CAPITOLO IV

Le prese la mano, e avanzarono fianco a fianco verso la continua canzone delle onde. Non avevano percorso cento metri, che Wolff vide il primo gworl. Uscì dal riparo di un tronco, e sembrò stupito quanto loro. Gridò, estrasse il coltello, poi si voltò a gridare qualcosa ad altri, dietro di lui. Dopo pochi secondi, un gruppo di sette gworl si era raccolto, e ciascuno impugnava un lungo coltello ricurvo.

Wolff e Chryseis avevano un vantaggio di cinquanta metri. Sempre stringendo la mano di Chryseis, e il corno nell’altra mano, Robert Wolff corse il più velocemente possibile.

«Dove possiamo rifugiarci?» domandò.

«Non lo so!» rispose lei. con voce disperata. «Potremmo nasconderci nel cavo di un albero, ma se ci scoprissero saremmo in trappola.»

Continuarono a correre. Di quando in quando, lui si voltava; gli arbusti erano fitti e nascondevano alcuni gworl, ma ce n’erano sempre due o tre in vista.

«Il masso!» disse lui. «È proprio davanti a noi. Potremo fuggire di lì!»

Si rese conto improvvisamente di quanto non volesse ritornare nel suo mondo natale. Anche se rappresentava una via di scampo e un nascondiglio temporaneo, lui non voleva tornare indietro. La prospettiva di restare intrappolato là e di non potere più ritornare in quel nuovo mondo era così terrificante che fu sul punto di decidere di non suonare il corno. Ma doveva farlo. Quale altro rifugio gli si offriva?

La possibilità di scelta gli fu tolta dopo pochi secondi. Quando lui e Chryseis corsero verso il masso, egli vide diverse figure nere acquattate intorno a esso. Si alzarono, e divennero gworl dai coltelli lampeggianti e dai canini aguzzi.

Wolff e la fanciulla fecero una svolta, mentre i tre che si trovavano ai piedi del masso si univano agli inseguitori. Questi tre erano più vicini degli altri, a soli venti metri dai due fuggiaschi.

«Non conosci nessun posto?» ansimò lui.

«Oltre il bordo» disse lei. «È il solo posto in cui non possano seguirci. Sono stata di sotto un’altra volta; ci sono delle caverne. Ma è pericoloso.»

Lui non rispose, risparmiando il fiato per correre. Le sue gambe erano pesanti e i polmoni e la gola bruciavano. Chryseis sembrava in condizioni migliori; correva con scioltezza, le sue lunghe gambe si muovevano armonicamente, e respirava profondamente, ma non con sforzo.

«Ci saremo tra due minuti» disse lei.

I due minuti sembrarono molto più lunghi, ma ogni volta che egli sentì di doversi fermare, si voltò a dare un’occhiata dietro di sé e le energie gli si rinnovarono. I gworl, sebbene ancora più distanziati, erano dietro di loro. Barcollavano sulle loro gambette tozze e arcuate, coi volti bitorzoluti fissi in un’espressione di determinazione.

«Forse, se tu dessi loro il corno» suggerì Chryseis, «se ne andrebbero. Penso che vogliano il corno, e non noi.»

«Lo farò se sarà necessario» ansimò lui. «Ma solo come ultima risorsa.»

Bruscamente, si trovarono a salire una ripida ascesa. Le sue gambe erano pesanti, ma aveva superato il primo momento e poteva farcela ancora per un poco. Poi si trovarono in cima a una collina, sul bordo di un dirupo.

Chryseis gli fece segno di non superare il bordo. Avanzò fino ad esso, precedendolo, si fermò, guardò, e gli fece segno di raggiungerla. Quando fu accanto a lei, anche lui guardò in basso. Il suo stomaco si contrasse bruscamente.

Composta di roccia nera e lucida, la discesa era a strapiombo per diversi chilometri. Poi, più nulla.

Nulla, all’infuori del cielo verde.

«Così… questo è il bordo… del mondo!» disse lui.

Chryseis non rispose. Avanzò, precedendolo, sporgendosi a intervalli regolari a guardare di sotto e a esaminare il bordo.

«Altri sessanta metri, più o meno» disse lei. «Oltre quegli alberi che crescono proprio sul bordo.»

Lei continuò a procedere speditamente, e lui le rimase alle calcagna. Nello stesso istante, un gworl sbucò dai cespugli che crescevano sul bordo interno della collina. Si voltò a gridare, ovviamente per segnalare ai suoi compagni di avere trovato la preda. Poi attaccò senza aspettarli.

Wolff corse verso il gworl. Quando vide che la creatura si preparava a lanciare il coltello, le scagliò contro il corno. Questo sorprese il gworl… o forse, il corno rifletté la luce del sole, abbagliandolo. Qualunque fosse stata la causa, l’esitazione fu sufficiente a Wolff per passare all’attacco. Si avventò, mentre il gworl arretrava e sollevava una mano per prendere il corno. Le enormi dita pelose si strinsero intorno al corno, e un grido di felicità uscì dalla gola della creatura, e Wolff fu su di lui. Mirò allo stomaco rigonfio; il gworl sollevò il suo coltello; le due lame cozzarono l’una contro l’altra con clangore.

Avendo fallito il primo colpo, Wolff desiderò di fuggire di nuovo. Quella creatura era indubbiamente esperta nel maneggiare quei coltelli. Wolff conosceva la scherma molto bene, e non aveva mai cessato di allenarsi. Ma c’era una bella differenza tra la scherma e le lotte a corpo a corpo col coltello, e lui lo sapeva. Eppure non poteva scappare. In primo luogo, il gworl lo avrebbe colpito alla schiena prima che lui avesse potuto fare quattro passi. Inoltre, c’era il corno, stretto nella mano sinistra del gworl. Wolff non poteva lasciarlo.

Il gworl, vedendo la brutta situazione di Wolff, sogghignò. I suoi canini erano lunghi, viscosi, gialli e aguzzi. Con quelli, pensò Wolff, non aveva bisogno di un coltello.

Una forma abbronzata, con una scia di capelli tigrati, passò come un lampo accanto a Wolff. Gli occhi del gworl si spalancarono, ed egli fece per rivolgersi a sinistra. L’estremità di un palo, un lungo bastone privo delle foglie e di parte della corteccia, si affondò nel petto del gworl. All’altra estremità c’era Chryseis. Aveva corso velocissima, con il ramo secco impugnato come l’asta di un saltatore, e appena prima del colpo lo aveva abbassato e aveva colpito la creatura con una velocità, e di conseguenza con una forza, tali da farla cadere all’indietro. Il corno sfuggì di mano al gworl, ma il coltello rimase stretto nell’altra mano.

Wolff balzò avanti e infilò la lama del suo coltello tra le due gibbosità cartilaginee e nel robusto collo del gworl. I muscoli del collo erano duri e grossi, ma non tanto da fermare la lama. Si fermò soltanto quando recise la carotide.

Wolff porse a Chryseis il coltello del gworl.

«Prendi questo.»

Lei lo accettò, ma la sua espressione rimase attonita. Wolff la schiaffeggiò con forza, fino a che ella non si riscosse.

«Hai agito magnificamente!» le disse. «Chi avresti preferito vedere morto, me o lui?»

Staccò la cintura dal cadavere e se l’allacciò intorno alla vita. Adesso possedeva tre coltelli. Infilò nella guaina l’arma macchiata di sangue, prese il corno in una mano, strinse con l’altra la mano di Chryseis, e ricominciò a correre. Dietro di loro, si udì un ululato, quando il primo gworl superò il ciglio dell’altura. Comunque, lui e Chryseis avevano un vantaggio di una trentina di metri, e lo mantennero fino a quando raggiunsero il gruppo di alberi che sorgeva accanto al bordo. Chryseis lo precedeva. Si sdraiò sul ciglio del precipizio, poi lo superò. Wolff si guardò alle spalle, poi la seguì alla cieca, e vide una stretta striscia di terra a circa due metri sotto il bordo. Lei era già scesa sulla striscia di terra, e dopo un istante rimase sospesa nel vuoto, appoggiandosi al terrapieno con le mani. Scese di nuovo, questa volta su una striscia più esigua. Ma essa non terminava; scendeva con un’angolazione di quarantacinque gradi lungo il fianco del precipizio. Potevano servirsi di quel passaggio, appiattendosi contro la parete di roccia, e servendosi delle mani come appoggio.

Anche Wolff si servi di entrambe le mani; si era infilato il corno alla cintura.

Si udì un grugnito, proveniente dall’alto. Sollevò lo sguardo e vide il primo gworl che si calava sul primo terrapieno. Allora, Wolff si voltò a guardare Chryseis, e per la sorpresa fu sul punto di cadere nel vuoto. Era scomparsa.

Lentamente, girò il capo per guardare verso il basso. Si attendeva di vederla cadere nel vuoto, accanto alla parete rocciosa, se non di scoprirla già fluttuante nell’immenso nulla verde.

«Wolff!» disse lei. La sua testa spuntava dalla roccia. «Qui c’è una caverna. Svelto!»

Tremando, sudando, avanzò lentamente lungo il costone verso di lei, e dopo qualche tempo si trovò all’interno di un’apertura. La volta della caverna era sufficientemente alta; riusciva quasi a toccare le pareti con le mani, da entrambe le parti, se spalancava le braccia; il fondo scompariva nell’oscurità.

«Quanto è profonda?»

«Non molto. Ma c’è un’apertura naturale, un pozzo nella roccia, che porta in basso. Si apre sul fondo del mondo; non c’è nulla di sotto, solo cielo e aria.»

«Non può essere» disse lentamente Wolff. «Ma è vero. Questo è un universo basato su princìpi fisici diametralmente opposti a quelli del mio universo. Un pianeta piatto, coi suoi bordi. Ma non riesco a capire come funzioni qui la forza di gravità. Dov’è il suo centro?»

Lei si strinse nelle spalle, e disse:

«Credo che il Signore me lo abbia spiegato, molti anni fa. Ma l’ho dimenticato. Avevo perfino dimenticato che lui mi aveva detto che la Terra è rotonda.»

Wolff si tolse la cintura di cuoio, ne staccò le fondine, e raccolse una pietra ovale nera che pesava circa cinque chili. Infilò nel passante l’estremità della cintura, e poi sistemò la pietra all’interno del cappio. Praticò un foro nella cintura, poi la strinse. La fermò, e fu armato di uno staffile alla cui estremità si trovava una solida pietra.

«Tu seguimi, di fianco» disse lui. «Se ne manco uno, se uno riesce a superarmi, tu spingi mentre lui è sbilanciato. Ma non seguirlo per troppa foga. Pensi di potercela fare?»

Lei annuì, ma evidentemente non aveva il coraggio di parlare.

«Ti chiedo molto, lo so. Capirei, anche se tu cedessi completamente. Ma, in fondo, tu sei dell’antica e ferrea tempra achea. A quei tempi, non si facevano certo complimenti; non puoi avere perduto la tua forza, neppure in questo debilitante pseudo-Paradiso.»

«Io non ero achea» disse lei. «Ero smintea. Ma, in un certo senso, hai ragione. Non provo il terrore che temevo. Solo…»

«Solo, bisogna abituarsi» disse lui. Si sentiva rincuorato, perché si era aspettato una reazione diversa. Se lei riusciva a farcela, avrebbero potuto cavarsela insieme. Ma se lei perdeva il controllo dei suoi nervi, e lui avesse dovuto anche preoccuparsi di una donna isterica, sarebbero entrambi caduti sotto gli attacchi dei gworl.

«Quando si parla del diavolo…» brontolò, quando vide delle dita nere, pelose e adunche profilarsi sul bordo della caverna. Fece roteare la cinghia con forza, in modo che la pietra colpisse la mano. Si udì un grido di sorpresa e di dolore, poi un lungo ululato, mentre il gworl cadeva. Wolff non aspettò che apparisse il secondo. Si avvicinò al bordo della caverna, e fece roteare la cinghia, che colpì qualcosa di soffice, all’esterno. Si udì un altro grido di dolore, e anche questo svanì in un ululato che si allontanava nel vuoto.

«Tre fuori combattimento, sette da affrontare! Sperando che non abbiano ricevuto dei rinforzi.»

Disse a Chryseis:

«Può darsi che qui non ci possano raggiungere.Ma possono prenderci per fame.»

«Il corno?»

Lui rise.

«Adesso non ci farebbero scappare, neppure se andassi a offrire loro il corno. E non voglio che se ne impadroniscano. Piuttosto che darglielo, lo getterò nello spazio.»

Una figura apparve nell’apertura della caverna, mentre piombava dall’alto. Il gworl. con un balzo prodigioso, cadde in piedi e barcollò per un istante. Ma si lanciò in avanti, rotolò come una palla pelosa, e fu di nuovo in piedi. Wolff rimase tanto sorpreso da non reagire immediatamente. Non aveva pensato che essi potessero essere capaci di arrivare fin sopra la caverna, e poi di lasciarsi cadere, perché la roccia al di sopra della caverna gli era sembrata levigata. Ma, chissà come, uno di loro ce l’aveva fatta, e adesso si trovava in piedi, all’interno, con un coltello stretto in pugno.

Wolff lanciò il sasso attaccato alla cintura verso il gworl; questi gli lanciò contro il coltello. Wolff lo scansò ma mancò il bersaglio. Il sasso sfiorò la testa bitorzoluta e pelosa della creatura; il coltello colpì di striscio Wolff alla spalla. Cercò di prendere il suo coltello, che era a terra, e vide una seconda figura pelosa cadere dall’alto all’interno della caverna; una terza creatura girò l’angolo ed entrò.

Qualcosa lo colpì al capo. La vista gli si annebbiò, i sensi si affievolirono, le ginocchia gli si piegarono.


Quando si svegliò, con un forte dolore alla tempia, provò una sensazione spaventevole. Gli sembrò di essere a testa in giù, e di galleggiare al di sopra di un grosso disco nero levigato. Un cappio era stretto intorno al collo, e le mani erano legate. Era appeso a piedi in su nell’aria vuota, eppure, dal nodo scorsoio che aveva intorno al collo, avvertiva soltanto una lieve tensione.

Piegando il capo, riuscì a vedere che la corda scompariva in un’apertura del disco, e che all’estremità opposta del pozzo si vedeva una debole luce.

Grugnì, e chiuse gli occhi, ma li riaprì subito. Il mondo sembrava girare. Subito, riacquistò il senso dell’orientamento. Ora sapeva di non essere sospeso a testa in giù contro tutte le leggi della gravità. Era appeso a una corda che doveva essere assicurata a un punto che si trovava sul fondo del pianeta. Il verde sotto di lui era il cielo.

Pensò: Avrei già dovuto soffocare. Ma non c’è la gravità ad attirarmi verso il basso.

Scalciò, e la reazione lo portò verso l’alto. La bocca del pozzo si avvicinò. La sua testa entrò in essa, ma qualcosa oppose resistenza. Il suo moto rallentò, si fermò, e, come se ci fosse una molla invisibile compressa contro il suo capo, cominciò a muoversi verso il basso. Si fermò solo quando la corda tornò a tendersi.

Erano stati i gworl a fargli questo. Dopo averlo messo fuori combattimento, lo avevano calato nel pozzo, o, molto più probabilmente, lo avevano portato giù. Il pozzo era stretto, un uomo avrebbe potuto appoggiare la schiena a una parete e puntare i piedi contro l’altra. La discesa avrebbe strappato la pelle a un uomo, ma la pelle pelosa dei gworl era parsa abbastanza coriacea, ed essi avrebbero potuto sopportare senza danni la discesa e la risalita. Poi era stata calata una corda, era stata messa intorno al suo collo, ed egli era stato calato attraverso il foro sul fondo del mondo.

Non c’era alcun modo di risalire. Sarebbe morto di fame. Il suo corpo avrebbe galleggiato sui gorghi dello spazio, finché la corda non fosse marcita. E neppure allora sarebbe caduto, ma avrebbe continuato a galleggiare nell’ombra del disco. I gworl che lui aveva fatto cadere dal costone erano precipitati, ma era stata la loro accelerazione a farli proseguire verso il basso.

Sebbene la sua situazione fosse disperata, non poté fare a meno di ipotizzare sulle caratteristiche gravitazionali del pianeta piatto. Il centro doveva trovarsi sul fondo; tutta l’attrazione era rivolta verso l’alto, nella massa del pianeta. Da questo lato, l’attrazione non esisteva.

Cosa avevano fatto a Chryseis, i gworl? L’avevano uccisa, come avevano ucciso la sua amica?

Si rese conto allora che, qualunque cosa le avessero fatto, avevano di proposito evitato di appenderla vicino a lui. Avevano escogitato, come ultimo tocco della loro raffinata tortura, un modo perché lui si tormentasse per il suo destino. Fino a quando fosse sopravvissuto, alla estremità della corda, avrebbe pensato a quanto poteva esserle accaduto. Avrebbe immaginato una moltitudine di possibilità, tutte orribili.

Per un lungo periodo, rimase sospeso con una lieve inclinazione nei confronti della perpendicolare, in posizione costante. Laggiù, dove non esisteva gravità, non poteva oscillare come un pendolo.

Sebbene restasse nell’ombra del disco nero, poté rendersi conto dei movimenti del sole. Il sole era invisibile, nascosto dal disco, ma la luce di esso cadeva sul bordo della grande curva e lentamente avanzava su di essa. Il cielo verde, sotto il sole, splendeva vivido, mentre le parti non illuminate, davanti e dietro, diventavano oscure. Poi una luce più fioca, lungo il bordo del disco, apparve, ed egli capì che la luna stava seguendo il sole.

Deve essere mezzanotte, pensò. Se i gworl la stanno portando da qualche parte, può darsi che siano già in mare. Se l’hanno torturata, forse è morta. Se le hanno fatto del male, spero che sia morta.

Bruscamente, mentre pendeva nell’oscurità sotto il fondo del mondo, sentì uno strattone al collo. Il nodo si strinse, anche se non tanto da soffocarlo, e lui fu trascinato verso l’apertura del pozzo. Poi la sua testa attraversò la rete della gravità (come la tensione di superficie dell’acqua, pensò) ed egli fu libero dall’abisso. Delle braccia forti e vigorose lo circondarono e lo strinsero contro un petto forte, caldo e peloso. Un alito alcoolico gli sfiorò il volto. Una bocca cuoiosa gli scalfì la guancia, mentre la creatura lo stringeva di più e cominciava a risalire il pozzo con Wolff tra le braccia. Quando la cosa fece forza con le gambe, si udì il fruscio del pelo sulla roccia. Ci fu uno strattone, quando le gambe si sollevarono di colpo, e le mani strinsero un nuovo appiglio, poi un altro.

«Ipsewas?» domandò Wolff.

Lo zebrilla rispose:

«Ipsewas. Non parlare, adesso. Devo risparmiare il fiato. Non è facile.»

Wolff obbedì, sebbene gli fosse molto difficile non fare domande su Chryseis. Quando raggiunsero il culmine del pozzo, Ipsewas gli tolse la corda dal collo.

Finalmente, osò parlare.

«Dov’è Chryseis?»

Ipsewas uscì a sua volta dal pozzo, rigirò Wolff e gli slegò le mani. Ansimava per la fatica, ma riuscì a parlare lo stesso:

«I gworl l’hanno portata con loro in una grossa canoa e hanno preso il mare, in direzione della montagna. Lei gridava verso di me, mi supplicava di aiutarla. Poi un gworl l’ha colpita, penso che le abbia fatto perdere i sensi. Io ero seduto sulla spiaggia, ubriaco come il Signore, stordito dal succo di noce, e mi divertivo con Autonoe… sai, la akowile dalla bocca grande.

«Prima di perdere i sensi, Chryseis mi gridò qualcosa su di te appeso al Foro nel Fondo del Mondo. Non capivo di che stava parlando, perché sono venuto qui l’ultima volta molto, molto tempo fa. Quanto, non vorrei dirlo. Anzi, non lo ricordo affatto. Ormai, tutto è piuttosto nebuloso, vedi.»

«No, non vedo» disse Wolff. Si alzò e si fregò i polsi. «Ma temo che, se restassi ancora per molto in questo posto, anch’io finirei stordito da una nebbia alcoolica.»

«Ho pensato di seguirla» disse Ipsewas. «Ma i gworl hanno agitato contro di me quei loro grandi coltelli, e mi hanno minacciato di morte. Hanno tirato fuori dagli arbusti la loro canoa, e in quel momento ho pensato che anche se mi uccidevano, cosa me ne importava? Non avrei permesso che se la cavassero, minacciandomi, e portando via quella povera piccola Chryseis solo il Signore sa dove. Ai vecchi tempi, nella Troade, io e Chryseis eravamo amici, anche se non ci frequentiamo molto, da un po’ di tempo in qua. Anzi, da molto tempo in qua, credo. Comunque, bruscamente mi era venuto il desiderio di una vera avventura, di un’eccitazione autentica… e ho sfidato quelle mostruose creature deformi.

«Mi sono messo a correre, ma quando ebbi preso la mia decisione, loro erano già in mare, con Chryseis a bordo. Allora mi sono guardato intorno, cercando un histoikhthys, immaginando di speronare con esso la loro canoa. Quando fossero stati in acqua, sarebbero stati nelle mie mani, coltelli o no. Dal modo in cui si comportavano a bordo, deducevo che la loro confidenza col mare non era eccessiva. Dubito che sappiano nuotare.»

«Anch’io ne dubito» disse Wolff.

«Ma non c’era nessun histoikhthys a portata di mano. E il vento stava portando lontano l’imbarcazione: avevano issato una grande vela. Ritornai da Autonoe, e bevvi ancora. Avrei potuto dimenticarmi di te, come tentavo di dimenticare Chryseis. Ero sicuro che le sarebbe stato fatto del male, e non riuscivo a sopportare l’idea, e così volevo ubriacarmi per dimenticare. Ma Autonoe. sia benedetto il suo cervellino, mi ricordò quello che Chryseis aveva detto di te.»

«Partii in fretta, e per un po’ rimasi in giro a cercare, perché non riuscivo a ricordare dove si trovasse il costone che conduceva alla caverna. Fui sul punto di rinunciare, e di ricominciare a bere. Ma qualcosa mi impose di continuare. Forse, il desiderio di fare una cosa, una sola cosa buona, in questa eternità in cui non si fa nulla, né in bene né in male.»

«Se non fossi giunto, sarei rimasto appeso fino all’eternità, a morire di fame e di sete. Ora, Chryseis ha una possibilità di salvezza, sempre che riesca a trovarla. La seguirò, e andrò a cercarla. Vuoi venire anche tu?»

Wolff si aspettava il sì di Ipsewas, ma non pensava che Ipsewas avrebbe conservato la sua determinazione, una volta di fronte all’oceano. E così rimase molto sorpreso.

Lo zebrilla si gettò a nuoto, afferrò una parte di guscio quando un histoikhthys gli passò accanto, e si issò sul dorso della creatura. La guidò fino alla spiaggia, schiacciando i grossi centri nervosi, chiazze rosso-scuro ben visibili sulla carne esposta.

Wolff, sotto la guida di Ipsewas, mantenne la pressione su un certo punto per trattenere il pesce-barca (questa era la traduzione letterale di histoikhthys) sulla spiaggia. Lo zebrilla raccolse diverse bracciate di frutta e noci e una buona quantità di noci da cocktail.

«Dovremo mangiare e bere, soprattutto bere» spiegò Ipsewas. «Può essere un lungo viaggio attraverso Okeanos fino ai piedi della montagna. Non ricordo.»

Dopo aver stivato le ultime provviste in uno dei ricettacoli naturali che si trovavano nel guscio del pesce-barca, essi partirono. Il vento spinse la sottile vela cartilaginea, e il grosso mollusco inghiottì acqua dalla bocca e la sprigionò da una valvola muscolare che si trovava nella sua parte posteriore.

«I gworl hanno un certo vantaggio» disse Ipsewas. «Ma non possono sostenere la nostra velocità. Non raggiungeranno l’altra sponda molto prima di noi.» Aprì una noce da cocktail e ne offri il contenuto a Wolff. Wolff accetto. Era esausto, ma teso. Aveva bisogno di qualcosa che lo stordisse e lo facesse dormire. C’era una nicchia nel guscio, nella quale entrò. Rimase sdraiato contro la pelle nuda del pesce-barca, che era calda. Dopo qualche tempo si addormentò, ma prima colse un’ultima immagine del corpo massiccio di Ipsewas. vicino a uno dei centri nervosi. Ipsewas stava sollevando un’altra noce da cocktail sopra il suo capo, e si versava tra le spesse labbra da gorilla il contenuto.


Quando Wolff si svegliò, scoprì che il sole stava uscendo dalla curva della montagna. La luna piena (era sempre piena) stava scivolando in quel momento dall’estremità opposta della montagna.

Riposato, e famelico, mangiò qualche frutto s ie noci ricche di proteine. Ipsewas gli mostrò come si poteva variare la dieta coi «sanguinacci». Erano bacche color marrone scuro, che crescevano a grappoli da peduncoli che uscivano dal guscio del pesce-barca. Ciascuna era grande come una palla da baseball e aveva una pellicola, che si apriva facilmente, dalla quale usciva un liquido che aveva l’aspetto e il sapore del sangue. La carne, all’interno, sembrava carne di manzo, con un lieve profumo di gamberetti.

«Quando sono mature cadono, e i pesci le mangiano quasi tutte. Ma alcune giungono fino alla spiaggia. Sono migliori quando le stacchi dal peduncolo.»

Wolff si sedette accanto a Ipsewas. Mangiando, disse:

«L’histoikhtys è molto comodo. Sembra troppo buono per essere vero.»

«Il Signore li ha progettati e fabbricati per il nostro piacere, e per il suo.»

«Il Signore ha creato questo universo?» disse Wolff, che non si sentiva più di giurare sul fatto che si trattasse di una leggenda.

«È meglio che tu ci creda» replicò Ipsewas, bevendo di nuovo. «Perché in caso contrario il Signore ti finirà. Anzi, dubito che ti permetta di continuare, comunque vada. Non gli piacciono gli ospiti non invitati.»

Sollevò la noce e disse: «Ti auguro di poter sfuggire alla sua vigilanza. E morte e dannazione al Signore.»

Lasciò cadere la noce e balzò su Wolff. Wolff fu preso del tutto di sorpresa, e non ebbe la minima possibilità di difendersi. Cadde nella nicchia del guscio nella quale aveva dormito, con Ipsewas sopra di lui.

«Buono!» disse Ipsewas. «Rimani dentro finché non ti dirò di uscire. C’è un Occhio del Signore.»

Wolff scivolò nell’ombra della nicchia, e cercò di confondersi in essa. Comunque, guardò fuori di sbieco, e vide l’ombra del corvo avvicinarsi, seguita dal corvo stesso. L’uccello passò su di luì una volta, compì una voltata, e cominciò a scendere per posarsi sul pesce-barca.

«Accidenti a lui! Non potrà fare a meno di vedermi» brontolò tra sé Wolff.

«Niente paura» disse Ipsewas. «Ahhh!»

Ci fu un tonfo, uno sciaquio, e un grido che fece balzare di scatto Wolff, col risultato di sbattere la testa contro il guscio. Attraverso lampi di luce e di oscurità, vide il corvo stritolato da artigli giganteschi. Se il corvo era grande come un’aquila, l’uccisore che era sceso come un fulmine dal cielo verde sembrò, in quel primo istante di sorpresa, immenso come un roc. Wolff superò gli effetti del colpo, la vista gli si schiarì, e vide un’aquila dal corpo verde chiaro, una testa rosso chiaro, e un becco giallo chiaro. Era grande sei volte più del corvo, e le sue ali, grandi ciascuna almeno dieci metri, sbattevano maestosamente per sollevare l’uccello dal mare nel quale era stato gettato dalla violenza del suo stesso attacco, assieme alla sua preda. Dopo qualche istante, riuscì a sollevarsi completamente, e si alzò sempre più, ma prima di allontanarsi troppo, si voltò e permise a Wolff di vedere i suoi occhi. Erano neri scudi che riflettevano le fiamme della morte. Wolff tremò; non aveva mai visto una brama di uccidere così vivida e nuda.

«Puoi rabbrividire» disse Ipsewas. Il suo volto sorridente apparve sopra la nicchia del guscio. «Quella era una prediletta di Podarge. Podarge odia il Signore e lo attaccherebbe da sola, se ne avesse la possibilità, anche sapendo che questo potrebbe significare la sua fine. E così sarebbe. Sa di non potersi avvicinare al Signore, ma può dire alle sue predilette di attaccare gli Occhi del Signore. E loro eseguono, come hai visto.»

Wolff lasciò la nicchia e rimase immobile per un poco, seguendo con lo sguardo la figura lontana dell’aquila e della sua preda.

«Chi è Podarge?»

«È, come me, uno dei mostri del Signore. Anche lei, una volta, viveva sulle coste dell’Egeo; era una fanciulla bellissima. Questo accadde quando il grande re Priamo e il divino Achille e lo scaltro Ulisse vivevano. Li ho conosciuti tutti; essi sputerebbero sul cretense Ipsewas, una volta coraggioso marinaio e abile lanciere, se adesso potessero vedermi. Ma stavo parlando di Podarge. Il Signore la portò nel suo mondo e fabbricò un corpo mostruoso e mise in esso il suo cervello.

«Vive lassù, non so dove, in una caverna sulla montagna. Lei odia il Signore; odia anche ogni essere umano normale, e lo divora, se non ci pensa prima una delle sue pupille. Ma sopra ogni cosa, lei odia il Signore.»

Sembrava che questo fosse tutto ciò che sapeva su di lei Ipsewas, oltre al fatto che Podarge non era stato il suo nome, prima che il Signore l’avesse presa. Ricordava anche di averla conosciuta bene. Wolff gli fece altre domande, perché gli interessava quello che Ipsewas poteva dirgli di Agamennone, Achille e Ulisse e degli altri eroi dell’epica omerica. Disse allo zebrilla che si pensava che Agamennone fosse stato un personaggio storico. Ma Achille e Ulisse? Erano realmente esistiti?

«Certo che sì» disse Ipsewas. Grugnì, poi continuò: «Immagino che tu sia curioso di conoscere qualcosa su quei tempi. Ma ti posso dire ben poco. È passato troppo tempo. Troppi giorni inutili. Giorni? Secoli, millenni… solo il Signore lo sa. E c’è stato anche troppo alcool.»

Durante il resto del giorno, e parte della notte, Wolff cercò di far parlare Ipsewas, ma riuscì a ottenere ben poco. Ipsewas, annoiato, bevve metà della sua provvista di noci, e finalmente cominciò a russare. L’alba giunse, verde e dorata, dal fianco della montagna. Wolff guardò l’acqua, così limpida che egli poteva vedere le centinaia di migliaia di pesci, dalle forme fantastiche e dai colori splendidi. Un pesce color arancio carico uscì dagli abissi, con in bocca una creatura simile a un diamante vivo. Un polpo dalle chiazze purpuree, arretrando di scatto, fece una brusca giravolta. Molto, molto in basso, una cosa enorme e bianca apparve per un istante, poi tornò a scendere verso il fondo.

Dopo qualche tempo, udì il rombo della risacca, e una sottile linea bianca apparve sulla base della Thayaphayawoed. La montagna, così levigata in lontananza, ora appariva rotta da crepacci, fessure e guglie, da dirupi e scarpate e immobili fontane di pietra. La Thayaphayawoed saliva e saliva e saliva; sembrava incombere sul mondo.

Wolff scosse Ipsewas finché, lamentandosi e brontolando, lo zebrilla non si alzò in piedi. Socchiuse gli occhi arrossati, si grattò, tossì, poi allungò la mano verso una noce da cocktail. Finalmente, dietro pressione di Wolff, guidò il pesce-barca, in modo che la sua rotta fosse parallela alla base della montagna.

«Una volta conoscevo questa zona» disse lui. «Una volta pensavo di scalare la montagna, di trovare il Signore, e di cercare di…» Fece una pausa, si grattò il capo, ammiccò, e disse: «Ucciderlo! Ecco! Sapevo di poter ricordare la parola. Ma non è servito a niente. Non ho avuto il coraggio di tentare, da solo.»

«Adesso sei con me» disse Wolff.

Ipsewas scosse il capo, e bevve ancora.

«Adesso non è allora» rispose. «Se allora tu fossi stato con me… bene, a che serve parlare? Allora tu non eri neppure nato. Non era ancora nato il tuo bis-bis-bis-bis-bis-bisnonno. No, adesso è troppo tardi.»

Rimase in silenzio, occupato a dirigere il pesce-barca in un’apertura nella montagna. La grande creatura, improvvisamente, sobbalzò: la grande vela cartilaginea si ripiegò intorno all’albero osseo; il corpo si sollevò, portato da un’enorme ondata. E poi si trovarono nelle acque calme di un fiordo stretto, scosceso e scuro.

Ipsewas indicò una serie di costoni.

«Prendi quella strada. Puoi andare lontano. Quanto, non so dirtelo. Io mi stancai ed ebbi paura e ritornai nel Giardino. Non ritornerò mai più, avevo pensato.»

Wolff supplicò Ipsewas di restare. Gli disse che aveva molto bisogno della sua forza, e che Chryseis aveva bisogno di lui. Ma lo zebrilla scosse il capo.

«Ti darò la mia benedizione, per quello che vale.»

«E io ti ringrazio per quello che hai fatto per me» disse Wolff. «Se non avessi deciso di venire a cercarmi, sarei ancora appeso a una corda. Forse, ti rivedrò. Con Chryseis.»

«Il Signore è troppo forte» replicò Ipsewas. «Pensi di avere una sola possibilità di successo, contro un essere che può crearsi un universo privato?»

«Ho una possibilità di successo» disse Wolff. «Finché combatto e uso il mio ingegno e ho un po’ di fortuna, avrò una possibilità di successo.»

Scese dalla conchiglia, e quasi scivolò sulla roccia bagnata. Ipsewas gli disse:

«Un cattivo auspicio, amico mio!»

Wolff si voltò, gli sorrise e gridò:

«Non credo negli auspici, mio superstizioso amico greco! Arrivederci!»

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