva accettato la sfida, malgrado la mancanza di credenziali del saraceno Wolff. Se il valente e onorevole predone barone Horst von Horstmann giurava su Wolff, questo bastava al funem Laksfalk. Il discorso era una formalità. Il campione giudeo non avrebbe pensato neppure per un momento di non accettare una sfida.

«La reputazione qui è la cosa più importante» disse Kickaha a Wolff. Zoppicando, era uscito dalla tenda, e dava le ultime istruzioni all’amico. «Amico, sono felice che tu sia arrivato. Non avrei sopportato un’altra caduta, e non avrei mai potuto ritirarmi.»

Le trombe squillarono di nuovo. La giumenta e lo stallone nero partirono al galoppo. Si incontrarono a tutta andatura, agitando le spade. Le spade cozzarono: una vibrazione paralizzante formicolò nella mano e nel braccio di Wolff. Comunque, quando voltò la sua cavalcatura, vide che la spada dell’avversario era nella polvere. Il giudeo stava scendendo da cavallo in fretta, per raccogliere la sua spada prima di Wolff. La fretta gli giuocò un brutto scherzo: scivolò, e cadde lungo disteso nella polvere.

Wolff fece trotterellare il suo cavallo, e scese lentamente, per dar tempo al suo avversario di recuperare. A questo atto cavalleresco, entrambi gli accampamenti esplosero in un’ovazione. Secondo le regole, Wolff avrebbe potuto restare in sella, e infilzare il funem Laksfalk senza permettergli di raccogliere la spada.

A terra, si affrontarono. Il cavaliere giudeo sollevò la visiera, rivelando un volto bello e virile. Aveva dei baffi folti, e degli occhi celesti. Disse:

«Ti prego di lasciarmi vedere il tuo volto, nobile signore. Tu sei un vero cavaliere, perché non mi hai colpito mentre ero indifeso.»

Wolff sollevò la visiera per pochi secondi. Poi avanzarono entrambi, e incrociarono le spade. Ancora una volta, il colpo di Wolff fu così possente che la lama dell’avversario volò via.

Il funem Laksfalk sollevò la visiera, questa volta con la mano sinistra. Disse:

«Non posso usare il braccio destro. Mi permetti di usare quello sinistro?»

Wolff salutò, e fece un passo indietro. Il suo avversario strinse l’impugnatura della spada, e colpì con tutte le sue forze. Anche questa volta, la forza del colpo di Wolff fece volar via l’arma del giudeo.

Il funem Laksfalk sollevò la visiera per la terza volta.

«Tu sei un campione quale mai ho incontrato. Detesto di doverlo ammettere, ma tu mi hai sconfitto. E questo mai l’ho detto a nessuno, né mai avrei pensato di dirlo. Tu hai la forza del Signore.»

«Puoi tenere la tua vita, il tuo onore, la tua armatura e il tuo cavallo» replicò Wolff. «Voglio solo che al mio amico Von Horstmann e a me sia concesso di proseguire senza ulteriori sfide. Abbiamo un appuntamento.»

Il giudeo rispose che così sarebbe stato. Wolff ritornò al suo accampamento, dove fu accolto con esplosioni di giubilo, anche da coloro che lo avevano considerato un cane Khamshem.

Bruscamente, Kickaha ordinò di togliere le tende. Wolff gli chiese se, per caso, non avrebbe fatto più in fretta senza il peso di una carovana.

«Certo, ma qui non succede spesso» rispose Kickaha. «Oh, al diavolo, hai ragione. Li mando subito a casa. E adesso togliti questo dannato scatolame.»

Non avevano percorso molta strada, quando udirono il rumore di un cavallo che si avvicinava. Dietro di loro stava galoppando il nero quadrupede del funem Laksfalk, anch’egli privo della sua armatura. I due amici si fermarono, onde permettergli di raggiungerli.

«Nobili cavalieri» disse il giudeo, sorridendo. «So che vi cimentate in un’impresa. È troppo se vi domando di unirmi a voi? Mi sentirei onorato. Sento anche che soltanto aiutandovi potrò redimere la mia sconfitta.»

Kickaha diede un’occhiata a Wolff, e disse:

«Tocca a te decidere. Ma personalmente posso dire che mi piace il suo stile.»

«Vorrai piegarti ad aiutarci in qualsiasi cosa noi faremo? Sempre che essa non sia disonorevole, certo. Potrai liberarti dalla tua promessa in ogni momento, ma devi giurare su tutto ciò che è sacro che non aiuterai mai i nostri nemici.»

«Lo giuro, per il sangue di Dio e la barba di Mosè.»

Quella notte, piantate le tende, Kickaha disse:

«Il fatto di avere con noi il funem Laksfalk potrebbe complicare un problema. Dobbiamo ripulirti di quella tintura e anche la barba deve sparire. Altrimenti, se ci imbatteremo in Abiru, lui potrebbe riconoscerti.»

«Una bugia tira l’altra» disse Wolff. «Be’, digli che io sono il figlio minore di un barone che mi ha scacciato perché il mio fratello maggiore, indegno e geloso, mi ha accusato falsamente. Da allora ho vagato di impresa in impresa, travestito da saraceno. Ma intendo tornare al castello di mio padre… che ora è morto… e sfidare a singoiar tenzone mio fratello.»

«Favoloso! Tu sei un secondo Kickaha! Ma come giustificheremo l’esistenza di Chryseis e del corno?»

«Ci penseremo. Forse potremo dirgli la verità. Può sempre ritirarsi, quando scoprirà che combattiamo nientemeno che il Signore.»

Il mattino dopo cavalcarono fino al villaggio di Etzelbrand. Qui Kickaha acquistò delle pozioni dallo Stregone Bianco del luogo, e lece un miscuglio per togliere la tinta dalla pelle di Wolff. Quando ebbero lasciato il vOlaggio, si fermarono al piccolo accampamento. Il funem Laksfalk guardò con interesse, poi con stupore, infine con sospetto, la barba che cadeva e la tintura che spariva.

«Per gli occhi di Dio! Prima eri un Khamshem, ora potresti essere un Giudeo.»

Allora Kickaha si lanciò nella narrazione di una storia dettagliatissima, lunga tre ore, nella quale Wolff era il figlio bastardo di una nobile vergine giudea e di un cavaliere teutonico impegnato in una ricerca. Il cavaliere, che si chiamava Robert Von Wolfram, era rimasto nel castello giudaico dopo essersi coperto di gloria durante un torneo. Lui e la vergine si erano innamorati, troppo innamorati. Quando il cavaliere era partito, giurando di ritornare dopo aver completato la sua ricerca, aveva lasciato incinta Rivke. Ma Von Wolfram era stato ucciso e la ragazza aveva dovuto portare il piccolo Robert nella vergogna. Suo padre l’aveva scacciata, e l’aveva mandata in un piccolo villaggio Khamshem, per sempre. La ragazza era morta dando alla luce Robert, ma una vecchia serva fedele aveva rivelato al ragazzo il segreto della sua origine. Il giovane bastardo aveva giurato allora che, una volta uomo, sarebbe andato al castello di suo padre a reclamare la sua giusta eredità. Il padre di Rivke ora era morto ma suo fratello, un vecchio perverso, era padrone del castello. Robert era deciso a strappargli la baronia, se egli non l’avesse ceduta.

Il funem Laksfalk aveva lacrime negli occhi, alla fine della storia. Egli disse:

«Verrò con te, Robert, e ti aiuterò a vincere il tuo crudele zio. Allora avrò redento la mia sconfitta.»

Più tardi. Wolff rimproverò a Kickaha di avere elaborato una storia così fantastica, tanto dettagliata da potere essere smontata con la massima facilità. Inoltre, non gli piaceva ingannare un uomo degno come il cavaliere giudaico.

«Assurdo! Non potevamo dirgli tutta la verità, ed è più facile inventare una completa bugia che una mezza verità! E poi, ti assicuro che si è goduto un mondo le sue lacrime! E io sono Kickaha, il kickaha, l’ingannatore, il creatore di fantasie e di realtà, io sono l’uomo che i confini non possono trattenere. Scivolo da uno all’altro, sono Finnegan e non lo sono più. Sembra che mi uccidano, ed ecco, appaio di nuovo, allegro e pericoloso! Sono più veloce degli uomini più forti di me, e più forte di quelli più veloci! Sono fedele a pochi, ma per quei pochi la mia fedeltà è incrollabile! Sono il prediletto di ogni donna, dovunque io vada, e molte lacrime vengono versate quando io scompaio nella notte come un fantasma dai capelli rossi! Ma le lacrime non mi possono trattenere, come non mi possono trattenere le catene! Me ne vado, e dove appaio e quale sarà il mio nome, lo sanno in pochi! Sono la persecuzione del Signore, che non dorme di notte perché io sfuggo ai suoi Occhi, i corvi, e ai suoi cacciatori, i gworl!»

Kickaha tacque, e scoppiò a ridere. Wolff fu costretto a sorridere a sua volta. Era evidente che Kickaha si prendeva gioco di sé. Comunque, un po’ ci credeva, e come si poteva dargli torto? Le sue parole non erano affatto esagerate.

Questo pensiero condusse a una serie di ipotesi che fecero corrugare la fronte a Wolff. Era possibile che Kickaha fosse addirittura il Signore travestito? Per lui avrebbe potuto essere divertente fare da preda e da cacciatore a un tempo. Quale divertimento migliore per un Signore, un uomo che doveva continuamente cercare il nuovo per non morire d’inedia? In lui c’erano molte cose inspiegate.

Wolff, scrutando il volto di Kickaha. cercando di scoprire qualche indizio, senti svanire i propri dubbi. Quel viso allegro non era certo la maschera dietro alla quale si nascondeva l’essere freddo e spietato che giocava con la vita degli esseri umani. E c’era l’inconfondibile accento americano di Kickaha, con tutte le voci dialettali: un Signore avrebbe potuto recitare così bene?

Bene, perché no? Kickaha era padrone di molti altri dialetti e di molte altre lingue, e sembrava cavarsela alla perfezione.

Così pensò Wolff durante quel lungo pomeriggio, mentre cavalcavano. Ma la cena e i liquori e la cordialità della loro amicizia dissiparono l’incantesimo e, prima di dormire, già aveva dimenticato i suoi dubbi. I tre si erano fermati in una taverna del villaggio di Gnazelschist, e avevano mangiato e bevuto di gusto. Wolff e Kickaha si mangiarono insieme un intero porcello arrosto. Il funem Laksfalk, che si radeva e prendeva con una certa liberalità molti altri dettami della sua religione, rifiutò però il maiale proibito. Mangiò del vitello… anche se sapeva che non era stato macellato à la kosher, cioè secondo il rito giudaico. Tutti e tre inghiottirono numerosi bicchieri dell’ottima birra nera locale, e durante la conversazione che si sviluppò tra le libagioni, Wolff raccontò al funem Laksfalk una edizione riveduta e corretta della sua ricerca di Chryseis… una impresa davvero nobile, convennero insieme, e poi traballando se ne andarono a letto.

Il giorno dopo presero una scorciatoia tra le colline, che avrebbe abbreviato la strada di tre giorni… se fossero riusciti a passare. La strada era pochissimo usata, e con ottime ragioni, perché la zona era infestata da draghi e predoni. Un orribile mostro uscì da un riparo nella roccia a poche decine di metri da loro, ma scomparve subito dopo, ansioso quanto loro di evitare un combattimento.

Scendendo dalla collina, Wolff disse:

«Un corvo ci segue.»

«Già, lo so, ma non perdere la testa. Sono da tutte le parti. Credo che non sappia chi siamo. Lo spero sinceramente.»

Il giorno seguente, a mezzogiorno, entrarono nel territorio della Contea di Tregyln. Ventiquattro ore dopo, furono in vista del castello di Tregyln, il feudo del Barone Von Elgers. Si trattava del castello più grande che Wolff avesse visto. Era di pietra nera, si trovava sulla cima di un’alta collina che sorgeva a un paio di chilometri dalla città di Tregyln.

I tre, indossando l’armatura, tenendo alti i pennoni, cavalcarono decisamente verso il munitissimo castello. Un armigero uscì da una garitta davanti al ponte levatoio, e domandò gentilmente cosa desiderassero.

«Riferisci al nobile signore che tre cavalieri di buona fama vorrebbero essere suoi ospiti» disse Kickaha. «I baroni Von Horstmann e Von Wolfram e il famoso barone giudeo, funem Laksfalk. Cerchiamo un nobile che ci assoldi per combattere o che ci dia una missione da compiere.»

Il sergente gridò qualcosa a un caporale, che attraversò il ponte levatoio. Pochi minuti dopo, uno dei figli di Von Elgers, un giovane stupendamente vestito, venne loro incontro ad accoglierli, a cavallo. All’interno del grande cortile, Wolff vide qualcosa che lo disturbò. Numerosi Khamshem e Sholkin stavano passeggiando e giocando tra loro.

«Non ci riconosceranno» disse Kickaha. «Sta’ tranquillo. Se sono qui, ci saranno anche Chryseis e il corno.»

Dopo essersi assicurati che i loro cavalli avrebbero ricevuto un buon trattamento, i tre si recarono nei quartieri loro assegnati. Si lavarono e indossarono i vestiti dai colori sgargianti mandati loro da Von Elgers. Wolff notò che questi abiti non erano molto diversi da quelli usati nel tredicesimo secolo. Le sole innovazioni, disse Kickaha, erano dovute a influenze aborigene.

Quando entrarono nel grande salone da pranzo, la cena era in pieno svolgimento. Era una vera esplosione, perché il frastuono era assordante. Metà degli ospiti erano quasi sbronzi, e gli altri avevano passato da tempo quel punto. Von Elgers riuscì ad alzarsi per dare il benvenuto agli ospiti. Amabilmente, chiese scusa per essersi fatto trovare in simili condizioni a un’ora così inconsueta.

«Da molti giorni abbiamo intrattenuto il nostro ospite Khamshem. Ci ha portato un’inattesa ricchezza, e già ne abbiamo speso un poco per festeggiare.»

Si voltò per presentare Abiru, si mosse troppo velocemente, e per poco non cadde. Abiru si alzò per ricambiare il suo inchino. I suoi occhi neri passarono su di loro come la punta di una spada; il suo sorriso era ampio, ma meccanico. A differenza degli altri, pareva sobrio. I tre si sedettero in tre sedie che erano vicine a quelle del Khamshem, perché coloro che le avevano occupate in precedenza erano già nel mondo dei sogni, sotto il tavolo. Abiru sembrava ansioso di parlare con loro.

«Se cercate lavoro, avete trovato l’uomo giusto. Pago il barone perché mi scorti nell’entroterra, ma la strada è lunga e difficile, e delle spade in più sono sempre le benvenute.»

«E qual è la tua destinazione?» domandò Kickaha. Chiunque lo avesse guardato, avrebbe pensato che l’interesse del giovane per la destinazione di Abiru era soltanto vago e accademico, perché Kickaha stava guardando con occhi avidi la bionda bellezza che sedeva davanti a lui, dall’altra parte della tavola.

«Non è certo un segreto» rispose Abiru. «Il signore di Kranzelkracht è reputato uomo molto strano, ma si dice anche che le sue ricchezze siano più grandi di quelle del Gran Maresciallo di Teutonia.»

«Lo so per certo» rispose Kickaha. «Sono stato là, e ho visto i suoi tesori. Molti anni or sono, così si dice, egli sfidò l’ira del Signore e scalò la grande montagna che porta sul piano di Atlantide. Depredò il palazzo del tesoro dello stesso Rhadamanthus, e se ne andò con gioie e preziosi. Da allora, Von Kranzelkracht ha aumentato le sue ricchezze, conquistando gli stati che circondano il suo. Si dice che il Gran Maresciallo sia preoccupato di questo, e che stia progettando di organizzare una crociata contro di lui. Il Maresciallo afferma che quell’uomo è un eretico. Ma se lo fosse, il Signore non lo avrebbe incenerito con un fulmine già da molto tempo?»

Abiru chinò il capo e si toccò la fronte con la punta delle dita.

«Il Signore agisce per vie misteriose. Inoltre, chi se non il Signore conosce la verità? In ogni modo, io porto i miei schiavi e certi miei beni a Kranzelkracht. Penso di ottenere un immenso guadagno dalla mia impresa, e quei cavalieri che avranno l’ardire di aiutarmi riceveranno molto oro… per non parlare della gloria.»

Abiru si interruppe, e bevve un bicchiere di vino. Kickaha, avvicinandosi ancora a Wolff, disse:

«Quel tipo è bugiardo quanto me. Intende servirsi di noi per arrivare a Kranzelkracht, che è proprio ai piedi del monolito. Poi porterà Chryseis e il corno ad Atlantide, dove sarà pagato con montagne d’oro e gioielli.

«Questo è il suo progetto, a meno che il suo piano non sia più sottile di quanto io pensi.»

Sollevò il calice e bevette a lungo, o per lo meno, finse di farlo. Poi posò con violenza il calice, ed esclamò:

«Che io sia dannato se non c’è qualcosa di familiare in Abiru! Ho avuto una strana sensazione, la prima volta che l’ho visto, ma dopo sono stato troppo impegnato per occuparmene. Ma adesso sono sicuro di averlo già visto.»

Wolff rispose che questo non era sorprendente. Quanti volti aveva visto, nei suoi vent’anni di vagabondaggio?

«Forse hai ragione» mormorò Kickaha. «Ma non penso che si sia trattato di una conoscenza occasionale. Sarei felice di potergli staccare la barba.»

Abiru si alzò e si scusò, dicendo che era l’ora della preghiera al Signore e alla sua divinità personale, Tartartar. Sarebbe ritornato dopo le sue devozioni. A queste parole, Von Elgers richiamò due armigeri e ordinò loro di accompagnare l’ospite nei suoi appartamenti e di assicurarsi che tutto fosse a posto, Abiru s’inchinò e lo ringraziò per la sua premura. Ma a Wolff non sfuggi l’intenzione che si celava dietro l’apparente cortesia del barone. Non si fidava del Khamshem, e Abiru lo sapeva. Von Elgers, malgrado fosse ubriaco, capiva perfettamente quanto accadeva, e non avrebbe perduto per un istante solo il controllo della situazione.

«Già, hai proprio ragione» disse Kickaha. «Non sarebbe arrivato dov’è adesso, voltando la schiena ai propri nemici. E tu cerca di nascondere la tua impazienza, Bob. Abbiamo una lunga attesa davanti a noi. Comportati da ubriaco, spingi un poco i tuoi rapporti con le dame… se non lo facessi, ti considererebbero anormale. Ma non scomparire con una di esse. Dobbiamo restare in vista, in modo di potercela filare assieme, quando verrà il momento giusto.»

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