Wolff si adagiò sull’erba, per riposare finché il suo respiro affannoso non si fosse calmato. Pensò a come sarebbe stato beffardo che l’emozione fosse troppo grande per il suo vecchio cuore. Morto all’accettazione. Loro… chiunque «loro» fossero… lo avrebbero dovuto seppellire, e sulla sua tomba avrebbero dovuto scrivere: TERRESTRE SCONOSCIUTO.
Poi, si sentì meglio. Quando si rimise in piedi, riuscì perfino a ridacchiare. Preso così un po’ di coraggio, si guardò intorno. La temperatura era abbastanza confortevole, circa venti gradi, secondo un giudizio approssimativo. Nell’aria aleggiavano dei profumi strani e piacevolissimi. Richiami d’uccelli (per lo meno, sperava che si trattasse soltanto di qualche richiamo d’uccelli) venivano da ogni parte, intorno a lui. Da una certa distanza, giungeva un basso brontolio, ma egli non si spaventò. Era certo, senza avere alcuna base razionale sulla quale fondare la sua certezza, che si trattava soltanto del suono della risacca, trasformato dalla distanza. La luna era piena ed enorme, due volte e mezzo più grande di quella della Terra.
Il cielo aveva perduto il colore verde brillante che aveva avuto durante il giorno, ed era diventato, a parte l’irradiazione lunare, nero quanto il cielo notturno del mondo che lui aveva lasciato. Una moltitudine di grosse stelle si muoveva con una velocità e in direzione che lo intontirono, per la paura e la confusione. Una delle stelle scese verso di lui, divenne sempre più grossa, sempre più luminosa, per compiere un elegante passaggio a pochi metri dalla sua testa. Alla luce giallo-arancio che veniva dalla sua parte posteriore, riuscì a vedere quattro grandi ali ellittiche, molte zampe sottili e, per un attimo, la forma di una testa con delle antenne.
Era una strana forma di lucciola, con una larghezza d’ali di circa tre metri.
Wolff seguì con lo sguardo lo spostamento, l’espansione e la contrazione delle costellazioni viventi, fino a che non riuscì ad abituarsi. Si chiese quale direzione avrebbe dovuto prendere, e il rumore della marea finalmente lo decise. Una spiaggia, una linea costiera, per lo meno gli avrebbero offerto una base di partenza definita, dalla quale scegliere poi la sua meta, qualsiasi essa fosse. La sua marcia fu lenta e prudente, con numerose soste per ascoltare ed esaminare le ombre.
Si udì un possente grugnito, molto vicino. Wolff si appiattì al suolo, sull’erba che si trovava all’ombra di un grosso cespuglio, e cercò di trattenere il respiro. Si udì un fruscio. Un ramo scricchiolò. Wolff sollevò il capo di quel tanto che bastava a permettergli di vedere la radura illuminata dalla luna. Una forma enorme, eretta, bipede, oscura, e pelosa, era a pochissimi metri di distanza da lui.
Si arrestò di colpo, e il cuore di Wolff perse un battito. Il capo della creatura si muoveva avanti e indietro, così Wolff poté vedere un muso simile a quello di un gorilla. Però, non si trattava di un gorilla… in ogni modo, non di un gorilla terrestre. Il suo pelo non era di un nero uniforme. Il suo corpo era coperto di strisce a zigzag, bianche, che spiccavano sul nero che predominava. Le braccia erano molto più corte di quelle dei gorilla terrestri, e le gambe non solo erano più lunghe, ma più diritte. Inoltre, la fronte, a parte le enormi arcate sopraccigliari, era alta.
Brontolò qualcosa, e non si trattò di un verso animalesco o di un mugolio senza significato, ma di una sequenza di sillabe modulate chiaramente. Il gorilla non era solo. La luna verdastra mise in mostra della pelle nuda, dalla parte opposta a quella in cui si trovava Wolff. Apparteneva a una donna che camminava accanto al gorilla e le cui spalle erano circondate dall’enorme braccio della creatura.
Wolff non poteva vedere il volto della donna, ma le lunghe gambe sottili, le anche morbide e rotonde, le braccia formose, e i lunghi capelli neri gli fecero domandare a se stesso se la donna fosse tanto bella e perfetta anche vista dal davanti.
Lei parlò al gorilla con una voce che somigliava al suono di un campanello d’argento. Il gorilla le rispose. Poi i due uscirono dalla radura illuminata dalla luna verde, e scomparvero nell’oscurità della giungla.
Wolff non si alzò subito, perché era troppo scosso.
Finalmente, si levò in piedi e ricominciò a procedere tra i cespugli del sottobosco, che non era così impenetrabile e fitto come quello di una giungla terrestre. Anzi, i cespugli erano separati da ampie radure. Se il paesaggio non fosse stato così esotico, non avrebbe neppure pensato a una giungla. Somigliava molto di più a un giardino pubblico, compresa l’erba soffice, che era così corta da suggerire l’idea di essere stata tagliata di recente.
Dopo pochi altri passi, rimase sorpreso udendo un grugnito e vedendo un animale balzare davanti a lui. Riuscì a scorgere un paio di corna, un muso bianchiccio, dei grandi occhi acquosi, e un corpo pezzato. La cosa gli passò accanto e sparì, ma dopo pochi secondi udì dei passi vicino a lui. Si voltò, e vide quella specie di cervo a diversi metri di distanza. Quando la bestia si rese conto di essere stata notata, trotterellò verso Wolff e gli lambì la mano. Poi, cominciò a fare le fusa e cercò di strusciarsi contro il fianco dell’uomo. Dato che pesava probabilmente un quarto di tonnellata, Wolff cercò di dissuadere l’animale, con le buone maniere.
Poi si appoggiò alla bestia, le diede una grattatina dietro l’orecchio, e una pacca sul fianco. Quella specie di cervo lo leccò diverse volte con una lunga lingua umida, ruvida come quella di un leone. Le speranze di Wolff che la bestia si stancasse delle manifestazioni di affetto si avverarono in breve tempo. Se ne andò con uno scatto improvviso come quello che l’aveva fatta apparire.
Dopo la sua scomparsa, Wolff si sentì più sicuro. Un animale sarebbe stato così amichevole, con un essere del tutto sconosciuto, se ci fossero stati animali carnivori o cacciatori da temere?
Il ruggito della risacca divenne più forte. Nel giro di dieci minuti Wolff arrivò ai margini della spiaggia. Là si acquattò sotto un cespuglio enorme e ricco di fronde ed esaminò la scena illuminata dalla luna. La spiaggia era bianca e, tendendo la mano, scoprì che era fatta di sabbia finissima. Si perdeva in lontananza, da entrambe le parti, ed era ampia, tra la foresta e il mare, circa duecento metri. Da entrambe le parti, a una certa distanza, c’erano dei fuochi intorno ai quali si vedevano forme di uomini e donne. I loro scoppi di risa, le loro grida, sebbene trasformati dalla lontananza, rafforzarono la sua impressione di trovarsi di fronte a esseri umani.
Poi, si voltò a osservare la spiaggia che si stendeva davanti a lui. In un angolo, a circa trecento metri di distanza, quasi nell’acqua, c’erano due esseri. Quando li vide, gli si mozzò il respiro.
A colpirlo non fu quello che essi stavano facendo, ma la struttura dei loro corpi. Dalla cintola in su, l’uomo e la donna erano perfettamente umani, ma nel punto in cui avrebbero dovuto cominciare le gambe, iniziavano delle pinne.
Fu incapace di contenere la sua curiosità. Nascose il corno in un letto di erbe soffici come piume, e strisciò fino ai margini della giungla; quando fu davanti ai due, si fermò a guardare. Dato che il maschio e la femmina ora giacevano fianco a fianco, e parlavano, la loro posizione gli permise di studiarli in maniera più dettagliata. Si convinse del fatto che essi non avrebbero potuto assolutamente inseguirlo, sulla terraferma, e che non avevano armi. Poteva avvicinarli. Forse sarebbero stati amichevoli.
Quando fu a meno di venti metri dalla coppia, si fermò per studiarli di nuovo. Se erano un tritone e una sirena, non erano certo per metà pesci. Le pinne, al termine delle loro lunghe code, erano su un piano orizzontale, contrariamente a quelle dei pesci, che sono verticali. E sembrava che sulla coda non ci fossero scaglie. I loro corpi ibridi erano coperti di pelle bruna e liscia dalla testa alle pinne.
Tossì. I due sollevarono lo sguardo, e il maschio gridò e la femmina strillò. Con rapidità incredibile si sollevarono sulle loro code, fecero un balzo e si tuffarono in acqua. La luna illuminò brevemente una testa bruna che si sollevava dalle acque e una coda che si agitava.
Le onde rotolavano e si frangevano sulla sabbia bianca. La luna era immensa e verde e splendente. Un venticello spirava dal mare e accarezzava il suo volto sudato e andava a rinfrescare l’aria della giungla. Dall’oscurità alle sue spalle uscivano rare grida spettrali, e di lontano, lungo la spiaggia, veniva il suono di allegre grida umane.
Per qualche tempo, restò immerso nei suoi pensieri. La parlata delle due creature marine aveva avuto qualcosa di familiare, come quello dello zebrilla (così aveva battezzato il gorilla) e della donna. Non aveva riconosciuto nessuna parola, separatamente, ma i suoni e le combinazioni fonetiche avevano risvegliato qualcosa, nella sua memoria. Ma cosa? Certo, quelle creature non parlavano nessuna lingua che lui avesse mai sentito. Era forse simile a una delle lingue vive della Terra, che lui magari aveva ascoltato in un disco o al cinema?
Una mano gli strinse la spalla, lo sollevò e lo fece girare su se stesso. Il muso minaccioso e gli occhi cavernosi di uno zebrilla erano rivolti su di lui, e un alito greve d’alcool gli giunse alle nari. Lo zebrilla parlò, e la donna uscì dai cespugli. Si avvicinò lentamente, e lui, in un altro momento, avrebbe trattenuto il respiro di fronte a quel corpo stupendo e a quel volto meraviglioso. Disgraziatamente, in quel momento tratteneva il respiro per un altro motivo. Lo zebrilla avrebbe potuto scaraventarlo in mare, da un momento all’altro, con la massima facilità. Oppure, quella mano gigantesca avrebbe potuto stringerlo, riducendolo un ammasso di ossa fracassate e di carne sanguinante.
La donna disse qualcosa, e lo zebrilla rispose. Fu allora che Wolff comprese diverse parole. La loro lingua era simile al greco preomerico, al miceneo.
Non cominciò subito a parlare per rassicurarli sulle sue buone intenzioni e sulla sua mancanza di mezzi di offesa. Per prima cosa, era troppo stordito per riuscire a schiarire le idee. E poi, la sua conoscenza del greco di quel periodo era forzatamente limitata, anche se era abbastanza vicino a quello di Omero.
Finalmente, riuscì a pronunciare qualche frase inappropriata, ma a lui non interessava tanto la proprietà del linguaggio, quanto il fare comprendere chiaramente che non aveva cattive intenzioni. Udendolo, lo zebrilla disse qualcosa alla fanciulla, e posò sulla sabbia Wolff. Lui sospirò di sollievo, ma il dolore alla spalla lo richiamò subito alla realtà. L’enorme mano del mostro era incredibilmente forte. A parte le dimensioni e il folto pelo, la mano era perfettamente umana.
La donna strinse tra le dita un lembo della sua camicia. Il suo volto rifletteva un vago disgusto: più tardi Wolff avrebbe scoperto che le faceva schifo. Lei non aveva mai visto un uomo grasso prima di allora. Inoltre, i vestiti la sconcertavano. Continuò a tirare il lembo della camicia. Piuttosto che farsela togliere dallo zebrilla, dietro richiesta della fanciulla, Wolff preferì togliersela da solo. Lei la guardò con curiosità, la fiutò, disse: «Ugh!» e poi fece dei gesti.
Sebbene lui avesse preferito non capire, e non avesse avuto la minima intenzione di obbedire, decise di non opporsi. Non c’era ragione alcuna di deluderla, e magari di provocare l’ira dello zebrilla. Si tolse i vestiti, e aspettò altri ordini. La donna emise una risata acuta; lo zebrilla squittì e colpì la coscia di Wolff con la sua enorme mano, e parve che un’ascia stesse tagliando un tronco d’albero. Donna e zebrilla si abbracciarono strettamente e, ridendo istericamente, si avviarono allacciati insieme lungo la spiaggia.
Infuriato, umiliato, vergognoso, ma pure lieto di essersela cavata senza danni, Wolff tornò a infilarsi i calzoni. Raccolse la canottiera, le calze e le scarpe, e trotterellò sulla sabbia fino a raggiungere la giungla. Riprese il corno dal nascondiglio, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare e, finalmente, si addormentò.
Si svegliò al mattino, coi muscoli doloranti, affamato e assetato. La spiaggia brulicava di vita. Oltre i tritoni e le sirene che aveva visto la notte prima, diverse grosse foche dal mantello arancione correvano avanti e indietro, sulla sabbia, inseguendo grosse palle che venivano gettate da sirene e tritoni, e un uomo con corna caprine che gli spuntavano sulla fronte, gambe pelose e una corta coda caprina, inseguiva una donna che somigliava molto a quella che lui aveva visto con lo zebrilla. Questa, comunque, aveva i capelli biondi. Continuò a correre finché l’uomo con le corna non balzò su di lei e la fece cadere, ridendo, sulla sabbia. Quello che poi seguì gli dimostrò che quelle creature erano innocenti da qualsiasi senso del peccato, e prive di inibizioni, come dovevano esserlo stati Adamo ed Eva.
Questo era più che interessante, ma la vista di una sirena che mangiava gli ricordò delle necessità più impellenti e tassative. La sirena stringeva in una mano un grosso frutto giallo, ovale, e un emisfero che somigliava al guscio di una noce di cocco nell’altra. La corrispondente femminile dell’uomo con le corna caprine era seduta davanti a un fuoco, a pochi metri di distanza, e arrostiva un pesce infilato in un lungo bastone. L’odore gli fece venire l’acquolina in bocca, e il suo stomaco brontolò, imperiosamente.
Per prima cosa, doveva bere qualcosa. Dato che la sola acqua in vista era quella dell’oceano, si diresse verso la spiaggia e poi verso le onde.
L’accoglienza fu quella che si era aspettato: sorpresa, diffidenza, una certa apprensione. Tutti cessarono le loro attività, per quanto fossero interessanti, per guardarlo. Quando si avvicinò ad alcuni di loro, fu accolto da occhi spalancati, da bocche spalancate, e da una subitanea ritirata. Alcuni maschi rimasero fermi dov’erano, ma dal loro aspetto pareva che il minimo gesto di Wolff sarebbe bastato a farli scappare a gambe levate. Non che lui si sentisse di sfidarli, dato che il più gracile aveva dei muscoli che avrebbero facilmente spezzato il suo vecchio corpo stanco.
Si immerse nell’acqua, fino a quando questa non gli arrivò alla cintola, e assaggiò il liquido che lo circondava. Aveva visto che altri bevevano dal mare, e così sperava di trovare l’acqua accettabile. Era fresca e pura, e aveva un aroma che non aveva mai sentito prima. Dopo averne bevuta a sazietà, gli parve di avere ricevuto una trasfusione di sangue giovane. Uscì dall’acqua, e tornò sulla spiaggia, la attraversò e si rituffò nella giungla. Gli altri avevano ripreso a mangiare e a divertirsi, e, sebbene lo fissassero con occhiate penetranti, non gli dissero nulla. Lui sorrise, ma lasciò perdere, quando si accorse che li sconcertava. Nella giungla, cercò e trovò frutti e «noci di cocco» simili a quelli che aveva visto nelle mani della sirena. Il frutto giallo sapeva di pesca, e la polpa della pseudonoce sapeva di carne di manzo, delicatissima, condita con noce moscata.
Dopo, si sentì perfettamente soddisfatto, tranne che in un particolare: sentiva la mancanza della sua pipa. Ma il tabacco era una cosa che sembrava mancare, in quel paradiso.
Nei giorni seguenti, girò per la giungla e passò qualche tempo nell’oceano, o nelle sue vicinanze. Ormai, la popolazione della spiaggia si era abituata alla sua presenza, e molti avevano perfino cominciato a ridere, quando al mattino lui faceva le sue apparizioni. Un giorno, alcuni uomini e donne balzarono su di lui, e, ridendo a squarciagola, gli tolsero i vestiti. Lui corse dietro alla donna che stringeva i suoi pantaloni, ma lei scomparve nella giungla. Quando ritornò, era a mani vuote. Ormai, parlava abbastanza bene da essere compreso, se pronunciava le parole lentamente. I suoi lunghi anni di studio e di insegnamento gli avevano fornito un vasto vocabolario di greco, e doveva soltanto apprendere la cadenza, la pronuncia esatta e un certo numero di parole che non si trovavano nel suo dizionario.
«Perché hai fatto questo?» chiese alla bellissima ninfa dagli occhi neri.
«Volevo vedere quello che nascondevi sotto quegli orribili stracci. Nudo, sei brutto, ma quelle cose addosso ti facevano sembrare anche più brutto.»
«Osceno?» domandò, ma lei non comprese il significato della parola.
Lui si strinse nelle spalle, e pensò, Quando uno è in ballo… Solo che questa non era una sala da ballo, ma sembrava piuttosto il Giardino dell’Eden. La temperatura, diurna e notturna, era dolcissima, e variava al massimo di quattro o cinque gradi. Non era difficile trovare ogni varietà di cibo, non si doveva lavorare, niente tasse, niente politica, nessuna tensione, tranne una tensione sessuale facile a venire soddisfatta, nessun problema razziale o nazionalistico. Non c’erano conti da pagare. Oppure no? Il fatto che non si ottiene niente per niente è il principio basilare su cui si fonda l’universo della Terra In quel luogo succedeva lo stesso? Qualcuno avrebbe dovuto saldare i conti.
Di notte, dormiva su un comodo tappeto d’erba, in un albero cavo. Era uno dei tanti, perché la particolare configurazione di quegli alberi forniva centinaia di comodi asili. Wolff non restava a letto al mattino, comunque. Per alcuni giorni si alzò poco prima dell’alba, e osservò l’arrivo del sole. Arrivo era un termine migliore di sorgere, perché il sole, e questo era sicuro, non sorgeva. Dall’altra parte dell’oceano si levava un’immensa catena montuosa, così alta che non si vedeva la sua fine. Il sole appariva sempre da dietro la montagna, e quando giungeva era già alto sull’orizzonte. Procedeva diritto attraverso il cielo verde, e non calava, ma scompariva quando raggiungeva l’altra estremità della catena montuosa.
Un’ora dopo, appariva la luna. Anch’essa girava attorno alla montagna, appariva alla stessa altezza nel cielo, e scompariva dietro l’estremità opposta della montagna. Una notte sì e una no, pioveva a torrenti per un’ora. Wolff, di solito, si svegliava durante l’acquazzone, perché l’aria si faceva leggermente più fresca. Allora affondava vieppiù nella sua coltre d’erba, rabbrividiva e cercava di riaddormentarsi.
Ogni volta, trovava più difficile farlo. Si metteva a pensare al suo mondo, agli amici e al lavoro e agli svaghi che aveva avuto laggiù… e a sua moglie. Cosa stava facendo Brenda? Senza dubbio, era in pena per lui. Era sgradevole e piagnucolosa e spiacevole, ma, malgrado tutto ciò, lo amava. La sua scomparsa sarebbe stata una perdita e un duro colpo. Comunque, non avrebbe avuto preoccupazioni di ordine finanziario. Aveva sempre voluto fargli sottoscrivere più assicurazioni di quanto fossero le sue disponibilità; era stato un perenne pomo di discordia, questo, tra di loro. Poi, lui si ricordò che la donna non avrebbe ricevuto un centesimo di assicurazione per molto tempo, dato che non sarebbe stato breve il tempo necessario a legalizzare una dichiarazione di morte presunta. Eppure, anche se lei doveva aspettare quel giorno, avrebbe potuto sopravvivere con i sussidi previdenziali. Certo, sarebbe stato uno sbalzo notevole nel suo tenore di vita, ma avrebbe avuto di che sopravvivere.
Una cosa era certa, e cioè che lui non aveva la minima intenzione di tornare indietro. Stava recuperando la sua giovinezza. Sebbene mangiasse in misura notevole, stava perdendo peso, e i suoi muscoli si facevano più forti e più solidi. Aveva una forza nelle gambe e una sensazione di felicità perduta prima dei trent’anni, Il settimo giorno, passandosi una mano sulla testa, scoprì che i capelli gli stavano rispuntando. Il decimo giorno si destò con un forte dolore alle gengive. Si passò un dito sulle gengive, e si chiese se non fosse stato colpito da qualche malanno. Aveva dimenticato l’esistenza delle malattie, perché lui si era sentito incredibilmente bene, e nessuno del popolo della spiaggia, come lui lo chiamava, aveva mai l’aspetto malato.
Le gengive continuarono a dolergli per una settimana, e allora cominciò a bere il liquore fermentato naturalmente nelle «noci di cocktail». Queste crescevano in grossi agglomerati, in cima a un albero dai rami piccoli e gracili, e dalle foglie gialle simili a tabacco da pipa. Quando il guscio simile ai cuoio di una noce veniva spaccato da un sasso acuminato, si sprigionava un odore simile a un cocktail di frutta. Aveva il sapore del gin, con una punta di sherry e un vago sentore di tequila. Serviva benissimo ad alleviare sia il dolore alle gengive che il nervosismo causato dal dolore.
Dieci giorni dopo l’inizio del dolore alle gengive, spuntarono dieci piccoli denti bianchi e sanissimi. Inoltre, le otturazioni d’oro degli altri cominciavano a essere eliminate dal ritorno del materiale naturale. E il suo cranio precedentemente calvo era coperto di folti capelli neri.
E non era tutto. Il nuoto, le corse e le scalate degli alberi avevano cancellato tutto il grasso superfluo. Le vene varicose della vecchiaia erano scomparse, e la sua carne era liscia e solida. Poteva correre a lungo, senza che il respiro gli diventasse affannoso o il cuore gli balzasse in gola. Di questo ne era felice, ma si domandava anche come e perché accadesse.
Chiese a diversi rappresentanti del popolo della spiaggia qualcosa sulla loro giovinezza apparentemente eterna. Avevano tutti una sola risposta:
«È il volere del Signore.»
Dapprima, pensò che parlassero del Creatore, e questo gli parve strano. Per quanto ne sapeva, non avevano religione. Certo, nessuna religione con un culto organizzato, riti e sacramenti.
«Chi è il Signore?» domandava. Pensava che, forse, poteva essersi sbagliato sul significato della loro parola, wanaks, che forse aveva un significato lievemente diverso da quello inteso da Omero.
Ipsewas, lo zebrilla, il maschio più intelligente che avesse finora conosciuto, rispose:
«Vive sulla cima del mondo, oltre Okeanos.»
Ipsewas indicò un punto al di là del mare, in alto, verso la catena montuosa che sorgeva dall’altra parte.
«Il Signore vive in un palazzo stupendo e inespugnabile sulla cima del mondo. Fu lui che creò questo mondo e noi. Noi facciamo quello che ci dice il Signore e giochiamo con lui. Ma siamo sempre spaventati. Se lui si infuria, o se è deluso, può ucciderci. O peggio.»
Wolff sorrise e annuì. Così Ipsewas e gli altri non avevano spiegazioni, sulla propria origine e sull’origine del loro mondo, più razionali di quelle che la gente della Terra possedesse. Ma il popolo della spiaggia possedeva qualcosa che i terrestri non avevano. L’uniformità di opinioni. Tutti coloro ai quali rivolse la sua domanda, gli diedero la stessa risposta dello zebrilla.
«È il volere del Signore. Lui ha creato il mondo e tutti noi.»
«Come lo sapete?» domandò Wolff. Non si aspettava più di quanto non avrebbe ottenuto sulla Terra, formulando la medesima domanda. Ma rimase sorpreso.
«Oh!» rispose una sirena, Paiawa. «Ce lo ha detto il Signore. E poi, me l’ha detto anche mia madre. Lei doveva saperlo: il Signore ha fabbricato il suo corpo; lei si ricorda di quando lo fece, sebbene questo sia accaduto tanto, tanto tempo fa.»
«Davvero?» disse Wolff, domandandosi se lo stesse prendendo in giro o no, e pensando che sarebbe stato difficile controbattere con le sue stesse armi. «E dov’è tua madre? Mi piacerebbe parlarle.»
Paiawa indicò l’occidente.
«Laggiù, da qualche parte.»
«Da qualche parte» poteva anche trovarsi a migliaia di chilometri di distanza, dato che lui non aveva la minima idea dell’estensione della spiaggia.
«Non la vedo da molto tempo» aggiunse Paiawa.
«Da quanto?»
Paiawa batté le sue lunghe ciglia, e strinse le labbra. Labbra da baciare, pensò Wolff. E quel corpo! Il ritorno della giovinezza stava riportando un pungente desiderio sessuale.
Paiawa gli sorrise e disse:
«Tu stai davvero mostrando interesse per me, vero?»
Lui arrossì, e avrebbe voluto andarsene, ma voleva una risposta alle sue domande.
«Da quanti anni non vedi tua madre?» domandò di nuovo.
Paiawa non fu in grado di rispondere. La parola «anno» non era nel suo vocabolario.
Lui si strinse nelle spalle e si allontanò in fretta, per scomparire dietro le foglie dai colori violentissimi che racchiudevano la spiaggia. Lei lo chiamò, dapprima mollemente, poi, quando si rese conto che lui non si sarebbe voltato, con rabbia. Formulò alcune osservazioni pungenti, paragonandolo agli altri maschi. Lui non discusse con lei… sarebbe stato indecoroso, e poi, quanto lei diceva era vero. Anche se il suo corpo stava rapidamente riguadagnando forza e gioventù, era ancora imperfetto in confronto ai superbi esemplari che lo circondavano.
Lasciò perdere questi pensieri, e cercò di riflettere sulle parole di Paiawa. Se fosse riuscito a trovare sua madre, o una delle contemporanee di sua madre, avrebbe potuto scoprire qualcosa di più sul Signore. Non intendeva dubitare della storia di Paiawa, che avrebbe potuto sembrare incredibile sulla Terra. Quella gente non era capace di mentire. Le storie fantasiose, per loro, erano ancora più inconsuete. Questa sincerità aveva i suoi vantaggi, ma significava anche una limitazione nell’immaginazione e nel senso dell’umorismo. Ridevano spesso, ma di cose ovvie e banali. Tutto il loro senso comico era basato su fatti semplici ed evidenti. La loro comicità era grossolana, fatta di burle.
Imprecò, perché trovava difficile seguire il filo logico del suo ragionamento. Trovava difficile concentrarsi, sempre di più ad ogni giorno che passava. Dunque, a che cosa stava pensando quando aveva cominciato a meditare sui difetti della società locale? Ah, sì, la madre di Paiawa! Alcuni, tra i più anziani, sarebbero stati in grado di illuminarlo… se fosse riuscito a trovarli. Come poteva identificarli, se tutti gli adulti parevano della stessa età? C’erano pochissimi bambini, forse tre tra le diverse centinaia di esseri che aveva finora incontrato. Inoltre, tra gli uccelli e gli animali (alcuni piuttosto strani, e comunque, numerosissimi) solo una mezza dozzina non erano adulti.
Se c’erano poche nascite, l’equilibrio era mantenuto dall’assenza di morti. Aveva visto tre animali morti, due uccisi incidentalmente, e il terzo rimasto vittima di un duello per una femmina. Anche quello era stato un incidente, perché il maschio sconfitto, un’antilope color limone con quattro corna curvate a forma di otto, si era voltata per fuggire e si era rotta l’osso del collo saltando un tronco d’albero.
La carne dell’animale morto non aveva avuto la minima possibilità di imputridirsi e puzzare. Diverse creature onnipresenti, che somigliavano a piccole volpi bipedi dal naso bianco, dalle lunghe orecchie pendenti, e dalle zampe di scimmia, avevano mangiato il cadavere nel giro di un’ora. Le volpi pattugliavano la giungla e individuavano qualsiasi cosa… frutti, noci, bacche, cadaveri. Avevano il gusto del marcio; ignoravano la frutta fresca, e sceglievano quella avariata. Ma non rappresentavano una nota sgradevole nella sinfonia della bellezza e della vita. Anche ne! Giardino dell’Eden, i raccoglitori di rifiuti erano necessari.
A volte Wolff guardava oltre l’oceano azzurro, dalla bianca spuma, verso la catena montuosa, chiamata Thayaphayawoed. Forse il Signore viveva lassù. Forse valeva la pena di tentare di attraversare l’oceano, e poi di scalare quella montagna, nella speranza che alcuni dei misteri di quell’universo venissero svelati.
Ma più tentava di valutare l’altezza della Thayaphayawoed, meno riusciva ad averne un’idea, seppur vaga. Le cime oscure si levavano sempre più in alto, fino a che l’occhio non si stancava e la mente arretrava, confusa. Nessun uomo avrebbe potuto vivere lassù in cima, perché non ci sarebbe stata aria da respirare.