Wolff non ebbe il tempo di rispondere, perché la porta della gabbia fu aperta da un’aquila, che si serviva della zampa con la stessa disinvoltura di una mano. Una testa possente e un becco affilato lo spinsero nella gabbia; la porta si chiuse dietro di lui.
«E così, eccoti qui» disse Kickaha, con voce baritonale. «La domanda è questa: che facciamo, adesso? Il nostro soggiorno può essere breve e spiacevole.»
Wolff, guardando attraverso le sbarre, vide un trono scolpito nella roccia, e su di esso una donna. Anzi, una donna a metà, perché invece di braccia ella aveva delle ali, e la parte inferiore del suo corpo era quella di un uccello. Le gambe, comunque, erano molto più grosse, in proporzione, di quelle delle aquile terrestri. Dovevano sostenere un peso maggiore. Wolff trasse subito le sue conclusioni, e capì che si trattava di un altro dei mostri prodotti in laboratorio dal Signore. Doveva trattarsi di quella Podarge della quale aveva parlato Ipsewas.
Dalla cintola in su, era una donna quale pochi uomini hanno mai avuto la fortuna di vedere. La sua pelle era bianca come l’opale più lattescente, i seni superbi, il collo un altare alla bellezza. I capelli erano lunghi e neri e lisci e scendevano a incorniciare un volto che era anche più bello di quello di Chryseis, un’ammissione che Wolff aveva pensato fosse impossibile strappargli.
Comunque, c’era qualcosa di orribile in quella bellezza; una ventata di pazzia. Gli occhi fiammeggiavano come quelli di un falco ridotto alla disperazione più nera.
Wolff distolse gli occhi da quelli della creatura, e perlustrò con lo sguardo la caverna.
«Dov’è Chryseis?» mormorò.
«Chi?» rispose nello stesso tono Kickaha.
Con poche frasi appropriate, Wolff la descrisse e gli spiegò quanto gli era accaduto.
Kickaha scosse il capo.
«Non l’ho mai vista.»
«Ma i gworl?»
«Ce n’erano due gruppi. L’altro deve essere in possesso del corno… e di Chryseis. Non preoccuparti di loro. Se non riusciamo a trovare qualche spiegazione brillante per uscire di qui, siamo finiti. E in un modo piuttosto orribile.»
Wolff chiese notizie sul vecchio. Kickaha rispose che, un tempo, era stato l’amante di Podarge. Era un aborigeno, uno di coloro che erano stati portati in questo universo subito dopo che il Signore aveva terminato di fabbricarlo. L’arpia ora lo teneva per eseguire i lavori più vili, che richiedevano mani umane. Il vecchio era andato a salvare Wolff per ordine di Podarge, senza dubbio perché l’arpia aveva avuto da lungo tempo notizia della presenza di Wolff nel suo regno, dalle sue protette.
Podarge si muoveva incessantemente sul suo trono, e ripiegava e spiegava le ali.
«Voi due laggiù!» gridò. «Smettete di mormorare! Kickaha, cos’altro hai da dire in tuo favore, prima che dia via libera alle mie aquile?»
«Posso soltanto ripetere, col rischio di diventare monotono, quello che ho detto prima!» rispose ad alta voce Kickaha. «Sono un nemico del Signore, almeno quanto te, e lui mi odia, e mi ucciderebbe, se potesse! Sa che gli ho rubato il corno e che rappresento un pericolo per lui. I suoi Occhi perlustrano i quattro piani del mondo e salgono e scendono dalla montagna per cercarmi. E…»
«Dov’è questo corno che hai detto di avere rubato al Signore? Perché adesso non l’hai con te? Credo che tu menta, per salvare la tua indegna carcassa!»
«Ti ho detto che ho aperto un varco con l’altro mondo, e che ho gettato il corno a un uomo che è apparso al di là del varco. Adesso, si trova davanti a te.»
Podarge girò il capo con una mossa più da aquila che da donna, e fissò Wolff.
«Non vedo nessun corno. Vedo un po’ di carne dura e decrepita dietro a una barba nera!»
«Mi ha detto che un’altra banda di gworl glielo ha rubato» replicò Kickaha. «Li stava inseguendo, per riaverlo, quando i musi di pipistrello lo hanno catturato e tu lo hai salvato con tanta magnanimità. Liberaci, graziosa e bella Podarge, e noi ritroveremo il corno. Con esso, potremo combattere il Signore. Egli può essere sconfitto! Può essere il possente Signore, ma non è onnipotente! Se lo fosse, avrebbe trovato da molto tempo noi e il corno!»
Podarge si alzò, aprì le ali, le richiuse, e scese gli scalini del trono, avvicinandosi alla gabbia. Camminando, non dondolava come un uccello, ma avanzava rigidamente.
«Vorrei poterti credere» disse con voce più bassa, ma altrettanto intensa. «Se solo lo potessi! Ho aspettato per anni e per secoli e per millenni, oh, tanto che il mio cuore soffre al solo ricordo del tempo! Se credessi che l’arma per restituirgli il colpo fosse veramente giunta nelle mie mani…»
Lei li fissò, aprì le ali, e disse:
«Guardate! «Le mie mani», ho detto. Ma non ho mani, né il corpo che un tempo fu mio. Quel…» Ed esplose in un’invettiva così furibonda e selvaggia, che Wolff fu costretto suo malgrado a tremare. Non furono le parole ma la furia, che poteva essere soltanto folle o divina, che lo fecero gelare.
«Se il Signore può essere rovesciato… e credo che sia possibile farlo… ti sarà restituito il tuo corpo umano» disse Kickaha, quando lei ebbe terminato.
Lei ansimò, soffocata da un impeto d’ira, e li guardò con evidente brama di sangue. Wolff pensò che tutto fosse perduto, ma si rese conto dalle parole di lei che la furia incredibile non era per loro.
«Il vecchio Signore se ne è andato da molto tempo, così dicono le voci. Ho mandato una delle mie dilette a indagare, e lei è ritornata con una strana storia. Mi ha detto che c’è un nuovo Signore, ma che lei non sapeva se si trattava o no dello stesso in un nuovo corpo. L’ho mandata nuovamente dal Signore, che ha rifiutato la mia supplica di restituirmi il corpo che fu mio. Così non importa che ci sia o no un nuovo Signore. È maligno e crudele come il vecchio, se non è veramente lui. Ma devo sapere!
«Per prima cosa, chiunque sia, il Signore deve morire. Poi, scoprirò se era in un nuovo corpo, o no. Se il vecchio Signore ha lasciato questo universo, lo inseguirò per tutti i mondi, e lo troverò!»
«Non puoi fare questo senza il corno» disse Kickaha. «Esso ed esso soltanto apre il passaggio senza un apparecchio collegato nell’altro mondo!»
«Cosa ho da perdere?» domandò Podarge. «Se menti e mi tradisci, alla fine ti avrò, e la caccia potrebbe essere divertente. Se dici il vero, allora vedremo quello che potrà succedere.»
Parlò all’aquila che si trovava accanto a lei, ed essa aprì la gabbia. Kickaha e Wolff seguirono l’arpia per la caverna, fino a un grande tavolo con delle sedie intorno. Soltanto allora Wolff si rese conto che la caverna era una stanza del tesoro; bottino di valore inestimabile, il bottino di un mondo, era ammucchiato ovunque. C’erano delle grosse ceste piene di gioielli splendenti, collane di perle, e recipienti d’oro e d’argento di squisita fattura. C’erano miniature d’avorio e di uno strano legno nero e lucido. C’erano quadri stupendi. Armature e armi di ogni sorta, tranne che armi da fuoco, erano ammucchiate disordinatamente in ogni angolo.
Podarge ordinò loro di sedersi su delle sedie elaborate e artistiche, coi braccioli che terminavano con delle zampe di leone. Fece segno con un’ala, e dall’ombra uscì un giovanotto umano. Portava un vassoio d’oro finemente cesellato, sul quale c’erano tre tazze di cristallo di squisita fattura. Erano state fatte a guisa di pesci guizzanti dalle bocche spalancate; le bocche erano piene di un saporito vino rosso.
«Uno dei suoi amanti» mormorò Kickaha, rispondendo alla muta domanda di Wolff, che fissava il bel giovane biondo. «Portato dalle sue aquile dal piano conosciuto come Drachelandia, o Teutonia. Povero ragazzo! Ma è meglio che essere mangiato vivo dalle sue pupille, e ha sempre la speranza di fuggire.»
Kickaha bevve, ed emise un rumoroso sospiro di soddisfazione, mentre il vino gli scaldava il corpo. Wolff sentì che il vino si muoveva nel suo corpo, come se fosse stato vivo. Podarge prese la tazza tra le punte delle ali, e la sollevò alle labbra.
«Alla morte e dannazione del Signore! Di conseguenza, al vostro successo!»
I due bevvero di nuovo. Podarge posò la tazza sul tavolo, e carezzò lievemente Wolff con la punta dell’ala.
«Raccontami la tua storia.»
Wolff parlò a lungo. Mangiò fette di carne arrostita di maiale-capra, pane bianco, e frutta, e bevve il vino. La testa cominciò a girargli, ma continuò a parlare, interrompendosi solo quando Podarge gli faceva una domanda su qualche particolare. Delle nuove torce sostituirono quelle di prima, ed egli continuò a parlare.
Bruscamente, si svegliò. Il sole penetrava coi suoi raggi da un’altra caverna, illuminando la tazza vuota e il tavolo sul quale aveva posato il capo, dormendo. Kickaha, sorridente, era in piedi accanto a lui.
«Andiamo» disse lui. «Podarge vuole che partiamo presto. È ansiosa di vendetta. E io voglio andarmene, prima che cambi idea. Non sai quanto siamo fortunati. Siamo i soli prigionieri ai quali ella abbia concesso la libertà.»
Wolff si sollevò, e mugolò per il dolore alle spalle e al collo. Aveva la testa confusa e pesante, ma aveva avuto dei postumi da sbronza ben peggiori.
«Cosa hai fatto, dopo che io mi sono addormentato?» domandò lui.
Kickaha sorrise allegramente.
«Ho pagato il prezzo finale. Ma non è stato male, no, niente male. Piuttosto strano, dapprima, ma io sono un tipo adattabile.»
Uscirono dalla caverna per entrare in quella contigua, e di là uscirono sull’ampia lingua di pietra che dava sul fianco della montagna. Wolff si voltò a dare un’ultima occhiata, e vide diverse aquile, statue verdi, immobili davanti all’ingresso della caverna interna. Si vide un lampo di pelle candida e di ali nere, quando Podarge passò rigidamente davanti ai giganteschi uccelli.
«Andiamo» disse Kickaha. «Podarge e le sue dilette hanno fame. Non hai visto, quando lei ha cercato di fare in modo che i gworl supplicassero misericordia. Devo dire una cosa a loro favore, non si sono lamentati, e non hanno gridato. Le hanno sputato addosso.»
Wolff sobbalzò, quando un urlo spaventoso si levò dalla caverna. Kickaha afferrò il braccio di Wolff, e lo costrinse ad affrettarsi. Molte altre grida allucinanti uscirono dai becchi delle aquile, mescolate agli ululati di esseri in preda alla paura e al dolore della morte.
«Avrebbe potuto toccare a noi» disse Kickaha. «Se non avessimo avuto qualcosa da dare in cambio, per le nostre vite.»
Cominciarono ad arrampicarsi e quando cadde la notte si trovarono mille metri più in alto. Kickaha aprì la borsa di cuoio che portava alla cintura, e ne trasse diversi articoli. Tra essi c’era una scatola di fiammiferi, con uno dei quali accese un falò. Carne e pane e una piccola bottiglia di vino rosso. La sacca, e il suo contenuto, erano un dono di Podarge.
«Dobbiamo arrampicarci per altri quattro giorni, prima di giungere al prossimo piano» disse il giovane. «Poi, troveremo il mondo favoloso di Amerindia.»
Wolff cominciò a formulare delle domande, ma Kickaha disse che prima doveva spiegargli la struttura fisica del pianeta. Wolff ascoltò pazientemente, e una volta udite le spiegazioni di Kickaha, non se ne pentì. Inoltre, la spiegazione di Kickaha corrispondeva a quanto aveva visto finora. L’intenzione di Wolff, di domandare a Kickaha come lui, evidentemente nativo della Terra, fosse arrivato laggiù, finì nel nulla. Il giovane, lamentandosi di non avere dormito per troppo tempo e di avere passato una notte particolarmente sfibrante, si addormentò.
Wolff fissò per qualche tempo le fiamme del fuoco morente. Aveva visto e subito troppo in troppo poco tempo, ma aveva da affrontare molte altre prove. Questo sarebbe accaduto se fosse riuscito a sopravvivere. Un grido lamentoso si levò dall’abisso, e una grande aquila verde strillò, nascosta nell’aria, sul fianco della montagna.
Si domandò dove fosse Chryseis in quel momento. Era viva, e, in caso affermativo, cosa stava facendo? E dov’era il corno? Kickaha aveva detto che dovevano trovare il corno se volevano avere qualche speranza di vittoria. Senza di esso, sarebbero stati inevitabilmente perduti.
Con questi pensieri, anch’egli si addormentò.
Quattro giorni dopo, quando il sole si trovava a metà del suo percorso intorno al pianeta, si issarono sul ciglio del dirupo. Davanti a loro si parò una pianura ondulata, che si sviluppava per più di duecento chilometri prima di sparire oltre l’orizzonte. Da entrambi i lati, a circa centocinquanta chilometri di distanza, si levavano delle catene montuose. Dovevano essere tanto alte da fare sfigurare l’Himalaya. Ma erano minuscoli topolini, accanto al monolito, Abharhploonta, che dominava quel settore del pianeta dai molti piani Abharhploonta era, così affermava Kickaha, a 2500 chilometri dal bordo, eppure sembrava a soli cento chilometri di distanza. Torreggiava come la montagna che avevano appena scalato.
«Adesso ti sei fatto un’idea» disse Kickaha. «Questo mondo non è a forma di pera. È una torre di Babele su scala planetaria. Una serie di colonne contorte, ciascuna più piccola di quella sottostante. All’apice di questa torre grande come la Terra si trova il palazzo del Signore. Come vedi, abbiamo davanti a noi ancora una lunga strada.»
Fece una pausa, poi proseguì:
«Ma è una vita degna, finché dura! Ho passato degli anni selvaggi e meravigliosi! Se il Signore mi colpisse in questo momento, non potrei lamentarmi. Sebbene, ovviamente, essendo umano compiangerei il mio destino di morire nella giovinezza! Perché credimi, amico mio, questi sono gli anni della mia giovinezza.»
Wolff non poté fare a meno di sorridere al giovane. Aveva un aspetto così allegro e accattivante, come una statua di bronzo toccata improvvisamente dalla vita, e desiderosa di trasmettere all’universo intero la sua gioia di vivere.
«D’accordo!» gridò Kickaha. «La prima cosa che dobbiamo fare è di trovare degli abiti adatti a te! La nudità è molto elegante nel piano sottostante, ma non su questo. Dovrai indossare per lo meno un perizoma, e una penna tra i capelli; altrimenti, i nativi ti disprezzeranno. E qui il disprezzo significa morte o schiavitù per l’oggetto di disprezzo.»
Cominciò a camminare sul bordo, seguito da Wolff.
«Osserva quanto è alta e verde e rigogliosa l’erba. Arriva al ginocchio, Bob. Offre pascolo agli animali. Ma è anche abbastanza alta da nascondere le bestie che si nutrono degli animali che vengono al pascolo. Sta’ attento! I puma della pianura e il lupo predatore e il cane cacciatore a strisce e la donnola gigante vagano tra le erbe. E poi c’è il Felis atrox. Una volta esso vagava nelle pianure del Sudovest nordamericano, e si estinse laggiù diecimila anni or sono. Qui è vivo e vegeto, più grosso di un terzo del leone africano, e feroce due volte tanto.
«Ehi, guarda laggiù! Dei mammut!»
Wolff voleva fermarsi a guardare le grosse bestie grige, che si trovavano a circa mezzo chilometro. Ma Kickaha lo spinse a proseguire.
«Ce ne sono molti in giro, e delle volte avrai il desiderio di non trovarne. Passa il tempo a sorvegliare l’erba. Se si muove in senso contrario al vento, dimmelo.»
Procedettero rapidamente per tre chilometri. Durante questo periodo, si avvicinarono a una banda di cavalli selvaggi. Gli stalloni partirono al galoppo per andare a vedere di chi si trattava, poi si fermarono, sbuffando e nitrendo, finché i due non furono passati oltre. Erano animali stupendi, alti, snelli, e neri o rossi o chiazzati.
«Qui non ci sono pony indiani» disse Kickaha. «Penso che il Signore abbia importato solo i prodotti migliori.»
Poco dopo, Kickaha si fermò davanti a una pila di rocce.
«La mia boa» disse lui. Da quel punto, si inoltrò nella pianura, procedendo diritto per un chilometro. Arrivarono davanti a un alto albero. Il giovane fece un salto, afferrò il ramo più basso, e cominciò ad arrampicarsi. Quando fu a metà del tronco, raggiunse un’apertura nello stesso, e ne tirò fuori una grossa borsa. Di nuovo a terra, Kichaha aprì la borsa e ne estrasse due archi, due faretre piene di frecce, due perizomi di pelle di antilope, e una cintura con una guaina di pelle, nella quale si trovava un lungo coltello d’acciaio.
Wolff indossò perizoma e cintura e prese l’arco e la faretra.
«Sai come usarli?» domandò Kickaha.
«Mi sono esercitato per tutta la vita.»
«Bene. Avrai più di una possibilità per mettere alla prova la tua abilità. Andiamo. Dobbiamo percorrere diversi chilometri.»
Cominciarono ad andare, col passo dei lupi: cento passi di corsa, cento passi ad andatura normale. Kickaha indicò la catena di montagne che si trovava a destra.
«Laggiù la mia tribù, gli Hrowakas, il Popolo dell’Orso, vive e caccia. A centoventi chilometri di distanza. Una volta là, possiamo passarcela bene per qualche tempo, e prepararci per il lungo viaggo che ci attende.»
«Non hai l’aspetto di un indiano» disse Wolff.
«E tu, amico mio, a tua volta non hai l’aspetto di un uomo di sessantasei anni. Ma eccoci qui. Bene. Ho atteso prima di raccontarti la mia storia, perché volevo sentire la tua. Stanotte parlerò.»
Quel giorno, non si scambiarono molte altre parole. Di quando in quando, Wolff vedeva qualche animale e lanciava un’esclamazione. C’erano grandi mandrie di bisonti, neri, pelosi, e molto più grossi dei loro cugini terrestri. C’erano bande di cavalli e una creatura che somigliava al cammello. Molti mammut, e una famiglia di mastodonti. Un’orda di sei lupi predatori corse accanto ai due uomini, a distanza ragionevole, per qualche tempo. Erano molto grossi.
Kickaha, vedendo la preoccupazione di Wolff, rise e disse:
«Non ci assaliranno, se non hanno fame. Con lutto quello che hanno intorno, è molto improbabile. Sono semplicemente curiosi.»
Poco dopo, i lupi giganteschi si allontanarono, e aumentarono l’andatura vedendo una mandria di antilopi uscire da una macchia d’alberi.
«Questo è il Nord America, com’era molto tempo prima della venuta dell’uomo bianco» disse Kickaha. «Nuovo, grande, ricco di spazio e di animali, con poche tribù che vagano in esso.»
Uno stormo di cento anatre volava su di loro. Dal cielo verde scese un falco, colpì come un fulmine, e lo stormo diminuì di un’unità.
«I Felici Territori di Caccia! gridò Kickaha.» Ma, a volte, non sono così felici!
Diverse ore prima che il sole scomparisse dietro la montagna, si fermarono vicino a un laghetto. Kickaha trovò l’albero sul quale aveva costruito una piattaforma.
«Stanotte dormiremo qui, a turno. L’unico animale che può attaccarci quassù è la donnola gigante, ma è quanto basta a preoccuparci. Inoltre, e questa è la cosa peggiore, potrebbero esserci dei gruppi di guerrieri.»
Kickaha se ne andò, con l’arco in pugno, e ritornò dopo quindici minuti con un grosso scoiattolo. Wolff aveva acceso un fuoco fumigante; arrostirono lo scoiattolo. Mangiando, Kickaha spiegò la topografia del paese.
«Puoi dire tutto del Signore, ma non che non abbia fatto un buon lavoro, disegnando questo mondo. Prendi questo piano, Amerindia. Non è esattamente piatto. Ha una serie di curve dolci, ciascuna lunga circa duecentocinquanta chilometri. Queste permettono alle acque di scorrere, ai laghi, ai torrenti e ai fiumi di formarsi. Non c’è neve su questo pianeta… non può esistere, essendo assenti le stagioni ed essendo il clima notevolmente uniforme. Ma piove ogni giorno… le nuvole vengono dallo spazio.»
Terminarono il pranzo e spensero il fuoco. Wolff fece il primo turno di guardia. Kickaha parlò per tutto il turno di guardia di Wolff. E Wolff rimase sveglio, durante il turno di guardia di Kickaha, ad ascoltare.
In principio, molto tempo prima, più di 20.000 anni, i Signori abitavano in un universo parallelo a quello della Terra. Allora, quelle creature non erano conosciute come Signori. Non erano molti, allora, perché erano i sopravvissuti di una millenaria lotta contro un’altra specie. Erano in tutto forse diecimila.
«Ma ciò che mancava loro in quantità, lo possedevano più che abbondantemente in qualità» disse Kickaha. «Possedevano una scienza e una tecnologia che rendono le nostre, quelle della Terra, simili alla cultura degli aborigeni della Tasmania. Erano in grado di costruire questi universi privati. E così fecero.
«In principio, ogni universo fu una specie di campo da gioco, un circolo di ritrovo cosmico per alcuni gruppi. Poi com’era inevitabile, dato che questi esseri erano esseri umani, non importa quanto fossero divini i loro poteri, essi litigarono. Il senso della proprietà era, in un certo senso, forte in loro quanto negli esseri umani. Ci fu una lotta, tra loro. Penso che si verificassero anche morti accidentali, e suicidi. Inoltre, l’isolamento e la solitudine dei Signori li rese megalomani, cosa naturalissima se consideri che ciascuno giocava la parte di un dio in sedicesimo e arrivava a credere nel suo ruolo.
«Per ridurre una storia durata molti eoni in poche parole, ti dirò che il Signore che ha fabbricato questo particolare universo, a un certo punto, è rimasto solo. Jadawin, così si chiamava, non aveva neppure una compagna della sua stessa razza. Non voleva compagni, comunque. Perché doveva dividere questo mondo con una creatura uguale a lui, quando poteva essere Giove con un milione di Europe, con le più leggiadre delle Lede?
«Aveva popolato questo mondo con delle creature catturate in altri universi, soprattutto quello della Terra, o create nei laboratori del palazzo in cima alla vetta più alta. Aveva creato delle bellezze divine e dei mostri esotici a volontà.
«L’unico guaio era che questi Signori non si accontentavano di governare un solo universo. Così cominciarono a fare piani di conquista per i mondi degli altri. E così la lotta prosegui. Essi eressero delle difese quasi inespugnabili, e concepirono armi d’offesa quasi invincibili. La battaglia divenne un gioco mortale. Questa fatale partita è inevitabile, se tu consideri che la noia e la stanchezza sono due nemici dai quali i Signori non possono difendersi. Quando sei quasi onnipotente, e le tue creature sono troppo basse e deboli per interessarti per sempre, cosa ti rimane di eccitante, se non rischiare la tua immortalità contro un altro immortale?»
«Ma come sei entrato, tu, in tutto questo?» domandò Wolff.
«Io? Il mio nome sulla Terra era Paul Janus Finnegan. Il secondo nome è il cognome della famiglia di mia madre. Come tu sai, è l’equivalente inglese del nome del dio bifronte latino, del dio dell’anno vecchio e nuovo e dei passaggi, il dio con due volti, uno che guarda davanti a sé, l’altro che guarda dietro.»
Kickaha sogghignò e disse:
«Giano è un nome molto appropriato, non trovi? Io sono un uomo di due mondi, e ho attraversato il passaggio che li divide. Non che sia mai ritornato sulla Terra, o che ne provi il desiderio. Qui ho avuto delle avventure e ho guadagnato una reputazione che non mi sarebbe mai stato possibile raggiungere su quel vecchio globo provinciale. Kickaha non è il mio solo nome, e su questo piano sono un capo, e negli altri ho una vasta influenza. Come scoprirai tu stesso.»
Wolff cominciava a dubitare dell’amico. Era stato così evasivo che Wolff sospettava che Kickaha avesse un’altra identità, della quale non voleva parlare.
«So quello che pensi, ma non crederci» disse Kickaha. «Sono un imbroglione, ma con te mi comporto onestamente. A proposito, sai da che cosa mi è venuto il nome che porto nella Tribù dell’Orso? Nella loro lingua, un kickaha è un personaggio mitologico, un imbroglione semidio. Qualcosa di simile al Vecchio Coyote degli Indiani delle Pianure, o Nanabozho degli Ojibway, o Wakdjunkaga dei Winnebago. Un giorno o l’altro ti dirò come ho guadagnato questo nome, e come ho fatto a diventare un membro del consiglio degli Hrowakas. Ma adesso ho da raccontarti delle cose più importanti.»