CAPITOLO XIII

Wolff bevette abbastanza per allentare i fili che sembravano tendersi intorno a lui. Cominciò a parlare con Madonna Alison, moglie del barone di Wenzelbricht. Era una donna dai capelli neri e dagli occhi azzurri, di bellezza statuaria, e indossava una veste bianca e aderentissima. Era così scollata, che la gentildonna avrebbe potuto contentarsi dell’effetto esilarante che provocava sugli uomini: ma Madonna Alison continuava a lasciar cadere il suo ventaglio, e a chinarsi a raccoglierlo. In qualsiasi altro momento Wolff sarebbe stato felice di rompere la sua lunga astinenza sessuale con quella donna. Era evidente che non avrebbe avuto il minimo fastidio, perché lei era lusingata delle attenzioni che le rivolgeva il grande Von Wolfram. Aveva sentito parlare della sua vittoria su Von Laksberg. Ma lui riusciva a pensare solo a Chryseis, che doveva trovarsi in qualche punto del castello. Nessuno aveva parlato di lei, e lui non osava parlare. Eppure provava un desiderio irrefrenabile di formulare la domanda, e più volte fu costretto a contenersi a fatica.

Dopo qualche tempo, e proprio al momento per lui più opportuno… dato che non avrebbe potuto ulteriormente rifiutare le scoperte allusioni di Madonna Alison senza offenderla… Kickaha giunse al suo fianco. Kickaha aveva portato con sé il marito di Alison, per fornire all’amico un pretesto per filarsela in maniera onorevole. Più tardi, Kickaha gli rivelò di avere sottratto Von Wenzelbricht a un’altra donna, col pretesto di una chiamata da parte di sua moglie. Kickaha e Wolff se ne andarono insieme, lasciando il barone ubriaco a spiegare alla donna quello che voleva. Dato che né lui né sua moglie lo sapevano, avrebbero avuto una conversazione interessante, anche se piuttosto caotica.

Wolff fece segno al funem Laksfalk di raggiungerli. Insieme, i tre finsero di cercare, traballando, un luogo di decenza. Quando si furono sottratti alla vista di coloro che si trovavano nella sala da pranzo, i tre percorsero rapidamente un lungo corridoio. Senza che nessuno li notasse, salirono quattro rampe di scale. Erano armati solo di pugnale, perché sarebbe stato un insulto indossare armature e spade a pranzo. Wolff, comunque, era riuscito a sottrarre una corda dalle tende del suo appartamento. Teneva la corda intorno alla vita, sotto la veste.

Il cavaliere giudaico disse:

«Ho sentito che Abiru parlava al suo attendente, Rhamnish. Parlavano nella lingua dei mercanti di H’vaizhum, certo non sapendo che io avevo viaggiato sul fiume Guzirit e nella giungla. Abiru ha domandato a Rhamnish se egli aveva scoperto dove Von Elgers aveva portato Chryseis. Rhamnish ha risposto che aveva impiegato tempo e oro per estorcere informazioni ai servi e alle guardie. Era riuscito a scoprire soltanto che la fanciulla si trovava nella parte orientale del castello. I gworl, tra parentesi, sono nelle segrete.»

«Perché Von Elgers ha nascosto Chryseis?» domandò Wolff. «Non appartiene ad Abiru?»

«Può darsi che il barone abbia fatto dei progetti su di lei…» disse Kickaha. «Se è bella e straordinaria come tu dici…»

«Dobbiamo trovarla!»

«Non perdere la testa. La troveremo. Oh, oh, ecco una guardia in fondo al corridoio. Cammina verso di lui… e traballa di più.»

La guardia sollevò la lancia, quando essi si fermarono, dondolando su se stessi, davanti a lui. Con voce gentile ma ferma, disse loro che dovevano tornare indietro. Il barone aveva proibito a chiunque, sotto pena di morte, di avanzare oltre.

«Così sia» disse con voce strascicata Wolff, fingendo di voltarsi. Con un balzo felino saltò contro l’armigero e afferrò la lancia. Prima che la sbalordita sentinella potesse gridare, l’uomo fu buttato contro la parete, e l’impugnatura della lancia fu premuta contro la sua gola. Wolff continuò a premere. Gli occhi della sentinella si dilatarono, il volto divenne scarlatto, poi bluastro. Dopo un minuto, cadde come un sacco di patate, morto.

Il giudeo trascinò il corpo lungo il corridoio, e lo gettò in un ripostiglio. Quando ritornò, disse di avere nascosto il cadavere in una cesta.

«Peccato!» disse allegramente Kickaha. «Forse era un bravo ragazzo. Ma se dobbiamo combattere per aprirci la strada, avremo d’ora in poi un nemico di meno.»

Purtroppo, il morto non aveva chiavi.

«Von Elgers probabilmente è l’unico a possedere la chiave, e sarà piuttosto difficile estorcergliela» disse Kickaha. «Va bene. Ce la faremo.»

Discesero il corridoio, ed entrarono in un’altra stanza. Si arrampicarono sulla sua finestra. Lungo la parete esterna c’erano diverse decorazioni, teste di leone, di drago, d’orso, e di mostri inimmaginabili. Gli ornamenti non erano stati preparati per favorire una scalata, ma un uomo coraggioso o disperato poteva farcela. Quindici metri sotto di loro, la superficie del fossato rifletteva la luce delle torce che illuminavano il ponte levatoio. Fortunatamente, la luna era coperta da grosse nuvole di tempesta, e quelli che si trovavano sotto non avrebbero visto la loro temeraria impresa.

Kickaha abbassò lo sguardo, e vide Wolff, che stringeva un grondone di pietra, con un piede su una testa di serpente.

«Ehi, ho dimenticato di dirti che il barone ha riempito il fossato di draghi d’acqua? Non sono molto grossi, sono lunghi solo sette metri e non hanno zampe. Ma, di solito, sono denutriti.»

«A volte trovo il tuo spirito di cattivo gusto» disse furioso Wolff. «Zitto e andiamo avanti.»

Kickaha emise una risatina soffocata, e continuò a salire. Wolff lo seguì, dopo avere abbassato lo sguardo per assicurarsi che il giudeo li stesse seguendo sano e salvo. Kickaha si fermò e disse:

«Qui c’è una finestra, ma è sbarrata. Non credo ci sia nessuno dentro. È buio.»

Kickaha continuò a salire. Wolff passò davanti alla finestra, e si fermò a guardare. Era buio come in un pozzo senza fondo. Infilò la mano tra le sbarre, e andò a tentoni, finché non trovò una candela. Sollevandola con cautela, in modo che potesse uscire dalla sua custodia, la fece passare attraverso le sbarre. Con un braccio stretto intorno a una sbarra d’acciaio, rimase sospeso mentre con l’altra mano cercava un fiammifero nella sacca che portava alla cintura.

Dall’alto giunse la voce di Kickaha:

«Che stai facendo?»

Wolff glielo disse, e Kickaha rispose:

«Ho chiamato per due volte Chryseis; non c’è nessuno lì dentro. Smettila di perdere tempo.»

«Voglio essere sicuro.»

«Sei troppo minuzioso; presti troppa attenzione ai particolari. Devi dare dei colpi molto forti, se vuoi buttare giù un albero. Vieni.»

Senza rispondergli, Wolff accese il fiammifero. Si accese e si spense quasi, per il vento, ma lui riuscì a infilarlo tra le sbarre con sufficiente rapidità. La luce mostrò una stanza vuota di occupanti.

«Sei soddisfatto?» disse la voce di Kickaha, più debole, perché stava continuando a salire. «Abbiamo un’altra possibilità, la bertesca. Se non c’è nessuno… Comunque, non so come… ugh!»

Più tardi, Wolff fu lieto di essere stato tanto riluttante a rinunciare alla speranza che Chryseis si trovasse in quella stanza. Aveva lasciato bruciare il fiammifero, fin quasi a scottarsi le dita, e solo allora lo aveva lasciato cadere. Immediatamente dopo, e dopo l’esclamazione soffocata di Kickaha, fu colpito da un corpo che cadeva. Il colpo per poco non gli staccò il braccio. Emise un grugnito che faceva il paio con quello che veniva dall’alto, e rimase appeso al sostegno con una sola mano. Kickaha rimase attaccato a lui per diversi secondi, rabbrividì, poi sospirò profondamente e riprese a salire. Nessuno disse una parola sull’episodio, ma se non fosse stato per la cocciutaggine di Wolff, la caduta di Kickaha avrebbe fatto perdere l’equilibrio a Wolff, che si sarebbe trovato in posizione precaria su un grondone, e forse anche il funem Laksfalk sarebbe stato coinvolto nella caduta, perché si trovava proprio sotto Wolff.

La bertesca era piuttosto vasta. Dalle sue finestre a forma di croce filtrava della luce.

Si udì un ruggito sotto di loro, e un rumore più debole dall’interno del castello. Wolff si fermò e abbassò lo sguardo, pensando di essere stato visto. Però, sebbene ci fossero molti ospiti e armigeri sul ponte levatoio, e molti impugnavano delle torce, nessuno aveva lo sguardo sollevato. Sembrava che cercassero qualcuno tra gli arbusti e gli alberi.

Wolff pensò che fosse stata notata la loro assenza, e scoperto il cadavere della guardia. Avrebbero dovuto aprirsi la strada con le armi. Ma prima dovevano trovare e liberare Chryseis: dopo si sarebbe pensato alla lotta.

Kickaha. davanti a lui. disse:

«Vieni, Bob!»

La sua voce era così eccitata che Wolff fu sicuro del fatto che l’amico aveva trovato Chryseis. Salì in fretta, più in fretta di quanto permettesse il buon senso. Era necessario adoperare prudenza, per la particolare conformazione della bertesca, che sporgeva dalla parete del castello. Kickaha giaceva sul tetto della bertesca, e fece segno a Wolff di avvicinarsi.

«Devi restare appeso a testa in giù per guardare dalla finestra. Bob. È là dentro, ed è sola. Ma la finestra è troppo stretta per entrarvi.»

Wolff strisciò avanti, mentre Kickaha gli teneva le gambe. Si protese sempre di più, e vide il fossato sotto di lui, e si piegò tanto che sarebbe caduto, se Kickaha non gli avesse tenuto strette le gambe. La fessura nella pietra mostrava il volto di Chryseis, capovolto. Sorrideva, ma le sue guance erano bagnate di lacrime.

Dopo non ricordò quanto si fossero detti, perché la emozione fu immensa, subito seguita da un brivido di sconforto e frustrazione, poi seguita da un’altra emozione febbrile. Sentiva di poter parlare all’infinito, e allungò le mani per sfiorare quelle di lei. Lei tese le mani invano, cercando di raggiungerlo.

«Non importa, Chryseis» disse lui. «Sai che siamo qui. Non ce ne andremo senza di te, lo giuro!»

«Chiedile dov’è il corno!» disse Kickaha.

Udendo la domanda, Chryseis disse:

«Non lo so, ma credo lo abbia Von Elgers.»

«Ti ha dato fastidio?» domandò con ira Wolff.

«Non fino a ora, ma non so quanto tempo possa passare, prima che mi porti a letto» rispose lei. «Si trattiene solo perché non vuole abbassare il prezzo che potrà ottenere dalla mia vendita. Dice di non avere mai visto una donna come me.»

Wolff imprecò, poi rise. Era degno di lei parlare con tanta franchezza, perché nel mondo del Giardino il narcisismo era un atteggiamento abituale.

«Piantala con le chiacchiere inutili» tagliò corto Kickaha. «Ci sarà tempo per tutto, se riusciremo a uscire di qui.»

Chryseis rispose alle domande di Wolff con la massima semplicità possibile. Gli descrisse la strada che si doveva percorrere per raggiungere la sua stanza. Non sapeva quante guardie erano appostate all’esterno e lungo le scale.

«So una cosa che il barone non sa» disse lei. «Lui crede che Abiru mi stia portando da Von Kranzelkracht. Non è vero. Abiru vuole scalare la Doozvillnavava per raggiungere Atlantide. Mi vuole vendere al Rhadamanthus.»

«Non ti venderà a nessuno, perché lo ucciderò» disse Wolff. «Adesso devo andare, Chryseis, ma sarò di ritorno il più presto possibile. E non da questa parte. Sappi intanto che io ti amo.»

Chryseis gridò:

«Nessun uomo me l’ha detto da mille anni! Oh, Robert Wolff, io ti amo! Ma ho paura! Io…»

«Non devi avere paura di niente» disse lui. «Non finché io sarò vivo, e non ho affatto intenzione di morire.»

Disse a Kickaha di tirarlo su. Quando fu sul tetto, per poco non svenne: il sangue gli era salito alla testa, e lo stordimento fu tale da sopraffarlo.

«Il giudeo sta già scendendo» disse Kickaha. «Lo ho mandato a vedere se possiamo discendere dalla stessa strada, e se è possibile scoprire cosa ha provocato quel frastuono.»

«Noi?»

«Non credo. La prima cosa da farsi, in questo caso, sarebbe stato andare a vedere da Chryseis. E non è venuto nessuno.»

La discesa fu anche più lenta e pericolosa della salita, ma riuscirono a farcela senza passi falsi. Il funem Laksfalk li stava aspettando davanti alla finestra dalla quale erano partiti.

«Hanno scoperto la guardia che tu hai ucciso» annunciò il giudeo. «Ma non immaginano che noi c’entriamo. I gworl sono fuggiti dalle segrete, e hanno ucciso diversi uomini. Si sono impadroniti delle loro armi. Alcuni sono fuggiti all’esterno, ma non tutti.»

I tre lasciarono la stanza e ben presto si unirono a coloro che perlustravano il castello. Non ebbero la minima possibilità di salire le scale in cima alle quali si trovava la stanza dove era prigioniera Chryseis. Senza dubbio, Von Elgers aveva raddoppiato la sorveglianza.

Vagarono per il castello per diverse ore, esplorandolo. Notarono che, sebbene la fuga dei gworl avesse svegliato i cavalieri teutonici, erano tutti ancora ubriachi. Wolff suggerì di tornare nella loro camera, e di discutere i piani possibili. Forse sarebbero riusciti a trovare qualcosa.

La loro stanza era al quinto piano, e dava su una finestra che si trovava sotto la finestra della prigione di Chryseis. Per raggiungerla furono costretti a superare molti uomini e donne che puzzavano tutti di birra e di vino, che blateravano e traballavano e gridavano e non combinavano nulla di buono. La loro stanza non avrebbe dovuto essere stata perquisita, perché solo loro e il capo delle guardie ne possedevano la chiave, e il soldato era stato troppo occupato altrove per pensare a entrare là dentro. E poi, come potevano i gworl passare attraverso una porta chiusa?

Nel momento in cui Wolff entrò, seppe che, in un modo o nell’altro, i gworl c’erano riusciti. L’odore di frutta marcia era quasi insopportabile. Spinse dentro gli altri due, e rapidamente chiuse e sprangò la porta alle loro spalle. Poi si voltò, stringendo il pugnale. Anche Kickaha, con le narici dilatate e gli occhi stretti, sfoderò la lama. Solo il funem Laksfalk non capiva che c’era qualcosa di più di un odore sgradevole.

Wolff gli mormorò qualcosa; il giudeo si diresse verso la parete, per prendere le spade. Poi si fermò. Non c’erano.

Lentamente e silenziosamente Wolff entrò nell’altra stanza. Kickaha, dietro di lui, portava una torcia. La fiamma tremolò e lanciò ombre bitorzolute contro la parete, ombre che fecero sobbalzare Wolff. Si sentì sicuro di avere visto i gworl.

La luce avanzò; le ombre sparirono, o divennero forme inoffensive.

«Sono qui» disse Wolff. «O se ne sono andati appena. Ma dove sono andati?»

Kickaha indicò i pesanti tendaggi tirati davanti alla finestra. Wolff si avvicinò a essi, e cominciò a vibrare colpi attraverso il velluto purpureo. La sua lama incontrò soltanto l’aria e la pietra della parete. Kickaha aprì la tenda e vide ciò che il pugnale aveva detto: non c’erano gworl.

«Sono entrati dalla finestra» disse il giudeo. «Ma perché?»

In quel momento Wolff alzò lo sguardo e bestemmiò. Fece un passo indietro, per avvertire i suoi amici, ma loro avevano già sollevato gli occhi. Lassù, appesi per le gambe ai pesanti sostegni delle tende, c’erano due gworl. Entrambi stringevano delle lunghe lame coperte di sangue. Inoltre, uno stringeva il corno d’argento.

Le due creature irrigidirono i muscoli delle gambe non appena si accorsero di essere state scoperte. Riuscirono entrambe a compiere una complicata piroetta, e a cadere in posizione eretta. Quello di destra scalciò. Wolff si gettò da una parte, poi si rialzò, ma Kickaha aveva fallito il colpo col suo pugnale e il gworl invece aveva mirato giusto. La lama si affondò nel braccio di Kickaha.

L’altro lanciò il suo coltello al funem Laksfalk. Colpì il giudeo al plesso solare, con una violenza che lo fece barcollare. Pochi secondi dopo, il giudeo si rialzò, e così si vide perché il pugnale non lo aveva colpito: indossava la maglia di ferro sotto l’abito normale.

Ma ormai il gworl col corno era giunto sulla finestra. Gli altri non poterono inseguirlo, perché il gworl rimasto stava combattendo furiosamente. Riuscì ad abbattere nuovamente Wolff, ma stavolta con un pugno. Si gettò contro Kickaha come un ariete, coi piedi in avanti, e abbatté anche lui. Il giudeo, con il pugnale in mano, balzò su di lui e cercò di colpirlo allo stomaco, ma la creatura gli afferrò il polso e strinse fino a farlo urlare di dolore.

Kickaha, a terra, sollevò il piede e colpì con un calcio il gworl alla caviglia. La creatura barcollò, ma non cadde perché Wolff lo afferrò. Avvinghiati, girarono intorno, in una danza mortale. Ognuno cercava di spezzare la schiena dell’altro. Wolff riuscì ad avere il sopravvento. Urtarono contro la parete, e fu il gworl ad avere la peggio, perché colpì la parete con la nuca.

Per un millesimo di secondo il gworl rimase stordito. Questo bastò a Wolff. Lo strinse contro di lui, e pigiò con tutte le sue forze la spina dorsale della creatura malevola, puzzolente e bitorzoluta. Troppo muscoloso e troppo robusto, il gworl resistette alla stretta mortale. Ma gli altri due uomini erano già su di lui, con i pugnali sfoderati. Colpirono e colpirono e avrebbero continuato a cercare un punto vitale nella massa cartilaginea della coriacea creatura, se Wolff non avesse detto loro di fermarsi.

Fece un passo indietro, e mollò il gworl, che cadde sanguinante a terra. Wolff lo ignorò per un istante, e andò a guardare dalla finestra, dalla quale era fuggito il gworl che stringeva il corno. Un gruppo di cavalieri, che impugnavano delle torce, stava percorrendo il ponte levatoio, diretto verso la campagna. La luce mostrava solo le acque immobili del fossato; non c’erano gworl in vista. Wolff si voltò a guardare il gworl che era rimasto.

«Si chiama Diskibibol, e l’altro è Smeel» disse Kickaha.

«Smeel deve essere annegato disse Wolff.» Anche se fosse stato capace di nuotare, i draghi d’acqua lo avrebbero divorato. Ma lui non era capace di nuotare.

Wolff pensò al corno che giaceva tra la melma, sul fondo del fossato.

«A quanto sembra, nessuno ha visto cadere Smeel. Così per il momento il corno è al sicuro laggiù.»

Il gworl parlò. Sebbene usasse il tedesco, la sua voce riusciva a modulare con difficoltà i suoni.

«Morirete, uomini. Il Signore vincerà; Arwoor è il Signore; non può essere sconfitto da creature sudicie come voi. Ma prima di morire, soffrirete delle più… delle più…»

Cominciò a tossire, sputò sangue, e continuò a dibattersi, finché morì.

«Faremo meglio a sbarazzarci del cadavere» disse Wolff. «Potremmo trovare difficile spiegare il motivo della sua presenza qui. E Von Elgers potrebbe collegare alla loro presenza in questa stanza il corno mancante.»

Un’occhiata dalla finestra gli mostrò che i cavalieri erano già lungo la strada che conduceva al villaggio. Per il momento, almeno, non c’era nessuno sul ponte. Sollevò il pesante cadavere, e lo spinse fuori dalla finestra. Dopo avere fasciato la ferita di Kickaha, Wolff e il giudeo eliminarono le prove della lotta.

Il funem Laksfalk parlò solo quando ebbero terminato. Il suo volto era pallido e cupo.

«Quello era il corno del Signore. Vi chiedo di dirmi come è giunto qui e qual è la vostra parte in questa… in questa apparente empietà.»

«È giunto il momento della verità» disse Kickaha. «Parla tu, Bob. Per una volta, non mi sento in grado di sostenere la conversazione.»

Wolff era preoccupato per Kickaha, perché anche il suo viso era pallido, e il sangue stava uscendo dalla ferita, e macchiava la pesante fasciatura. Malgrado ciò, disse al giudeo quanto poteva, nel minor tempo possibile.

Il cavaliere ascoltò attento, sebbene non potesse fare a meno di porre delle domande di quando in quando, e di imprecare in qualche punto particolarmente sorprendente.

«Per Dio!» disse quando gli parve che Wolff avesse finito. «Questa storia di un altro mondo mi avrebbe indotto a chiamarti mentitore, se i rabbini non mi avessero già detto che i miei antenati, e quelli dei teutonici, sono giunti da un mondo simile. Poi c’è il Libro del Secondo Esodo, che dice la stessa cosa e afferma che anche il Signore è giunto da un mondo diverso.

«Malgrado ciò, ho sempre pensato che queste storie fossero il genere di fantasticherie preferito dai santi uomini, che sono sempre un po’ pazzi. Non avrei mai immaginato di dirlo forte, perché non avrei voluto venire lapidato per eresia. E poi, c’era sempre la possibilità che si trattasse della verità. E il Signore punisce coloro che lo negano; su questo non c’è dubbio.

«Ora, voi mi mettete in una situazione che nessuno potrebbe invidiare. Vi conosco per i due cavalieri più grandi e gloriosi che abbia mai avuto la fortuna d’incontrare. Siete uomini che non direbbero mai una menzogna, in questa situazione; su questo, potrei giurarci. E la vostra storia sa di verità come l’armatura del grande uccisore di draghi, il funem Zilberbergl. Eppure, non so.»

Scosse il capo:

«Cercare di entrare nella cittadella del Signore, cercar di colpire il Signore! Questo mi spaventa. Per la prima volta in vita mia, io, Leyb funem Laksfalk, ammetto di avere paura.»

Wolff disse:

«Tu ci hai dato la tua parola. Ti liberiamo da essa, ma ti chiediamo di restare fedele al tuo giuramento. Non devi dire nulla a nessuno della nostra impresa.»

Rabbioso, il giudeo disse:

«Non ho detto che vi avrei abbandonato! Non lo farò, almeno non ancora. C’è una cosa che mi fa credere che diciate la verità. Il Signore è onnipotente, eppure il suo corno sacro è stato prima nelle vostre mani, poi in quelle dei gworl, e il Signore non ha fatto nulla. Forse…»

Wolff rispose che non aveva tempo di aspettare che lui prendesse una decisione. Il corno doveva essere ritrovato ora, mentre ce n’era l’opportunità. E Chryseis doveva essere liberata appena possibile. Li portò fuori dalla stanza, in un’altra che, per il momento, non era occupata; là presero tre spade in sostituzione delle loro, che i gworl dovevano avere gettato fuori dalla finestra nel fossato. Dopo pochi minuti, erano fuori dal castello, fingendo di cercare i gworl tra gli alberi.

Ormai quasi tutti i teutonici che erano usciti erano ritornati nel castello. I tre attesero che i ricercatori decidessero che non c’era nessun gworl nei paraggi. Quando l’ultimo degli audaci fu passato oltre il ponte levatoio, Wolff e i suoi amici spensero le loro torce. Due sentinelle rimasero nella garitta alla fine del ponte levatoio. Costoro, comunque, si trovavano a cento metri di distanza, e non potevano vedere nell’ombra dove i tre si nascondevano. Inoltre, erano troppo occupati a discutere gli eventi della notte e a guardare nell’oscurità dei boschi. Non erano le sentinelle regolari, perché queste erano state uccise dai gworl quando essi si erano conquistati la libertà, passando dal ponte levatoio.

«Il corno deve trovarsi nel punto immediatamente sottostante la nostra finestra» disse Wolff. Solo che…

«I draghi d’acqua» disse Kickaha. «Avranno portato i corpi di Smeel e Diskibibol nelle loro tane, dovunque siano. Ma potrebbero essercene degli altri nei paraggi. Io andrei, ma la mia ferita li attirerebbe subito.»

«Stavo semplicemente parlando da solo» disse Wolff. Cominciò a togliersi i vestiti. «Quanto è profondo il fossato?»

«Lo scoprirai» rispose Kickaha.

Wolff vide brillare qualcosa di rosso al riflesso della luce delle torce del ponte levatoio. L’occhio di un animale, pensò. Un attimo dopo, lui e gli altri furono presi all’interno di qualcosa di puzzolente e cedevole. La sostanza, qualsiasi cosa fosse, gli coprì gli occhi.

Lottò disperatamente, ma silenziosamente. Sebbene non sapesse chi fossero i suoi assalitori, non intendeva svegliare la gente del castello. Qualunque fosse stato l’esito della lotta, non era affare per quelli del castello: Wolff lo sapeva bene.

Più si dibatteva, più strettamente la rete si appiccicava e lo imprigionava. Alla fine, furioso, ansimante, si trovò completamente avvolto. Soltanto allora una voce parlò, bassa e raschiante. Un coltello tagliò la rete, per lasciare esposto il viso. Alla fioca luce delle lontane torce, egli vide altre due figure avviluppate da quel bozzolo, e una dozzina di forme bitorzolute. Il puzzo di frutta marcia era soffocante.

«Io sono Ghaghrill, lo Zdrrikh’agh di Abbkmung. Voi siete Robert Wolff e il nostro grande nemico Kickaha, e il terzo non lo conosco.»

«Il barone funem Laksfalk!» disse il giudeo. «Liberami, e scoprirai subito se io sia un uomo buono da conoscere o no, marciume puzzolente!»

«Zitto! Sappiamo che avete ucciso in qualche modo due dei nostri migliori uccisori, Smeel e Diskibibol, anche se loro non dovevano poi essere così tremendi, se sono riusciti a farsi sconfiggere da gente come voi. Abbiamo visto cadere Diskibibol dal nostro nascondiglio nei boschi. E abbiamo visto Smeel saltare col corno.»

Ghaghrill fece una pausa, poi proseguì:

«Tu, Wolff, andrai a cercare il corno nelle acque e lo porterai da noi. Se lo farai, giuro per l’onore del Signore che vi lasceremo liberi tutti e tre. Il Signore vuole Kickaha, ma non quanto il corno, e ha detto che non dovevamo ucciderlo, anche se per non farlo avessimo dovuto lasciarlo scappare. Noi obbediamo al Signore, perché è il più grande degli uccisori.»

«E se rifiuto?» disse Wolff. «Con i draghi d’acqua, nel fossato per me sarebbe morte quasi certa.»

«Sarebbe morte certa, se rifiutassi.»

Wolff ci pensò su. Era logico che scegliessero lui, fu costretto ad ammettere. La tempra e la fedeltà del giudeo non erano conosciute dai gworl, e Kickaha, che costituiva un prezzo inferiore solo al corno, era anche gravemente ferito, e la ferita avrebbe subito attirato su di lui i draghi d’acqua. Wolff, se era amico di Kickaha, sarebbe tornato. Certo, non potevano giurare sulla profondità dei sentimenti di Wolff per Kickaha. Questo era un rischio che avrebbero dovuto correre comunque.

Una cosa era certa. Nessun gworl si sarebbe avventurato in acque così profonde, se poteva fare in modo che un altro compisse il lavoro.

«Benissimo» disse Wolff. «Liberatemi, e andrò a prendere il corno. Ma almeno datemi un coltello per difendermi dai draghi.»

«No!» disse Ghaghrill.

Wolff si strinse nelle spalle. Quando fu libero dalla rete, si tolse tutti gli indumenti, tranne la camicia. Questa copriva la corda arrotolata intorno alla vita.

«Non farlo, Bob» disse Kickaha. «Non puoi fidarti di un gworl, come non puoi fidarti del suo padrone. Ti prenderanno il corno e poi ci faranno quel che vorranno. E rideranno di noi, per essere stati i loro strumenti.»

«Non ho scelta» disse Wolff. «Se trovo il corno, sarò di ritorno. Se non ritornerò, saprai che sono morto tentando.»

«Morirai comunque» disse Kickaha. Si udì il colpo di un pugno. Kickaha bestemmiò sottovoce.

«Di’ ancora un’altra parola, Kickaha» disse Ghaghrill, «e ti taglierò la lingua. Questo il Signore non lo ha proibito.»

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