CAPITOLO XVI

Un’ora più tardi, ritornò dagli altri. Appariva stordito.

«Abiru verrà con noi» disse. Potrà esserci prezioso. Abbiamo bisogno di ogni aiuto possibile, e di ogni uomo capace.

«Non ti chiedo troppo se ti domando una spiegazione?» disse Podarge. Aveva gli occhi stretti, e sul suo volto si formava la maschera della follia.

«No, non voglio e non posso» rispose lui. «Ma sento più che mai che la vittoria è a noi vicina. Dimmi, Podarge, quanto sono forti le tue aquile? Hanno volato tanto, stanotte, che ora sia necessaria una notte di riposo per loro, rimandando così a domani l’impresa?»

Podarge rispose che erano pronte per la loro missione. Non voleva perdere altro tempo.

Woiff impartì gli ordini, che furono portati da Kickaha alle scimmie, dato che esse obbedivano soltanto a lui. Portarono all’esterno le funi e le traverse, e gli altri le seguirono.

Nella vivida luce della luna, sollevarono le traverse, che erano sottili ma solide. Gli esseri umani e le cinquanta scimmie allora si sistemarono nelle nicchie simili a tele di ragno che si trovavano sotto le traverse, e si assicurarono con delle cinghie. Le aquile afferrarono le funi attaccate a ognuno dei quattro angoli delle traverse, e un’altra aquila afferrò la fune legata al centro delle traverse. Wolff diede il segnale. Sebbene non ci fosse stato tempo per impartire le istruzioni, ogni uccello partì allo stesso tempo, agitando le ali, e lentamente innalzandosi nel cielo. Le corde erano lunghe quindici metri, per permettere alle aquile di alzarsi abbastanza, prima che il peso delle traverse e degli uomini si facesse sentire.

Wolff senti uno strattone improvviso, e distese le gambe piegate, per dare una spinta addizionale. La traversa si piegò da una parte, facendolo roteare. Podarge, che volava sopra le altre, diede degli ordini. Le aquile regolarono la lunghezza delle funi, per trovare un punto di equilibrio. Dopo pochi secondi, le traverse erano tutte al giusto livello.

Sulla Terra questo piano non avrebbe potuto funzionare. Un uccello grosso come un’aquila non avrebbe potuto lanciarsi nell’aria, se non buttandosi da un alto precipizio. E anche in questo caso il volo sarebbe stato lentissimo, forse talmente lento da non permettere un’ascesa. Però il Signore aveva dato alle aquile una muscolatura degna delle loro proporzioni.

Si sollevarono sempre più in alto. La pallida superficie del monolito, che si trovava a un chilometro di distanza, risplendeva debolmente sotto la luce lunare. Wolff strinse le cinghie della sua traversa e guardò gli altri. Chryseis e Kickaha gli fecero un cenno di saluto. Abiru era immobile. Le contorte vestigia della torre di Rhadamanthus divennero più piccole. Non c’erano corvi in vista, per avvertire il Signore. Le aquile che non trasportavano traverse volavano seguendo larghi cerchi, per prevenire questa possibilità. L’aria era percorsa da un’armata; il battito delle grandi ali tambureggiava nel cervello di Wolff, così forte che gli parve che il rumore dovesse essere udito fin nel palazzo del Signore.

Venne il momento in cui la parte devastata di Atlantide poté essere compresa in un solo sguardo. Poi apparvero i bordi, e parte del piano sottostante. Drachelandia divenne visibile, una nera mezzaluna di tenebra. Le ore passavano. Apparve la massa di Amerindia, crebbe e venne bruscamente tagliata ai bordi. Il Giardino di Okeanos, così in basso rispetto ad Amerindia, e così piccolo, non era visibile.

Ora sia il sole che la luna potevano essere visti, per la relativa piccolezza del monolito. Malgrado ciò, le aquile e il loro carico erano ancora immersi nelle tenebre, all’ombra dell’Idaquizzoorhruz. Non sarebbe durata a lungo. Presto anche quel lato sarebbe stato nella vivida luce del giorno. Qualsiasi falco avrebbe potuto vederli, a distanza di molle miglia. Gli attaccanti, comunque, si erano portati vicinissimi alla taccia del monolito, in modo che, per essere visti dall’alto, l’osservatore avrebbe dovuto sporgersi sul bordo.

Finalmente dopo circa quattro ore, quando il sole li ebbe toccati, furono a livello della cima. Accanto a loro c’era il Giardino del Signore, un luogo di fiammeggiante bellezza. Oltre il Giardino si alzavano le torri e i minareti e le strutture incredibili, snelle e raffinate del palazzo del Signore. Era alto venti piani e copriva, secondo Kickaha, un’area di più di un chilometro quadrato.

Non ebbero il tempo di apprezzare queste meraviglie, perché i corvi del giardino cominciarono a strillare. Centinaia di aquile di Podarge erano piombate su di loro, e li stavano uccidendo. Altre aquile stavano dirigendosi verso le numerose finestre, per entrare a snidare il Signore.

Wolff vide che ne entrarono diverse, prima che le trappole del Signore potessero venire attivate. Subito dopo, quelle che tentavano di entrare scomparivano con un lampo e uno scoppio. Completamente bruciato, il loro scheletro ricadeva nel giardino, o sui tetti sottostanti.

Gli esseri umani e le scimmie si attestarono sul terreno, proprio davanti a una porta a forma di losanga, fatta di pietra rosa tempestata di rubini. Le aquile lasciarono le funi e si radunarono intorno a Podarge, in attesa di ordini.

Wolff slegò le corde dagli anelli metallici saldati alla traversa. Poi sollevò le sbarre che componevano la traversa al di sopra del capo.

Raggiunse un punto a pochi metri dalla porta a forma di diamante, e lanciò contro di essa la croce d’acciaio. Una sbarra attraversò l’ingresso; le due ad angolo retto cozzarono contro gli stipiti della porta.

Si susseguirono numerosi lampi di fuoco. Si udì un tuono assordante. Lingue di fiamma azzurrina si allungarono verso di lui. Improvvisamente, del fumo uscì dal palazzo, e i lampi cessarono. L’apparecchio di difesa era saltato, o era temporaneamente scarico.

Wolff si diede un’occhiata intorno. Dagli altri ingressi si levavano lampi di fuoco; quelli che apparivano calmi, erano già stati resi inoffensivi. Le aquile avevano preso molte traverse, e le stavano scagliando dall’alto attraverso le finestre. Lui superò con un balzo il ruscello d’acciaio fuso della traversa che aveva lanciato, e passò oltre la porta. Chryseis e Kickaha lo raggiunsero da un altro ingresso. Dietro Kickaha veniva l’orda delle scimmie giganti. Ciascuna stringeva in mano una spada.

Kickaha domandò:

«Ricordi qualcosa?»

Wolff annuì.

«Non tutto, ma spero che basti. Dov’è Abiru?»

«Podarge e un paio di altre aquile lo tengono d’occhio. Potrebbe tentare qualcosa a suo uso e consumo.»

Wolff li guidò lungo un corridoio le cui pareti erano dipinte con tale gusto che anche il critico più severo della Terra avrebbe esternato la sua ammirazione. In fondo ad esso si trovava un cancelletto armonioso e assai bello, fatto di un metallo bluastro. Avanzarono verso di esso, ma si fermarono quando un corvo, in fuga disperata, passò accanto a loro. Dietro di lui veniva un’aquila.

Il corvo passò sopra il cancello, e così facendo andò a picchiare contro uno schermo invisibile. Improvvisamente, il corvo divenne un mucchietto di cenere. L’aquila inseguitrice strillò nel vedere l’accaduto, e tentò di frenare il suo volo, ma era troppo tardi. Anche lei fu ridotta in cenere.

Wolff tirò verso di sé la sezione sinistra del cancello, invece di spingere, come avrebbe fatto normalmente. Disse:

«Adesso è tutto a posto. Ma sono felice che il corvo ci abbia mostrato la trappola. Io non la ricordavo.»

Malgrado ciò, lanciò la spada per controllare, poi si ricordò del fatto che solo la materia vivente attivava la trappola. Non c’era altro da fare che sperare nella sua buona memoria. Avanzò per primo, incontrando soltanto l’aria, e gli altri lo seguirono.

«Il Signore sarà intrappolato al centro del palazzo, dove si trova la sala di comando delle difese» disse lui. «Alcune difese sono automatiche, ma ce ne sono certe che lui può manovrare personalmente. Certo, se ha scoperto come farle funzionare: e il tempo per imparare non gli e mancato.»

Percorsero un chilometro di corridoio e di stanze, ognuna delle quali avrebbe trattenuto chiunque fosse stato in possesso di senso artistico per giorni e giorni in estatica ammirazione. Di quando in quando, un boato o un grido annunciavano la scoperta di una trappola.

Una dozzina di volte, essi furono fermati da Wolff. Wolff restava per qualche istante con la fronte corrugata, infine sorrideva. Allora muoveva un quadro di qualche centimetro, o toccava una decorazione murale: l’occhio di un uomo dipinto, il corno di un bisonte in una scena delle pianure americane, l’elsa di una spada di un cavaliere in un quadro teutonico. E allora procedevano.

Finalmente, egli chiamò un’aquila:

«Va’ a chiamare Podarge e le altre» disse. «È inutile che si sacrifichino ancora. Mostrerò io la strada.»

Poi disse a Kickaha:

«La sensazione di déjà vu si fa più forte di minuto in minuto. Ma non ricordo tutto. Solo certi dettagli.»

«Finché si tratta dei dettagli importanti, è quello che importa, per il momento» rispose Kickaha. Sorrideva ampiamente, e il suo volto era illuminato dal piacere del conflitto. «Adesso capisci perché non osavo rientrare da solo. Il coraggio l’avevo, ma mi mancava la conoscenza.»

Chryseis disse:

«Io non capisco.»

Wolff la strinse a sé.

«Capirai presto. Certo se ce la faremo. Ho molte cose da dirti, e tu hai molte cose da perdonarmi.»

Una porta davanti a loro scivolò nella parete, e un uomo rivestito di armatura avanzò fragorosamente su di loro. Stringeva in mano un’ascia immensa.

«Non è un uomo» disse Wolff. «È un talos del Signore.»

«Un robot!» disse Kickaha.

Wolff pensò: Non proprio nel senso in cui Kickaha l’intende. Non era fatto tutto di plastica e d’acciaio e di fili elettrici. Metà del suo corpo era fatto di proteina, fabbricata nei biolaboratori del Signore. Aveva un istinto di sopravvivenza che nessuna macchina con tutte le sue parti inanimate avrebbe mai potuto avere. Questa era una forza, e nello stesso tempo, una debolezza.

Parlò a Kickaha, che ordinò alle scimmie di obbedire a Wolff. Una dozzina di esse avanzarono, fianco a fianco, e lanciarono simultaneamente le asce che portavano. Il talos si gettò di lato, ma non poté evitarle tutte. Fu colpito con una forza e una precisione che l’avrebbero ridotto in mille pezzi, se non fosse stato protetto dalle piastre metalliche. Cadde all’indietro e rotolò su se stesso, poi si alzò subito in piedi. Mentre si trovava a terra, Wolff gli corse incontro. Lo colpì con la scimitarra nella giuntura tra la spalla e il collo. La lama si spezzò senza penetrare il metallo. Comunque, la forza del colpo abbatté di nuovo il talos.

Wolff gettò la sua arma, afferrò il talos alla vita, e lo sollevò. Silenziosamente, perché non era provvisto di corde vocali, l’essere metallico scalciò e si abbassò per afferrare Wolff. Lui lo scagliò contro la parete, e la cosa si abbatté fragorosamente al suolo. Quando fece per rialzarsi in piedi, Wolff calò il suo pugnale e lo affondò in una delle cavità orbitali. Si udì uno schianto, quando la plastica che copriva la pupilla venne fracassata. La punta del pugnale si ruppe, e Wolff fu scaraventato indietro da un pugno metallico. Fu sulla cosa quasi immediatamente, afferrò il pugno teso, lo torse, e lo piegò dietro la schiena. Prima che la cosa potesse alzarsi, si trovò in balia di Wolff. Wolff corse verso la finestra, e gettò l’essere metallico da essa.

Quattro piani più sotto, dopo avere girato su se stesso più volte, il talos si schiantò al suolo. Per un istante rimase immobile, poi cominciò a rialzarsi. Wolff gridò degli ordini a quattro aquile appostate all’esterno. Esse calarono in picchiata, e afferrarono le braccia del talos. Si sollevarono, trovarono la creatura troppo pesante, e tornarono ad abbassarsi. Ma riuscirono a tenere il corpo metallico a qualche centimetro da terra. Volarono verso il bordo del monolito, dal quale avrebbero gettato il talos. Neppure la sua armatura avrebbe resistito a una caduta di oltre diecimila metri.

Dovunque fosse nascosto il Signore, doveva avere visto la sorte del talos che aveva lanciato contro gli invasori. Infatti si aprì un pannello nella parete, e ne uscirono venti talos, ciascuno con un’ascia in mano. Wolff parlò alle scimmie. Queste scagliarono di nuovo le loro asce, abbattendo numerosi esseri metallici. Gli antropoidi giganteschi attaccarono i talos in massa. Sebbene la forza meccanica di ogni androide fosse superiore a quella di una singola scimmia, ì talos vennero sopraffatti dal numero. Mentre una scimmia combatteva con un androide, la compagna afferrava la testa metallica, e torceva. Il metallo s’incrinava, sotto la stretta; bruscamente, i meccanismi del collo si spezzavano con uno schianto. Le teste caddero al suolo, mentre dai tronchi decapitati usciva un liquido denso. Gli altri talos furono abbattuti e passati di mano in mano fino alla finestra, dalla quale venivano gettati, per essere accolti al suolo da due aquile che li andavano a gettare dal monolito.

Eppure sette scimmie morirono, uccise dalle asce, o con la testa spezzata. I rapidi cervelli proteici dei semi-automi imitavano le azioni dei loro assalitori, se queste potevano rivolgersi a loro vantaggio.

Più avanti, nel corridoio, grosse piastre di metallo scesero dal soffitto, dietro e davanti a loro, per bloccare sia l’avanzata che la ritirata. Wolff se ne era dimenticato fino a un istante prima che accadesse. Esse scesero velocemente, ma non troppo, e lui riuscì ad abbattere una colonna di marmo. La colonna caduta impedì alle piastre di scendere completamente. Le forze che spingevano le piastre erano così potenti, però, che il metallo cominciò a scavare la pietra. Gli attaccanti strisciarono ventre a terra sotto il passaggio che diveniva sempre più esiguo. Nello stesso tempo, la zona semi-isolata veniva invasa dall’acqua. Se non fossero riusciti a ritardare la chiusura delle piastre, sarebbero rimasti annegati.

Percorsero il corridoio, immersi nell’acqua fino al ginocchio, e salirono per un’altra rampa di scale. Wolff allora si fermò davanti a una finestra, dalla quale lanciò un’ascia. Vedendo che non succedeva niente, si affacciò e chiamò dentro Podarge e le sue aquile che erano state bloccate dalle piastre.

«Siamo vicini al cuore del palazzo, alla stanza nella quale deve trovarsi il Signore» disse lui. «Ogni corridoio, a partire da questo punto, ha nelle sue pareti dozzine di proiettori laser. I raggi possono formare una rete, attraverso la quale nessuno può passare vivo.»

Fece una pausa, poi disse:

«Il Signore può restare là dentro all’infinito. Il combustibile per i proiettori non si esaurirà, e lui ha cibo e acqua sufficienti a sostenere qualsiasi assedio, Ma c’è un antico assioma militare che dice come nessuna difesa, per quanto sia formidabile, può resistere allo scatenarsi dell’attacco giusto.»

Disse a Kickaha:

«Quando hai preso il passaggio per ii piano di Atlantide, hai lasciato la mezzaluna. Ti ricordi dove?»

Kickaha sorrise e disse:

«Sì! L’ho messa dietro una statua, in una stanza vicina alla piscina. Ma se i gworl l’avessero trovata?»

«Allora dovrò studiare un altro attacco. Andiamo a vedere se troviamo la mezzaluna.»

«Qual è il tuo piano?» domandò a bassa voce Kickaha.

Wolff gli spiegò che Arwoor doveva avere una via di fuga dalla sala di comando. Se Wolff ricordava bene, c’era una mezzaluna incastonata nel pavimento, e molte altre sciolte. Ciascuna di esse, se messa in contatto con la mezzaluna fissa, apriva un passaggio nell’universo col quale quella sciolta era sintonizzata. Nessuna di esse dava accesso agli altri piani del pianeta che si trovava in quell’universo. Solo il corno poteva aprire dei passaggi tra i piani.

«Certo» disse Kickaha. «Ma a cosa ci servirà la mezzaluna, se la troviamo? Deve essere unita a un’altra, e dov’è l’altra? E poi, chiunque la usi sarà trasportato sulla Terra, e basta.»

Wolff indicò la borsa di cuoio legata alla cintura, nella quale teneva il corno.

«Io ho il corno.»

Imboccarono un corridoio. Podarge venne dietro di loro.

«Cosa volete fare?» domandò.

Wolff le rispose che stavano cercando un mezzo per entrare nella sala di comando. Podarge doveva restare indietro, per occuparsi di qualsiasi caso di emergenza. Lei rifiutò, dicendo che voleva tenerli d’occhio, adesso che erano così vicino al Signore. Inoltre, se riuscivano a raggiungere il Signore, avrebbero dovuto portarla con loro. Ricordò a Wolff la sua promessa di lasciarle il Signore, per farne quanto voleva. Lui si strinse nelle spalle, e proseguì.

Localizzarono la stanza in cui si trovava la statua dietro la quale Kickaha aveva nascosto la mezzaluna. Ma la statua era stata rovesciata nel corso della battaglia tra scimmie e gworl. I cadaveri giacevano sparpagliati ovunque. Wolff si fermò, sorpreso. Non aveva visto gworl, dal momento in cui era entrato nel palazzo, e aveva dato per scontato il fatto che tutti erano morti nel corso della lotta con i selvaggi. Il Signore non li aveva mandati tutti all’inseguimento di Kickaha.

Kickaha gridò:

«La mezzaluna non c’è più!»

«O è stata trovata da tempo, o qualcuno l’ha scoperta quando la statua è stata rovesciata» disse Wolff. «E io sospetto il nome dell’autore dello scherzo. Hai più visto Abiru?»

Nessuno aveva più visto Abiru, dal momento in cui era iniziata l’invasione del palazzo. L’arpia, che teoricamente avrebbe dovuto sorvegliarlo, l’aveva perduto.

Wolff corse verso i laboratori, con Kickaha e Podarge, con le ali semiaperte, subito dietro di lui. Quando ebbe percorso i mille metri che lo separavano dai laboratori, Wolff era senza fiato. Ansimando, si fermò davanti all’ingresso.

«Vannax deve già essersene andato nella sala di comando» disse lui. «Ma se sta ancora lavorando sulla mezzaluna, là dentro, dovremo entrare silenziosamente, nella speranza di sorprenderlo.»

«Vannax?» domandò Podarge.

Wolff imprecò mentalmente. Lui e Kickaha avevano deciso di non rivelare l’identità di Abiru, per il momento. Podarge odiava tanto ogni Signore che lo avrebbe ucciso immediatamente. Wolff voleva tenerlo in vita, perché Vannax, se non avesse tentato di tradirli, avrebbe potuto essere utile nella conquista del palazzo. Wolff aveva promesso a Vannax di mandarlo in un altro mondo a tentare la sua fortuna, se li aiutava a sconfiggere Arwoor. E Vannax aveva spiegato il modo in cui era riuscito a tornare in questo universo. Dopo che Kickaha (allora Finnegan) vi era giunto accidentalmente, portando con sé una mezzaluna, Vannax aveva continuato a cercarne un’altra. L’aveva trovata nel posto più improbabile, un negozio di prestiti su pegno a Peoria, nell’Illinois. Come fosse arrivata là, e quale Signore l’avesse perduta sulla Terra, nessuno l’avrebbe mai saputo. Senza dubbio, in oscure plaghe della Terra erano nascoste delle altre mezzelune. Comunque, la mezzaluna che aveva trovato lo aveva portato sul piano di Amerindia. Vannax aveva scalato la Thayaphayawoed e aveva raggiunto Khamshem, dove aveva avuto la fortuna di catturare i gworl, Chryseis, e il corno. Poi aveva deciso di dirigersi verso il palazzo, sperando di riuscire ad entrarvi.

Wolff borbottò:

«Il vecchio detto raccomanda di non fidarsi dei Signori.»

«Cosa stai dicendo?» domandò Podarge. «E te lo chiedo per la seconda volta, chi è Vannax?»

Wolff fu sollevato, notando che lei non conosceva quel nome. Rispose che Abiru a volte si era fatto chiamare così. Deciso a non rispondere a ulteriori domande, e comprendendo che il tempo era vitale, entrò nel laboratorio. Era una sala alta e vasta quanto bastava a contenere dodici aerei di linea. Però decine e decine di tavoli, quadranti, apparecchi e campane di vetro davano un’impressione di affollamento. A cento metri di distanza, Vannax era piegato su un grosso tavolo, intento a manovrare leve e bottoni.

Silenziosamente, i tre si avvicinarono a lui. Presto furono abbastanza vicini da vedere che due mezzelune erano posate sul tavolo. Sul grande schermo che si trovava sopra Vannax si vedeva l’immagine spettrale di un terzo semicerchio. Linee ondeggianti di luce l’attraversavano.

Vannax emise improvvisamente un ah! di soddisfazione, quando sullo schermo, accanto alla prima mezzaluna, ne apparve un’altra. Manipolò diversi quadranti per fare avvicinare tra loro i due semicerchi, fino a unirli di nuovo.

Wolff sapeva che la macchina emetteva una chiamata di frequenza, e aveva individuato quella della mezzaluna posta sul pavimento della sala di comando. Vannax avrebbe ora sottoposto le mezzelune poste sul tavolo a un trattamento che avrebbe mutato la loro frequenza di risonanza, sintonizzandola su quella della sala di comando. Dove Vannax avesse trovato le due mezzelune fu un mistero fino a quando Wolff non ricordò che, nel passaggio che lo aveva portato sul piano di Amerindia, Vannax aveva conservato le mezzelune che gli avevano permesso di giungere su quel mondo. Era riuscito malgrado tutto a conservare i preziosi strumenti, attraverso la lotta e la cattura. Doveva averli nascosti tra le rovine, prima che la scimmia lo avesse catturato.

Vannax alzò lo sguardo dal suo lavoro, vide i tre, guardò lo schermo, e prese le due mezzelune dal tavolo. I tre corsero verso di lui mentre lui sistemava sul pavimento prima una mezzaluna e poi l’altra. Egli rise, fece un gesto osceno, ed entrò nel circolo, con un pugnale stretto in pugno.

Wolff emise un grido di disperazione, perché erano troppo lontani per fermarlo. Allora si fermò e si posò una mano sugli occhi, troppo tardi per evitare il bagliore accecante. Sentì gridare Podarge e Kickaha, anch’essi accecati. Udì il grido di Vannax, e sentì il puzzo della carne e degli abiti bruciati.

Cieco, avanzò fino a toccare col piede il cadavere bruciato.

«Che diavolo è accaduto?» disse Kickaha. «Diavolo, spero che non siamo permanentemente ciechi!»

«Vannax sperava di penetrare, attraverso il passaggio di Arwoor, nella sala di comando» disse Wolff. «Ma Arwoor aveva piazzato una trappola. Poteva essere soddisfatto nel distruggere l’apparecchio, ma deve avere trovato più divertente uccidere l’uomo che avesse tentato di passare.»

Si fermò ad attendere, sapendo che il tempo era sempre più limitato, e che sopportare la cecità non serviva né alla sua causa né a quella degli altri. Ma non c’era altro da fare. E, dopo quello che parve un tempo eterno, la vista cominciò a ritornare.

Vannax giaceva sul dorso, bruciato e irriconoscibile. Le due mezzelune erano sempre sul pavimento, intatte. Wolff le separò, servendosi di una sonda che si trovava sul tavolo.

«Era un traditore» disse Wolff sottovoce a Kickaha. «Ma ci ha reso un grande servizio. Volevo tentare la stessa cosa, impiegando il corno per attivare la mezzaluna che tu avevi nascosto, dopo averne mutato la risonanza.»

Fingendo di esaminare gli altri tavoli del laboratorio alla ricerca di nuove trappole, riuscì ad allontanare Kickaha, assieme a lui, dalle orecchie di Podarge.

«Non volevo farlo» disse. «Ma vi sono costretto. Il corno deve essere usato, se vogliamo stanare Arwoor dalla sala di comando, o catturarlo prima che si serva delle sue mezzelune per fuggire.»

«Non ti seguo» disse Kickaha.

«Quando ho costruito il palazzo, ho incorporato una sostanza termica nel rivestimento plastico della sala di comando. Può entrare in azione solo dietro l’impulso di una certa sequenza di note emesse dal corno, combinata con un altro piccolo espediente. Non voglio azionare la sostanza, perché allora la sala di comando sarebbe perduta, e questo palazzo sarebbe d’ora in poi alla mercé di qualsiasi altro Signore.»

«Devi farlo» disse Kickaha. «Ma, in sostanza, cosa impedirà ad Arwoor di fuggire con le mezzelune?»

Wolff sorrise, e indicò il tavolo.

«Arwoor avrebbe dovuto distruggerlo, invece che indulgere alla sua immaginazione sadica. Come tutte le armi, è a doppio taglio.»

Attivò i comandi, e, di nuovo, la visione della mezzaluna apparve sullo schermo. Linee di luce ondulate correvano su di essa. Wolff si diresse verso un altro tavolo, e aprì uno sportello che rivelò un quadro di comando senza alcuna scrittura. Manovrò due leve, poi schiacciò un bottone. Lo schermo divenne vuoto.

«La risonanza della sua mezzaluna è stata cambiata» disse Wolff. «Quando cercherà di usare quella, con una delle altre in suo possesso, avrà una bella sorpresa. Non del genere di quella ricevuta da Vannax. Solo che non avrà nessun passaggio.»

«Voi Signori siete una razza di abili truffatori» disse Kickaha. «Però devo ammettere che mi piace il vostro stile.»

Lasciò la stanza. Dopo un istante, le sue grida giunsero dal corridoio. Podarge fece per lasciare la sala, poi si fermò a guardare sospettosamente Wolff. Lui cominciò a correre. Podarge, sicura della sua venuta, corse davanti a lui. Wolff si fermò e tolse il corno dalla sacca. Infilò un dito nella sua parte terminale, lo infilò nella sola apertura della rete fittissima abbastanza grande da contenere il dito. Uno strattone fece cadere la rete. Lui girò il corno e infilò di nuovo la rete, a rovescio. Allora rimise il corno nella sacca, e corse dietro l’arpia.

Lei era con Kickaha, il quale spiegava di avere creduto di avere visto un gworl, che si era poi rivelato semplicemente un’aquila in caccia. Wolff disse che dovevano ritornare dagli altri. Non spiegò che era necessario che il corno si trovasse a una certa distanza dalle pareti della sala di comando. Quando furono ritornati nel corridoio esterno della sala di comando, Wolff aprì la sacca. Kickaha si mise dietro Podarge, pronto a mandarla nel regno dei sogni, se avesse creato qualche difficoltà. Cosa poi avessero potuto fare alle aquile, oltre a scatenar loro addosso le scimmie, era un’altra faccenda.

Podarge esclamò alla vista del corno, ma non fece gesti ostili. Wolff sollevò il corno alle labbra e sperò di ricordare l’esatta sequenza di note. Da quando aveva parlato con Vannax, molto era ritornato, ma molto era ancora perduto.

Aveva appena portalo il corno alle labbra, quando si udì ruggire una voce. Sembrava venire dal soffitto, dalle pareti e dal pavimento, da ogni punto. Parlava nella lingua dei Signori, e Wolff ne fu lieto. Podarge non conosceva quella lingua.

«Jadawin! Non ti ho riconosciuto, finché non ti ho visto col corno! Mi sembrava che avessi un aspetto familiare… avrei dovuto immaginarlo. Ma è passato tanto tempo! Quanto?»

«Molti secoli, o millenni, dipende dalla misura del tempo. Così, i due vecchi nemici si incontrano di nuovo. Ma questa volta non hai via di scampo. Morirai come è morto Vannax.»

«E come?» ruggì la voce di Arwoor.

«Farò fondere le pareti della tua fortezza, apparentemente inespugnabile. O resti dentro ad arrostire, o esci a morire in un altro modo. Non credo che tu rimarrai.»

Bruscamente, fu preso da un senso di ingiustizia. Se Podarge uccideva Arwoor, non avrebbe ucciso l’uomo che era responsabile della sua condizione attuale. Non importava il fatto che Arwoor si sarebbe comportato allo stesso modo, se fosse stato allora il Signore di quel mondo.

D’altra parte lui, Wolff, non era il vero colpevole. Non era il Signore Jadawin che aveva fabbricato questo universo e poi lo aveva manipolato così crudelmente per molte delle sue creature e dei terrestri condotti là con la forza. L’attacco di amnesia era stato completo; aveva tolto da lui tutto di Jadawin, l’aveva trasformato in una pagina bianca. Da quel nulla era emerso un uomo nuovo, Wolff, incapace di agire come Jadawin o qualsiasi altro Signore.

Ed era sempre Wolff, tranne che ora ricordava ciò che era stato. Il pensiero lo rendeva disperato e pentito e ansioso di riparare nel modo migliore. Era questo il modo più degno per iniziare, far morire Arwoor così orribilmente per un delitto che non aveva commesso?

«Jadawin!» gridò Arwoor. «Puoi credere di avere vinto con questa mossa! Ma ti ho dato di nuovo scacco! Ho un’altra pedina da muovere, e vale molto di più di quanto possa valere il tuo corno!»

«E di che si tratta?» domandò Wolff. Aveva la tremenda sensazione che Arwoor non stesse bluffando.

«Ho innescato una delle bombe che ho portato con me quando mi è stato tolto Chiffaenir. È sotto il palazzo, e quando lo vorrò, esploderà e farà saltare la cima del monolito, completamente. È vero che morirò anch’io, ma coinvolgerò nella mia morte il mio vecchio nemico! E moriranno pure la tua donna e i tuoi amici! Pensa a loro!»

Wolff stava pensando a loro. E soffriva.

«Quali sono le tue condizioni?» domandò. «So che non vuoi morire. Sei così infame che dovresti desiderare la morte, ma ti sei avvinghiato alla tua indegna vita per diecimila anni.»

«Basta con gli insulti! Vuoi o non vuoi? Il mio dito è a un centimetro dal bottone.» Arwoor ridacchiò e proseguì: «Anche se stessi bluffando, la qual cosa non è, tu non potresti correre il rischio di venire a controllare.»

Wolff parlò agli altri, che erano rimasti ad ascoltare senza capire, ma sapevano che stava accadendo qualcosa di essenziale. Spiegò tutto quello che osava spiegare, omettendo ogni collegamento tra se stesso e i Signori.

Podarge, col volto trasformato in una maschera di delusione e di follia, disse:

«Chiedigli quali sono le sue condizioni.»

E aggiunse:

«Dopo che tutto questo sarà finito, avrai molte cose da spiegarmi, Wolff.»

Arwoor rispose:

«Devi darmi il corno d’argento, il lavoro unico e preziosissimo del maestro Ilmarwolkin. Lo userò per aprire il passaggio nella piscina e per raggiungere il piano di Atlantide. È tutto quello che voglio, oltre alla tua promessa che nessuno mi inseguirà finché il passaggio non sarà richiuso.»

Wolff rifletté per qualche secondo. Poi disse:

«Molto bene. Puoi uscire adesso. Ti giuro sul mio onore, come Wolff, e sulla Mano di Detiuw, che ti consegnerò il corno e non manderò nessuno al tuo inseguimento, finché il passaggio non sarà richiuso.»

Arwoor rise e disse:

«Sto uscendo.»

Wolff attese che la porta in fondo al corridoio cominciasse ad aprirsi. Sapendo che allora Arwoor non avrebbe potuto sentirlo, disse a Podarge:

«Arwoor pensa di averci battuti, e può essere tranquillo. Emergerà dal passaggio in un punto a sessanta chilometri da qui, vicino a Ikwekwa, un sobborgo della città di Atlantide. Sarebbe alla mercè tua e delle tue aquile, se non esistesse un secondo punto di risonanza a quindici chilometri da Ikwekwa. Questo passaggio si aprirà al suono del corno, e trasporterà Arwoor in un altro universo. Ti mostrerò dov’è quando Arwoor avrà attraversato il passaggio nella piscina.»

Arwoor avanzò sicuro. Era un uomo alto, dalle spalle larghe e dall’aria simpatica, dagli occhi azzurri e dai capelli biondi e ricci. Prese il corno da Wolff, si inchinò ironicamente, e discese il corridoio. Podarge lo guardò con tanta furia che Wolff temette che saltasse su di lui subito. Ma le aveva detto che doveva mantenere le sue promesse, lui, Wolff: quella fatta a lei e quella fatta ad Arwoor.

Arwoor passò tra due file di attaccanti, immobili e con lo sguardo fiammeggiante, simili a un’interminabile teoria di statue di marmo. Wolff non aspettò che Arwoor avesse raggiunto la piscina, ma entrò nella sala di comando. Un rapido esame gli mostrò che Arwoor aveva innescato un dispositivo che avrebbe fatto esplodere la bomba. Senza dubbio, si era concesso tempo sufficiente per fuggire. Malgrado ciò, Wolff sudò freddo finché non fu riuscito a disinnescare il terribile ordigno. Kickaha era già ritornato, dopo avere seguito Arwoor.

«Se ne è andato, certo» disse. «Ma non è stato facile come aveva pensato. Il passaggio di emergenza si trovava sott’acqua, a causa del flusso da lui stesso scatenato. Ha dovuto immergersi nell’acqua, a nuotare. Quando il passaggio si è chiuso, stava ancora nuotando.»

Wolff portò Podarge in una immensa sala, che presentava una mappa dettagliatissima del pianeta, e le indicò la città vicino alla quale si trovava il passaggio. Poi, su uno schermo, le mostrò il passaggio a distanza ravvicinata. Podarge studiò per un minuto mappa e schermo. Diede un ordine alle sue aquile, ed esse sfilarono dietro di lei. Anche le scimmie furono spaventate dalla luce di odio che brillava nei grandi occhi dei pennuti.

Arwoor era a sessanta chilometri dal monolito, ma doveva percorrerne altri quindici. Inoltre, Podarge e le sue fide si lanciavano da un’altezza di diecimila metri. L’angolazione di discesa era tale da far loro accumulare una velocità impressionante. Sarebbe stata una corsa disperata tra Podarge e la sua preda.

Mentre aspettava davanti allo schermo, Wolff ebbe il tempo sufficiente per riflettere. Alla fine, avrebbe detto a Chryseis chi era e come era diventato Wolff. Avrebbe saputo che lui era andato in un altro universo, per visitare uno dei rari Signori amichevoli. I Vaernirn erano molto soli, malgrado i loro grandi poteri, e volevano avere contatti, di quando in quando, con i loro pari. Ritornando nel suo universo, era caduto in una trappola sistemata da Vannax, un Signore derubato del suo universo. Jadawin era stato scagliato nell’Universo della Terra, ma aveva portato con sé lo sbalordito Vannax. Vannax era fuggito con una mezzaluna, dopo una selvaggia battaglia sulle pendici della collina. Cosa fosse accaduto all’altra mezzaluna. Wolff non lo sapeva. Ma Vannax non l’aveva, questo era certo.

Allora era venuto l’attacco di amnesia, e Jadawin, aveva perduto tutti i suoi ricordi… era diventato, in effetti, un neonato, una tabula rasa. I Wolff lo avevano adottato, ed era iniziata la sua educazione terrestre.

Wolff non conosceva il motivo dell’amnesia. Poteva essere stata causata da un colpo alla testa, durante la lotta con Vannax. O avrebbe potuto derivare dal terrore di trovarsi isolato e abbandonato su un pianeta straniero. I Signori dipendevano tanto dalla loro scienza ereditaria che, togliendola loro, essi diventavano meno che esseri umani.

Oppure, questa perdita di memoria poteva essere stata provocata dalla lunga lotta contro la sua coscienza. Per anni, prima di essere gettato volente o nolente in un altro mondo, era stato insoddisfatto di sé, disgustalo del suo comportamento e intristito dalla sua solitudine e dalla sua insicurezza. Nessun essere era più potente di un Signore, però nessun essere poteva essere più solo e più conscio dei fatto che ogni minuto poteva essere l’ultimo per lui. Altri Signori complottavano contro di lui; doveva stare in guardia continuamente.

Qualunque fosse stato il motivo, lui era diventato Wolff. Ma, come aveva detto Kickaha, c’era un’affinità tra lui e il corno e i punti di risonanza. Non era stato per caso che lui si era trovato nel ripostiglio di quella casa nell’Arizona, quando Kickaha aveva lanciato il corno. Kickaha aveva avuto il sospetto che Wolff fosse un Signore privato della sua memoria.

Wolff ora sapeva perché aveva appreso le lingue di quel pianeta con tanta facilità e straordinaria prontezza. Le stava ricordando. E aveva avuto un’attrazione così rapida e possente per Chryseis, perché lei era stata la sua favorita, tra tutte le donne del suo regno. Aveva perfino pensato di portarla nel palazzo e di farne la sua Signora.

Lei non lo aveva riconosciuto, incontrandolo sotto le spoglie di Wolff, perché non aveva mai visto il suo volto. Quel trucchetto della luce sul volto aveva celato i suoi lineamenti. In quanto alla voce, aveva usato uno strumento per ampliarla e trasformarla, per incutere timore ai suoi adoratori. Né la sua grande forza era naturale, perché si era servito dei procedimenti biologici studiati nei suoi laboratori per ottenere un’energia da semidio.

Avrebbe cercato di riparare per quanto possibile all’arroganza e ai delitti di Jadawin, un essere che ora costituiva soltanto una parte trascurabile di lui. Nei biocilindri avrebbe creato dei nuovi corpi umani, e vi avrebbe messo i cervelli di Podarge e delle sue suddite, delle scimmie di Kickaha, di Ipsewas, e di tutti coloro che lo avessero desiderato. Avrebbe permesso al popolo di Atlantide di ricostruire, e non sarebbe stato un tiranno. Non avrebbe interferito negli affari interni dei piani di quel mondo, se non fosse stato assolutamente indispensabile.

Kickaha lo chiamò davanti allo schermo. Arwoor era riuscito a trovare un cavallo, in quella landa di desolazione, e stava galoppando furiosamente.

«La fortuna del diavolo!» disse Kickaha, e grugnì.

«Credo che il diavolo sia dietro di lui» disse Wolff. Arwoor si era voltato, e aveva sollevato lo sguardo, e ora stava frustando a sangue il cavallo.

«Sta per farcela! disse Kickaha. C’è un Tempio del Signore a meno di un chilometro!»

Wolff guardò la grande struttura di pietra bianca, in cima a un’alta collina. All’interno del tempio si trovava la stanza segreta che lui aveva usato quando era stato Jadawin.

Scosse il capo e disse:

«No!»

Podarge apparve nel campo visivo. Stava scendendo a grande velocità: le grandi ali battevano, e il volto si tendeva avanti, bianco sullo sfondo del cielo verde. Dietro di lei venivano le sue aquile.

Arwoor cavalcò sulla collina, finché poté farlo. Poi le zampe della giumenta cedettero, e l’animale cadde. Arwoor cominciò a correre. Podarge si tuffò su di lui. Arwoor corse a zig-zag, come uno scoiattolo che cerca di sfuggire al falco. L’arpia lo segui nelle sue evoluzioni, indovinò uno dei suoi movimenti, e piombò su di lui. Gli artigli lo colpirono alla schiena. Sollevò le mani in aria, e la sua bocca divenne una O attraverso la quale usciva un urlo che gli osservatori davanti allo schermo non potevano sentire.

Arwoor cadde con Podarge su di lui. Le altre aquile scesero e si radunarono a guardare.


FINE

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